Una classe di diversamente abili
Quando mi hanno detto che avrei avuto in classe una studentessa non vedente, Rie, mi sono sentita, allo stesso tempo, spaventata e sfidata.
Lavorare in classi di studenti “normali” è indubbiamente più rilassante, ma riuscire a far sì che questi studenti continuino a fare le stesse cose insieme a qualcuno che “a prima vista” non ne sarebbe in grado è a dir poco esaltante.
Il punto della mia storia è questo: grazie a Rie sono arrivata alla conclusione che non c’è niente di impossibile quando si riesce a valorizzare la diversità di ognuno.
Mi spiego: ho tentato di scrivere questo articolo più volte e mi sono sempre chiesta quale “scoperta” volessi trasmettere agli altri. Più o meno quella che hanno fatto tutti i compagni di viaggio di Rie: averla in classe è stato un vantaggio perché ha fatto loro sfruttare abilità che altrimenti sarebbero rimaste inutilizzate e ha fatto loro capire che ci sono altri modi, ugualmente validi, di arrivare a una soluzione. E questi modi, senza Rie, non avrebbero mai potuto “vederli”.
Insomma, questi studenti hanno imparato il relativismo in assoluto, quello che, oltre che in presenza di ostacoli linguistici, gli servirà nel momento in cui dovranno essere in grado di riconoscere i propri limiti e di vedere nelle risorse degli altri un aiuto a migliorare e progredire.
Rie è stata mia studentessa per due mesi, quattro ore al giorno, tutti i giorni dal lunedì al venerdì: ogni studente che è passato per la “sua” classe è rimasto affascinato dall’atmosfera che si era creata e non sono stati pochi quelli che, invitati dopo un paio di lezioni ad andare ad un livello superiore, hanno resistito e insistito per rimanere ancora qualche giorno.
E questo lungo preambolo mi sembra doveroso anche per me in quanto insegnante, per ricordarmi quanto fossi anch’io scettica nei tanti momenti precedenti l’azione e commossa di fronte ai successi di questa studentessa coraggiosa e preziosa.
Fare tutti le stesse cose, senza rallentare il ritmo della classe: a distanza di qualche mese, sono fortemente convinta che questo sia possibile.
Ci sono state fasi diverse del percorso di Rie: quella in cui non aveva nessun testo, quella in cui aveva una decina di testi trascritti in braille su un grosso quaderno, quella in cui aveva altri testi sul suo computer, sempre in braille, e quella finale, in cui questi testi, attraverso un cavo che collegava il computer braille a un portatile, erano visibili in stampatello sul portatile stesso.
Ogni fase ha richiesto una programmazione minuziosa dei tempi, degli scambi, dei modi in cui rispondere ad eventuali domande.
Lettura
Per esempio, quanto ci mette un non vedente a leggere un testo? Nel caso di Rie, circa il doppio di un vedente. Ma a differenza dei suoi compagni, la quantità di informazioni che ricordava Rie, forse perché anche le sue mani contribuivano alla concentrazione sui significati, era di gran lunga superiore.
Questo significava che, in un tipo di lezione in cui gli studenti leggono quattro volte e si confrontano in coppie fra una lettura e l’altra, bastava che lei leggesse la metà delle volte per raggiungere la stessa consapevolezza. Allora il problema era creare degli intervalli di rilettura, tra i quali non ci fosse confronto, in modo da dare a Rie, dopo tali intervalli, la stessa capacità di interagire.
Ecco perché gli studenti leggevano testi senza titolo e tra la prima e la seconda lettura ne inventavano uno; oppure stabilivano se a scrivere fosse un uomo o una donna, o, ancora, decidevano se la storia raccontata fosse plausibile anche nella loro cultura. E così via.
Rigorosamente tutti, al momento del confronto a coppie, dovevano girare il foglio e smettere di leggere: chi gli dava il diritto, infatti, di essere in vantaggio rispetto a Rie, che doveva necessariamente smettere di far scorrere le dita sul foglio per poter prestare attenzione al compagno?
E vi assicuro che tutti giravano il foglio.
Più complicata era la parentesi lessicale (la quale si sarebbe potuta migliorare ancora), cioè il momento prima dell’ultima lettura, in cui ognuno sceglieva un numero limitato di parole di cui voleva conoscere il significato e poi lo domandava al compagno.
È lì che ho cominciato a capire che i vedenti, talvolta, sono dei diversamente abili della comunicazione, non si accorgono che si può mostrare una cosa anche senza vederla.
Ogni studente che ha lavorato con Rie, ha ricevuto delle istruzioni “speciali”, che lo aiutassero a farsi capire senza sentirsi inadeguati. Così, ad esempio, ricevevano la consegna, quando chiedevano il significato di una parola, di leggere anche la frase in cui si trovava (per permettere a Rie di trovare velocemente il punto nel testo) e di andare in ordine, senza saltare da una parte all’altra della lettura. La loro pronuncia non doveva essere approssimativa, ecco perché tutte le volte che Rie non capiva la parola dovevano essere pronti a farne lo spelling servendosi delle classiche associazioni con le principali città italiane.
Per finire, nessuno poteva usare il dizionario: io ero l’ultimo e unico referente autorizzato a rispondere ad eventuali domande.
Anch’io ho dovuto imparare tanto: per esempio, che i disegnini sulla lavagna non sono utili e neanche i gesti e i mimi, ma i suoni si. In quel periodo, il mio vocabolario si è arricchito di sinonimi di ogni genere e di una serie di rumori da spettacolo teatrale: e dire che non ho mai amato essere al centro dell’attenzione!!!
Cloze
Anche i Cloze non erano cosa semplice: quando Rie non aveva nulla, un compagno di classe doveva leggere il Cloze e, insieme, decidevano la soluzione. Ma i vedenti spesso non “vedono” che non si può, ad esempio, leggere la frase fino allo spazio in cui inserire il verbo e fermarsi per aspettare la risposta: bisogna che si finisca la frase e che si dica “spazio” quando si passa per il punto in cui si deve mettere il verbo. E poi bisogna star attenti a differenziare bene le parole (anche in questo caso lo spelling era da tenere in considerazione) e, soprattutto, non si deve aver paura di chiedere “che ne pensi?”, oppure “Ripeto?” o ancora “secondo me è così e secondo te?”, perché protrarsi verso il compagno e guardarlo con aria di attesa non è esattamente efficace!!!!
Come per la lettura, nel tempo necessario a concludere il Cloze, tutti gli altri lo facevano individualmente e facevano un primo confronto a coppie; poi si formavano nuove coppie e una persona andava a confrontare i propri risultati con quelli di Rie e del compagno, seguendo le stesse regole di sopra.
Tutte le nuove coppie o gruppi di tre avevano la consegna di decidere un max di domande da fare a cui avrei dato risposta.
Alla fine di questo percorso, tutti avevano fatto due confronti e avevano delle domande per l’insegnante, che dovevano porre leggendo chiaramente la frase e partendo dall’inizio del brano.
A proposito dei testi scritti, come avevo accennato, esiste un sistema di scrittura che permette, attraverso un cavo, di collegare un portatile e un computer braille, di modo che la persona non vedente legga in braille e quella vedente in Word. Questo sistema ha facilitato le cose perché il compagno di Rie poteva chiedere “Che significa questa parola?” andandoci su con il cursore e Rie la leggeva direttamente in braille. Purtroppo per il primo mese non avevamo idea che esistesse questa chance.
Ricostruzione di conversazione e Puzzle linguistico
Ma veniamo a quelle attività specialissime che sono la Ricostruzione di conversazione e il Puzzle linguistico, di cui non mi stancherò mai di parlare. La Ricostruzione di conversazione, come molti sanno, ha la caratteristica di presentare un contesto molto spesso mimato (soprattutto ai livelli più bassi, e qui si parla di un secondo e poi di un terzo livello) e di lasciare la parola agli studenti, le cui ipotesi vengono modificate focalizzando le parole sulle dita e indicandole per correggerle o commentarle.
Nella classe di cui vi parlo la Ricostruzione di conversazione funzionava più o meno così: l’insegnante diceva “adesso tutti attenti. Rie ascolta bene e se non capisci qualcosa dimmelo”; poi raccontava un contesto e, spesso e volentieri, lo mimava e chiedeva “cosa sto facendo?”. È bellissimo vedere come, grazie a Rie, gli studenti smettessero di essere reticenti e si prodigassero a spiegare la situazione. Poi arrivava la fatidica domanda: “Che dice?” e via alle ipotesi. L’insegnante fa ripetere l’ipotesi chiamando per nome chi l’ha detta, così Rie sa chi sta parlando, poi dice “mi ripeti la prima parola? La seconda? La terza?” ecc. intanto, come sempre, visualizza sulle dita. Così Rie segue la voce dell’insegnante che scandisce il movimento delle dita per tutti gli altri.
Nella parte finale, gli studenti dettano “parola per parola” e Rie segue e scrive. Da lì tutti fanno domande come sempre.
Passiamo al Puzzle linguistico: gli studenti ascoltano qualche secondo di un brano più lungo già sentito e tentano di trascriverlo.
Poi si confrontano.
Come di fa a far confrontare Rie con un compagno, se quest’ultimo non sa leggere il braille?
Si cambia obiettivo: il compagno ha quello di raccogliere l’ipotesi di Rie, cioè di riscriverla alla perfezione. Chiede lo spelling, chiede se ci sono spazi, punti, virgole, chiede il significato di eventuali parole che non conosce.
Solo in un secondo momento comincia a dire quello che lui ha scritto e Rie segue sulla propria trascrizione e, mi accorgo con gioia, che scrive o cambia solo quello che le sembra logico.
Nel frattempo gli altri hanno fatto due cambi e si torna da ascoltare. Rie continua a lavorare con la stessa persona e solo alla fine si aggiunge uno studente alla coppia per un ulteriore scambio di idee. Quel che i compagni di Rie hanno imparato a capire, è che Rie sente di gran lunga meglio della maggior parte di loro e poco a poco vogliono sapere cosa ha scritto e spesso, anche quando lei si è sbagliata, cambiano la loro versione.
Quando tutte le coppie sono arrivate a un punto di stasi, tocca all’insegnante, che, alla lavagna, trascrive un problema (quello che le viene presentato da uno studente chiamato a caso) e poi chiede eventuali differenze con le altre coppie e chiede chiarimenti sul significato sulla forma e sul contesto, fino a quando non riesce a aiutare la classe a trovare la soluzione del problema.
Generalmente quello che si evita è l’eco, il ripeter quello che lo studente dice: esattamente il contrario di questo caso.
Credo di non aver mai fatto tanto eco in vita mia con tanta attenzione a non tralasciare nessun suono; in più si aggiunga la costante scansione: la prima parola? La seconda? Tutto quello che serve perché Rie abbia perfettamente chiaro quello che sta succedendo alla lavagna. Segue le ipotesi e le proposte “adesso scrivo due proposte: la prima è…; la seconda è…”, riascolta la frase “allora la prima ipotesi è…; la seconda è…”, risponde a eventuali domande “che ne dici Rie? Secondo te?” e cancella con gli altri “Ora cancello ….. È rimasto….”, riascolta, risegue il ragionamento e arriva con gli altri alla soluzione. Così bene che una compagna scettica mi dice “Katia, dovresti rileggere per Rie” e io le rispondo “Ma Rie non mi ha chiesto di ripetere. Vuoi vedere che Rie ha scritto tutto?”. Lei guarda lo schermo e, incredula, annuisce. E io sono rimasta senza voce, ma sono felice.
Canzone
E siamo al punto in cui degli incauti, inconsapevoli studenti mi chiedono: “ci fai fare una canzone? Dài!!!!”. E come si fa a far fare una canzone di cui non tutti vedono il testo? E a fargliela cantare (altrimenti qual è il bello della canzone?)?
Questa à la mia proposta: si fa un primo ascolto libero (oppure, se nella canzone c’è una parola che si ripete frequentemente tutti devono cambiare di posto quando la sentono e Rie deve urlare “hey!”). Il giorno prima avevo preparato un numero di indovinelli equivalenti al numero delle strofe e dei ritornelli: sono indovinelli lessicali, cioè gli studenti devono trovare delle coppie di parole che variano per una lettera. Dopo il primo ascolto si dividono gli studenti in coppie e ogni coppia riceve un indovinello (diverso da quello delle altre coppie). Quando lo risolve ha come premio la prima strofa. Le coppie la leggono e fanno eventuali domande sul significato a me (anzi, le altre coppie usano il dizionario, se vogliono). Quando si arriva al ritornello tutte le coppie devono impararlo a memoria. Si procede così fino a completare il testo della canzone. A questo punto tutti sanno di cosa parla e hanno imparato il ritornello: non resta che cantare!!!
È proprio vero che i giochi sono importanti e che si deve trovare il modo di farli fare: ecco perché al gioco del mimo è stato sostituito il mimo senza mimo. Quello in cui si può fare indovinare una frase solo parlando e la penalizzazione và a chi muove le mani, fa segni e indica.
Quando ho iniziato il gioco non sapevo se Rie avrebbe partecipato: quando mi ha detto di sì ho fatto salti di gioia per una settimana, anche perché è stata la migliore del suo gruppo.
Teatro
Concludo con la messa in scena della vera storia di Cenerentola. È un’attività lunga che comincia con il ricordare la storia si Cenerentola (o raccontarla a chi non la sa), reimmaginarla oralmente, decidere quali sono le scene principali, stabilire i personaggi e assegnare le parti. Quando ognuno ha la propria, si chiede di provare l’ultima scena, fino a saperla alla perfezione. O gruppi si dividono in parti diverse della classe (o se possibile in più classi) e provano: il che non significa soltanto parlare, ma anche gesticolare, muoversi, cambiare espressione. Poi si prova la prima scena, poi tutto.
Quando i gruppi sono pronti, riprende l’intera storia (e i gruppi portano da casa oggetti vestiario e qualsiasi altra cosa ritengano necessaria).
Rie è stata una fantastica sorellastra, e, insieme ai suoi compagni, si è seduta, si è alzata, spostata e ha declamato. Insomma, una perfetta messa in scena.
Conclusione
Dietro queste note non c’è nessuna morale, solo il desiderio di condividere un percorso nato dal timore di avere in classe una persona non vedente e chiusosi con il dispiacere della sua partenza. Perché la presenza di Rie mi ha messo davanti ai miei limiti e li ha scardinati, mi ha aperto alla sua diversità, mi ha permesso di cercare (e forse anche in alcuni casi di trovare) strade nuove nella mia didattica.
E ringrazio il giorno in cui davanti alla possibilità di chiederle di trasformare in lezioni individuali la sua iscrizione alla classe non ho ceduto alla paura e ho voluto provare a vedere cosa sarebbe successo.