La Ricostruzione di conversazione
1.1. Che cos’è la Ricostruzione di conversazione e a che serve?
La Ricostruzione di conversazione è un’attività di presentazione di lingua parlata: ciò che viene presentato dall’insegnante è un brano (in genere formato da non meno di quattro battute e non più di dieci) di un dialogo più esteso tra due o più locutori. Al termine dell’attività gli studenti dovrebbero aver memorizzato tutte le battute del brano ed essere in grado di ripeterle sostenendo rispettivamente i ruoli dei partecipanti al dialogo.A questo punto la domanda cruciale sembra essere quella relativa alla funzione e agli scopi di tale attività. Dalla risposta a una simile domanda ci attendiamo due corollari: una valutazione dell’opportunità e della rilevanza dell’attività stessa e una serie di indicazioni sulle modalità ottimali della sua esecuzione, cioè sulle strategie che meglio di altre consentono di raggiungerne gli scopi.
1.2. Anzitutto, e in breve: una lingua storico-naturale può essere considerata essenzialmente come un meccanismo complesso che correla significati e suoni (o segni grafici, ma ai fini del presente discorso il canale non è rilevante). Un meccanismo, cioè, che, data una sequenza fonica, consente di individuarne il significato e, dati dei significati, li traduce in una o più sequenze foniche ad essi corrispondenti. Il percorso suono à significato riguarda la ricezione; il percorso significato à suono la produzione.
Ora, conoscere una lingua vuol dire possedere un tale meccanismo e altresì apprendere una lingua significa apprendere un tale meccanismo. Se io conosco l’italiano e voglio comunicare qualcosa in tale lingua, dovrò ricorrere al meccanismo “lingua italiana” per formare una sequenza di suoni che esprima esattamente quello che io intendo esprimere. Sarà tale meccanismo a suggerirmi quali parole usare, quali terminazioni assegnare a queste parole, in che ordine disporle, come pronunciarle e così via. Se io ora voglio comunicare la stessa cosa ma in tedesco, dovrò interpellare il meccanismo “lingua tedesca”, dal quale riceverò istruzioni diverse per la formazione della sequenza fonica appropriata.
Poiché in queste pagine ci occupiamo unicamente di produzione di lingua e non di ricezione, considereremo soltanto quel settore del meccanismo-lingua che presiede alla produzione e che chiameremo meccanismo di produzione.Diremo pertanto che insegnare ad uno studente a produrre in una determinata lingua vuol dire attivare in lui l’apprendimento del meccanismo di produzione di quella lingua. Analizziamo ora un tale meccanismo più da vicino.
Possiamo affermare, in prima istanza, che esso consiste in un insieme di regole che applicano significati in suoni e identificare in esso tre componenti: il componente lessicale, il componente morfosintattico e il componente fonologico. L’entrata di tale meccanismo è costituita da un certo insieme di significati da comunicare e l’uscita da una o più frasi che esprimono esattamente quei significati.
Sennonché, nel comportamento linguistico effettivo, le frasi non vengono prodotte in isolamento, ma all’interno di contesti – linguistici, extralinguistici, cognitivi. Di conseguenza il nostro meccanismo conterrà anche una serie di istruzioni circa i modi in cui nell’attività comunicativa si tiene conto di tali contesti: del contesto linguistico (si pensi, ad esempio, al fenomeno del riferimento anaforico tramite pronome), del contesto extralinguistico (si considerino, ad esempio, le varie forme di riferimento deittico, espressioni cioè del tipo “questo”, “qui”, “domani”, “due ore fa”, ecc.), dell’enciclopedia, cioè delle conoscenze intorno al mondo che parlante e ascoltatore possiedono indipendentemente dalla comunicazione in atto (si veda ad esempio la possibilità di omettere o di esprimere per via ellittica informazioni che si suppongono già note all’ascoltatore).
Infine, sul comportamento linguistico influiscono, secondo regolarità a tutt’oggi non sufficientemente esplorate dalla ricerca teorica, altri fattori collettivamente e genericamente riconducibili entro la categoria dei rapporti tra lingua e cultura/società: fattori quali ruolo sociale, atteggiamento psicologico, convenzioni comunicative idioculturali (si pensi alle “regole sequenziali” che, diverse da cultura a cultura, specificano la sequenza e il reciproco incastro degli atti linguistici dei locutori all’interno di una situazione data, ad. es. fare acquisti in un negozio), e altri ancora. Il nostro meccanismo pertanto prevede anche un complesso di istruzioni riguardanti tali fattori e le regolarità ad essi relative.
Abbiamo detto più indietro che imparare a produrre in una lingua vuol dire apprendere il meccanismo di produzione di quella lingua: si può ora avere un’idea leggermente più dettagliata di quali ambiti di conoscenze ciò implichi.
1.3. Immaginiamo ora di voler elaborare un’attività finalizzata all’apprendimento da parte dello studente di tale meccanismo.
Ci pare che un’attività del genere debba rispondere ad almeno due requisiti. Essa dovrebbe innanzi tutto porre lo studente a contatto di vicende comunicative realistiche, e ciò per due motivi: perché solo all’interno di tali vicende è possibile comprendere e analizzare, e perciò catturare, la natura e la complessità del meccanismo-lingua nei molteplici aspetti cui abbiamo più su accennato e perché lo studente verrà a trovarsi psicologicamente agevolato quando affronterà nella realtà vicende già sperimentate in classe. Il secondo requisito della nostra attività è che non si dovrebbe erroneamente assumere che in tale processo di apprendimento lo studente parta da zero, ma dovrebbe tener conto di (e anzi sfruttare) quanto egli già conosce.
Sulla base di questi due requisiti e di tutto quello che precede, immaginiamo pertanto di sottoporre allo studente una vicenda comunicativa – un dialogo -, senza però rivelargli quali sono le frasi effettive che i due (o più) locutori si scambiano, ma esplicitando soltanto che cosa essi intendono comunicare, quali sono i loro scopi nel parlare, e specificando inoltre tutti i connotati linguisticamente pertinenti, entro tale vicenda, del contesto extralinguistico, dell’enciclopedia dei locutori, dei rispettivi ruoli sociali, degli atteggiamenti psicologici, e così via. A questo punto chiediamo allo studente di immedesimarsi nel personaggio che sta parlando e di formulare la battuta corrispondente a ciò che egli intende comunicare e poi prendiamo le mosse dall’ipotesi dello studente e conduciamolo passo dopo passo a colmare la distanza che separa tale ipotesi, probabilmente inappropriata, incompleta, scarsamente corretta, dalla sequenza che noi avevamo preventivamente progettato.
Nel far tutto ciò noi avremmo: fornito allo studente delle conoscenze sul meccanismo di produzione della nostra lingua-oggetto (mostrandogli come arrivare a dire compiutamente ciò che egli voleva dire ma sapeva dire solo parzialmente o inadeguatamente); ricreato per lo studente le condizioni reali di un reale comunicatore (il quale vuoi dire qualcosa, per qualche scopo, con qualche atteggiamento, entro un qualche contesto, in una qualche società); utilizzato le cognizioni di partenza dello studente come occasione per un suo impegno costruttivo e come punto di riferimento su cui innestare ulteriori conoscenze.
Ebbene, nel delineare le direttrici di una simile ipotetica attività non abbiamo fatto altro che riprodurre i tratti salienti della Ricostruzione di conversazione. Ne abbiamo fin qui descritto funzioni e requisiti, e abbiamo sinteticamente tracciato un profilo della sua dinamica. Intendiamo ora analizzarne in dettaglio un esempio nella sua concreta esecuzione e nel far ciò fornire ulteriori precisazioni in merito.
2.1. Insegno lingua italiana in una classe di livello intermedio composta da cinque studenti, che chiamerò rispettivamente A, B, C, D, E. Il numero non è rilevante: tutti i passi del procedimento che descriverò e tutte le relative considerazioni sono applicabili a qualunque classe di almeno due studenti e senza un limite massimo di unità. Il ristretto numero di studenti che figura nel presente esempio è dovuto unicamente all’esigenza di non appesantire la descrizione. Ove necessario, precisazioni ulteriori verranno aggiunte a proposito di classi più numerose.
Del pari, né la provenienza linguistica degli studenti né l’esistenza o meno di omogeneità linguistica sono discriminanti per la struttura e i caratteri dell’attività, come non lo è il livello di competenza nella lingua italiana della classe.
Intendo presentare il seguente brano di conversazione.
Giorgio: Dovrebbe essere alle dieci. Comunque per maggior sicurezza domanda a Giancarlo.
Luisa: No, perché in un primo momento era stato detto alle nove, quindi molti sanno alle nove e in caso andrebbero informati del cambiamento.
Giorgio: Certo. Come ripeto, io credo che si siano messi d’accordo per le dieci. Ma, se parli con Giancarlo, da lui puoi avere un’informazione certa.
2.2.A. Do avvio all’attività trasmettendo agli studenti le seguenti informazioni relative alla vicenda: (1) Luisa è insegnante in una scuola; (2) oggi è giovedì; (3) per la mattina di sabato prossimo è stato fissato un incontro tra gli insegnanti della scuola per discutere di alcune questioni; (4) lunedì scorso, quando l’incontro è stato deciso, gli organizzatori, che sono alcuni degli stessi insegnanti, hanno stabilito che avesse inizio alle ore 9; (5) ieri, mercoledì, Luisa ha sentito dire da qualcuno che l’ora dell’incontro era stata posticipata dalle 9 alle 10; (6) quindi Luisa è incerta sull’ora dell’incontro, se sia alle 9 o alle 10. Aggiungo inoltre che: (7) in questo momento Luisa si trova a passare in un corridoio della scuola; (8) lungo il corridoio incrocia Giorgio; (9) Giorgio è un collega di Luisa; (10) Luisa blocca Giorgio e gli domanda quale delle due alternative, le ore 9 o le 10, sia quella valida; (11) Luisa non sa se Giorgio possiede l’informazione da lei richiesta.
Tali elementi servono ad introdurre il brano di conversazione e a presentare la prima battuta del brano stesso. Ma in che modo, cioè attraverso quali codici semiotici, comunico tutto ciò? I codici a tal fine disponibili appartengono ad almeno tre classi: codici iconici, codici gestuali e codici linguistici. Codici iconici: posso usare cartelloni, fotografie, disegni da me improvvisati alla lavagna, ecc., materiale che ha tra l’altro il pregio di rappresentare direttamente e con chiarezza elementi quali l’ambiente fisico, il rapporto sociale tra i parlanti, il loro atteggiamento e così via. Codici gestuali: singoli gesti che denotano elementi di significato o intere informazioni, sequenze gestuali che riproducono comportamenti o atti linguistici dei parlanti, il tutto affidato alla capacità mimica e interpretativa dell’insegnante (si badi però alle variazioni nei codici gestuali da una cultura all’altra: un gesto può non esistere in una differente cultura o può veicolare sensi diversi).Codici linguistici: posso ricorre alla lingua che sto insegnando (se gli studenti sono in grado di comprendermi) o alla/e lingua/e degli studenti; se uso la prima devo però fare attenzione a non fornire agli studenti l’enunciato del dialogo o un enunciato troppo affine ad esso perché in tal modo dissolverei l’iniziativa dello studente e offrirei come dato di partenza ciò cui invece intendo giungere attraverso un processo di costruzione. Va infine precisato che nel comunicare agli studenti le informazioni relative all’enunciato non è escluso (è anzi assai spesso conveniente) l’impiego concorsuale di codici appartenenti a due o a tutte e tre le classi citate, secondo valutazioni di opportunità: nel nostro caso potrei ad esempio adottare una soluzione iconica per le informazioni (7) e (8), una soluzione linguistica per la (9), e per la (10) una soluzione mista gestuale-linguistica (limitando il linguistico a: “nove o dieci?”).
Con le informazioni (1)-(11), dicevo, introduco l’intero brano e presento la prima battuta. In particolare: le informazioni (1)-(6) espongono nei dettagli perché Luisa intraprenda il dialogo. Le informazioni (7), (8) e la prima parte della (10) indicano quale sia il frame circostanziale ed extralinguistico all’inizio della conversazione (tali indicazioni, oltre a situare l’evento comunicativo con maggior precisione e verosimiglianza, torneranno fra l’altro particolarmente utili più avanti, nella fase della “recita”, quando cioè gli studenti saranno chiamati a interpretare i personaggi del dialogo). La (9) informa circa il rapporto sociale tra i locutori, sottostante ad alcuni fenomeni linguistici tra cui l’uso del “tu” anziché del “lei”. La (10) introduce il nucleo semantico della battuta di Luisa. La (11) costituisce il sostrato cognitivo e pragmatico dell’espressione “che tu sappia”, presente nella battuta di Luisa. Con queste parole, infatti, Luisa, non sapendo se Giorgio sia o no in grado di rispondere alla sua domanda, comunica a Giorgio tale sua (di Luisa) incertezza. Ciò corrisponde a un fenomeno generale nell’ambito dell’interazione sociale: sembra infatti e violi in qualche modo le regole pragmatiche della comunicazione il chiedere all’interlocutore di fare qualcosa che egli non è in grado di fare.
Occorre inoltre che risulti chiaro che Luisa, nel rivolgersi a Giorgio, assume l’incontro di sabato come già noto a entrambi. Tale assunzione di Luisa è manifestata linguisticamente dalla struttura stessa della frase, in cui “la riunione di sabato mattina”svolge il ruolo di topic, e dall’articolo determinativo (“la”) premesso al sostantivo (“riunione”). Se Luisa fosse incerta circa la conoscenza o meno di tale riunione da parte di Giorgio, ella, sempre in virtù delle regole pragmatiche della comunicazione appena ricordate, dovrebbe preventivamente sincerarsene dicendo per esempio “Tu sai che sabato mattina c’è una riunione… ?”, o simili. L’informazione relativa all’assunzione di Luisa è fornita in (3), ove si dice che per sabato mattina è stato fissato un incontro. Ad esser rigorosi, la formulazione proposta in (3) non è esatta, in quanto la nozione rilevante è che Luisa assuma che è stato fissato un incontro e che assuma che anche Giorgio assuma ciò, e nessuna di queste due assunzioni è necessariamente implicata dal fatto che l’incontro è stato fissato: cioè potrebbe darsi che l’incontro sia stato fissato ma che Luisa non lo sappia o che, pur sapendolo, ritenga che Giorgio non ne sia al corrente. A questo punto ci si chiede però se sia opportuno complicare ulteriormente, per amor di rigore teorico, le informazioni per gli studenti e se in casi come questo, ad evitare rischi di confusione e incomprensioni, non sia più saggio ricorrere a formulazioni semplificate come si è fatto in (3) affidando il non-detto a implicite inferenze collaterali. Nel nostro caso, ad esempio, che Luisa sappia dell’incontro è direttamente implicato, tra l’altro, dalla (5), e che Luisa assuma che anche Giorgio ne è informato è agevolmente inferibile dalla (10).
D’altra parte va anche notato che simili difficoltà sorgono in modo particolare quando, per trasmettere le informazioni agli studenti, si fa ricorso a codici linguistici. L’inconveniente appena discusso verrebbe ad essere direttamente aggirato, ad esempio, esibendo una fotografia che mostrasse uno degli organizzatori mentre da l’annuncio relativo all’incontro a un gruppo di insegnanti: Luisa è presente, è presente anche Giorgio e Luisa vede chiaramente Giorgio. Di fatto sembra che in svariati casi il privilegiamento di espedienti iconici o gestuali valga a neutralizzare il rischio di insidiose trappole linguistiche.
2.2.B.1. Dopo aver dato agli studenti le informazioni (1)-(11), rivolgo loro la domanda “Che cosa dice Luisa?”, insistendo se nessuno risponde. A azzarda una prima ipotesi: “Sai se l’incontro sabato mattina è alla nove o alla dieci?”. Chiedo a tutta la classe (A compreso) di riflettere sulla frase di A e di dire se “va bene” (espressione abbreviata e semplificata per “è semantica mente e pragmaticamente appropriata e grammaticalmente corretta”) o di apportarvi delle modifiche. Interviene C: “Alle nove, alle dieci”. Chiedo a C di ripetere l’intera frase. C: “Sai se l’incontro sabato mattina è alle nove o alle dieci?”.
Ripetere l’intera frase ha due funzioni: evitare di frammentare l’enunciato focalizzando il dettaglio, di perder d’occhio e forse dimenticare l’insieme, e conseguentemente evitare il rischio di dar vita, senza accorgersene, a parti frasi corrette se considerate ciascuna in sé, ma reciprocamente incompatibili. Quest’ultimo non è il caso in questione nel nostro esempio, ma si pensi una frase come “Le ho telefonato ma non ti ho trovato”ove l’incoerenza dell’intero (determinata dalla compresenza del formale “le”e del confidenziale “ti”) non emergerebbe considerando isolatamente ciascuna delle due proposizioni componenti.
Senza tradire preferenza alcuna per l’enunciato originario di A o per quello emendato di C, chiamo di nuovo l’intera classe a decidere. D è d’accordo con C, E è incerto, B è con A, che permane nella sua posizione di partenza. Invito allora i due gruppi contendenti (uno formato da A e B, l’altro da C e D) a giustificare ciascuno la propria scelta e invito E a prender partito in base agli argomenti addotti dai suoi compagni. A non sa trovare alcuna ragione a supporto della sua ipotesi. C sostiene che si tratta di “ore“, plurale perché “nove” o “dieci” è plurale, e quindi l’articolo deve essere “le“, plurale anch’esso: perciò, con “a”, “a più le”, “alle”. Leggo sui volti degli altri udenti una non-disapprovazione di quanto esposto da C, ma chiedo in ogni caso un assenso esplicito. A, B e D si dichiarano persuasi, in E il sostanziale accordo è insidiato da qualche dubbio residuo. Chiedo a E se ha qualcosa da esprimere in proposito, un commento, un’obiezione, un’incertezza, una domanda: nulla. A questo punto (e solo a questo punto) confermo l’esattezza della soluzione proposta da C, chiedo che uno studente, chi vuole, ripeta ancora una (sola) volta l’intera frase e mi soffermo qualche attimo a generalizzare sull’argomento: quando il numero che indica l’ora è maggiore di uno, l’articolo è sempre “le” (“le due”, “le tre”, ecc.).
2.2.B.2. Consideriamo ora vantaggi e inconvenienti della strategia di cui ho appena fornito un campione, e che chiamerò “dialettica“, rispetto all’altra, diciamo “dogmatica”, che sarebbe consistita nel decretare immediatamente – io insegnante – l’erroneità della proposta originaria di A e nel correggerla -sempre io – evitando il ricorso alle opinioni in merito degli studenti.
L’unico svantaggio che sono in grado di individuare nella strategia “dialettica” è il maggior dispendio di tempo che essa comporta. Quanto alla strategia “dogmatica” possiamo identificarne due varianti: una strategia dogmatica “ingenua” e una strategia dogmatica “avveduta”. Si tratta non già di una divaricazione assoluta e rigida, ma di differenti tendenze che nella pratica possono anche intrecciarsi e dar luogo a una varietà di esiti specifici.
Nel nostro caso una strategia dogmatica ingenua avrebbe indotto l’insegnante a correggere lo studente A introducendo la soluzione “alle”senza piegarne il perché. In tal caso gli studenti avrebbero ripetuto la versione corretta ma (ad eccezione di C, il quale come si è visto possedeva già una competenza in merito) senza comprendere la ragione del cambiamento: forse non si sarebbero resi conto che era in gioco una parola composta, non l’avrebbero analizzata nei suoi elementi costitutivi, non avrebbero capito che era solo uno di essi, e non l’altro, che si stava modificando, di certo non avrebbero afferrato il senso della trasformazione di “la” in “le”se non mettendo in relazione l’articolo con il sostantivo sottinteso. In altri termini non avrebbero imparato niente sul meccanismo di produzione della lingua italiana. Per converso la strategia dialettica ha consentito di far piena luce sul problema laddove lo si è incontrato e inoltre ha aperto la strada ad una significativa generalizzazione (una “regola”) morfosintattica. A, B, D ed E hanno appreso elementi nuovi, C ha avuto modo, se non altro, d’esplicitare a se stesso, e quindi di consolidare, una conoscenza che già possedeva a un livello forse più intuitivo e meno sistematico.
Una strategia dogmatica ingenua tuttavia non sempre si manifesta in termini altrettanto netti e smaccati: talora essa rischia di annidarsi tra le pieghe di un procedimento apparentemente dialettico. Immaginiamo che dopo la frase originaria fornita da A noi avessimo sottoposto il quesito alla classe, così come abbiamo fatto, ma che, giunti alla correzione di C, avessimo direttamente e immediatamente avallato quest’ultima e fossimo passati oltre. Nonostante le apparenze (in parte rispondenti al vero) di un maggiore coinvolgimento degli studenti tramite l’appello alla riflessione, il risultato finale sarebbe stato sempre l’accettazione per fede, e non per comprensione, della soluzione sottoscritta dall’insegnante e in definitiva l’aver dissipato un’occasione di apprendimento.
A tali carenze tenta di ovviare la strategia dogmatica che ho definito “avveduta”, la quale non trascura chiarimenti e illustrazioni anche se ne affida per intero iniziativa e responsabilità all’insegnante. Nel nostro caso l’insegnante, ascoltata la frase iniziale di A, sarebbe intervenuto modificando “alla” in “alle”ed enunciandone lui stesso e senza indugio i motivi. Certo in tal modo non si può parlare di incomprensione più o meno totale come negli esempi che precedono. Occorre però a questo punto esaminare un fattore discriminante: se il grado e la qualità dell’apprendimento raggiunti attraverso una tale strategia non siano inferiori a quelli procurati da una strategia dialettica.
In generale, nel processo di apprendimento una nuova conoscenza non viene quasi mai a depositarsi su un terreno vergine, assolutamente priva di relazioni con conoscenze preesistenti. Il più delle volte esiste una più o meno fitta trama di connessioni tra la nuova informazione che ricevo e ciò che già conoscevo a proposito dello stesso argomento o di argomenti ad esso collegati. L’acquisizione di una nuova conoscenza da quindi luogo a un problema di integrazione di tale conoscenza all’interno dell’enciclopedia, cioè dell’universo cognitivo del soggetto. Gli esiti di un tentativo di integrazione potranno essere molteplici: in alcuni casi la nuova informazione produrrà un arricchimento dell’enciclopedia senza alterare conoscenze precedenti, altre volte invece la nuova conoscenza comporterà modifiche e ristrutturazioni in una o più zone dell’enciclopedia, altre volte ancora un particolare contrasto tra informazione nuova e conoscenze preesistenti bloccherà l’integrazione determinando una crisi nell’universo cognitivo e stimolando il soggetto all’acquisizione di ulteriori dati che sciolgano l’aporia. Ora, possiamo dire che tanto più elevato è il grado di comprensione e di assorbimento di una nuova conoscenza, quanto più a fondo il soggetto la fa interagire con la rete di conoscenze in lui preesistenti, giungendo a integrarla in essa o a comprendere perché non vi si possa integrare.
Immaginiamo ad esempio che io sappia, a proposito di un certo individuo, che è italiano. Un certo giorno ricevo notizia che egli è nato e risiede tuttora a Londra. Se a questo punto io faccio interagire tale informazione con conoscenze che possedevo su di lui, mi accorgo che esiste un contrasto tra la prima e le seconde il quale osta ad una loro integrazione immediata e automatica. Questa constatazione a sua volta genererà in me dati atteggiamenti tesi a superare il contrasto: potrò non prestar fede all’informazione che ho appena ricevuto oppure cominciare a nutrire delle perplessità sull’esattezza dell’informazione che avevo in precedenza o, altra possibilità, apportare delle modifiche ad una di esse o ad entrambe per renderle compatibili (ad esempio riformulare “italiano” come “provvisto di cittadinanza italiana” anziché “nato in Italia”); e l’una o l’altra di tali decisioni sarà da me adottata non arbitrariamente, ma di nuovo interpellando altre zone della mia enciclopedia o cercando di acquisire informazioni ulteriori le quali, attraverso un complesso intreccio di connessioni, parentele, rinvii, inferenze, conferme, smentite, coagulino una probabilità maggiore e quindi una più marcata attendibilità attorno all’una o all’altra delle soluzioni possibili.
Immaginiamo invece che nella stessa situazione io mi limiti a ricevere la nuova informazione e a immagazzinarla senza occuparmi del suo rapporto con l’universo cognitivo in cui va a installarsi. In tal caso potremmo dire che ho appreso tale informazione? In una accezione del termine “apprendere”, sì: una accezione che implica una valutazione rigidamente monadistica dell’oggetto conosciuto. Ponendo invece attenzione al meccanismo del conoscere e alla destinazione e all’impiego delle conoscenze, si può senz’altro affermare che il mio comportamento costituisce la premessa per la creazione di un’enciclopedia caotica, contraddittoria, dissestata e quindi scarsamente affidabile e utilizzabile.
Pensiamo ora al comportamento di un nostro studente. Istintivamente, e anche per influsso di un’intera tradizione pedagogica, egli è incline a credere senza difficoltà all’insegnante, a non dubitare di lui, a non mettere in discussione le sue affermazioni (ciò soprattutto quando – e il fatto in sé è tutt’altro che negativo – dispone di un insegnante che stima e in cui ha fiducia). Quando l’insegnante, all’interno di una strategia dogmatica avveduta, corregge un enunciato spiegandone subito e personalmente le ragioni, lo studente, ritenendo l’informazione indubitabile, non avvertirà l’esigenza di sottoporla a controllo. In altri termini non lascerà emergere i dubbi e le incertezze che può nutrire in proposito, non cercherà di verificarne la verità o la plausibilità alla luce delle conoscenze sulla lingua che sono già in suo possesso, non interrogherà, incerto, la sua competenza in una altalena di congetture e confutazioni: in sintesi non sarà incentivato a far interagire la nuova informazione con la sua enciclopedia. Cioè, lo studente correrà il rischio di comportarsi tendenzialmente come il protagonista del precedente esempio, che immagazzina informazioni ciecamente e alla rinfusa. In tal caso le ripercussioni negative saranno almeno due: lo studente, non elaborando rapporti e connessioni tra nuove conoscenze e conoscenze preesistenti, si avvia verso una competenza disorganica e malamente strutturata (una congerie di dati piuttosto che una rete di dati); lo studente non si accorge della eventuale incompatibilità delle nuove conoscenze con le conoscenze preesistenti, vanificando così l’occasione di rivedere e accomodare le seconde alla luce delle prime e determinando nella sua enciclopedia la compresenza di dati contraddittori.
La situazione risulta invece esattamente rovesciata per quanto riguarda la strategia dialettica, i cui meriti compaiono in controluce e sono agevolmente deducibili da quanto si è finora detto. Nella strategia dialettica l’insegnante non fornisce sicurezze se non al termine del procedimento, quando ormai null’altro può provenire dagli studenti, e si riserva piuttosto il ruolo di coordinatore e moderatore di un dibattito. Non ci soffermiamo dunque più a lungo su questo tema.
Una sola precisazione è opportuna, ad evitare un possibile equivoco: qui non si è voluto affermare che lo studente alle prese con una strategia dogmatica avveduta non possa mai di propria iniziativa dar vita a processi di elaborazione e di analisi delle informazioni ricevute, a un loro confronto con la sua competenza preesistente e a una loro integrazione in essa. Si è voluto soltanto dire che una strategia dogmatica avveduta non prevedeprogrammaticamente un tale confronto e una tale integrazione e che per contro una strategia dialettica, facendo di essi un’opzione esplicita e sistematica, garantisce dei risultati di cui nell’altro caso ci si limita a non escludere la possibilità.
2.2.B.3. Torniamo ora al nostro campione di Ricostruzione di conversazione. Siamo alla frase: “Sai se l’incontro sabato mattina è alle nove o alle dieci?”. Dico alla classe che la frase “va bene” anche così (il senso dell’espressione “va bene”, noto agli studenti, è stato specificato in 2.2.B.1.), ma che si può aggiungere una parola per connettere “l’incontro” e “sabato mattina”. Non hanno idee in proposito, e sono io a fornire la parola richiesta: “di”. Faccio quindi enunciare a qualcuno l’intera frase così arricchita.
Dichiarare che la frase “va bene”, prima di proporre un cambiamento, serve a distinguere con chiarezza, di fronte alla classe, i casi in cui il cambiamento è dovuto all’esigenza di emendare la frase stessa, rendendola maggiormente appropriata rispetto agli scopi della comunicazione o alle circostanze comunicative o maggiormente corretta sotto il profilo grammaticale, dai casi in cui con la modificazione suggerita si vuole solo fornire allo studente un’ulteriore alternativa accanto a quelle da lui sino al momento elaborate e quindi estendere la sua competenza senza con ciò intaccare, ma anzi rafforzando, le cognizioni che egli già possedeva.
2.2.B.4. Di nuovo, dico che la frase “va bene”, e chiedo di sostituire “incontro” con altra parola di significato, nel nostro contesto, equivalente. Anche questo caso non hanno idee in proposito, e io suggerisco “riunione”chiedendo la frase completa. Dopo qualche esitazione circa l’articolo da usare, dipendente da un’incertezza sul genere del sostantivo “riunione”, si giunge all’enunciato: “Sai se la riunione di sabato mattina è alle nove o alle dieci?”.
2.2.B.5. A questo punto, senza omettere, come al solito, di dire che la frase “va bene”, propongo di modificare l’inizio sostituendo l’espressione “sai se”, con altra espressione funzionalmente equivalente. Ancora una volta gli studenti non sanno come orientarsi. Suggerisco loro di far ancora uso del verbo “sapere”. Dopo alcuni tentativi infruttuosi da parte loro, introduco l’espressione “che tu sappia” chiedendo l’intera frase. Uno degli studenti fornisce l’enunciato voluto, ma l’intonazione che impiega e gli sguardi attoniti dell’intera classe tradiscono qualche smagliatura nella comprensione. Escludendo che possa trattarsi del significato globale dell’espressione, data la procedura attraverso cui si è giunti ad essa, immagino che l’incertezza verta sul modo in cui le singole parole dell’espressione concorrono a definirne il senso complessivo e sui nessi sintattici esistenti tra tale espressione e il resto della frase. Chiedo anzitutto loro cos’è la parola “sappia“. Rispondono che è il verbo “sapere”, ma non conoscono la forma. Dico che è congiuntivo presente.
L’impiego da parte mia di termini grammaticali (quali “congiuntivo” e “presente”) presuppone una qualche familiarità degli studenti con le nozioni espresse da quei termini: altrimenti tale impiego risulterebbe ermetico e generatore di confusione anziché di chiarezza. Quella familiarità può derivare: da una conoscenza autonoma dello studente; da una mia precedente spiegazione; da una mia illustrazione fornita nel momento stesso in cui menziono il termine. Del resto ho parlato di “una qualche” familiarità: non è necessario che lo studente possegga una conoscenza approfondita o esaustiva dell’argomento. Se nell’ambito di una spiegazione io faccio ricorso a una nozione grammaticale, è sufficiente che lo studente possegga, a proposito di quella nozione, dei dati che gli permettano di trovare un senso nella mia spiegazione, di comprenderla e di utilizzarla. Nella presente circostanza, ad esempio, è sufficiente che egli sappia che il “congiuntivo” è una forma del verbo usata in certi casi e che “presente” è un tempo verbale. Altre volte invece la conoscenza richiesta è più sottile e articolata, come quando (si veda in 2.3.B.3.) chiederò allo studente di identificare la funzione sintattica di un sintagma nominale, distinguendo tra soggetto, oggetto diretto, oggetto indiretto o altro.
Sollecito ora un confronto tra la frase del passo precedente (“Sai se la riunione di sabato mattina è alle nove o alle dieci?”) e la frase attuale (“Che tu sappia, la riunione di sabato mattina è alle nove o alle dieci?) chiedendo di individuare in ciascuna le proposizioni costituenti e le relazioni tra esse. B dice che nella prima frase vi sono due proposizioni, “sai” e “se la riunione di sabato mattina è alle nove o alle dieci”, e che la prima è principale e la seconda subordinata. D, dal canto suo, intuisce che la seconda frase è formata anch’essa da due proposizioni, ma che la prima è subordinata e la seconda principale. Chiedo il parere degli altri su quanto esposto da B e D. A acconsente, C ed E esitano. Da parte mia confermo e faccio enunciare tutta la frase. Gli studenti mostrano ora di aver capito quanto era prima oscuro.
2.2.B.6. Si tratta ora di completare l’atto comunicativo aggiungendo le parole iniziali: “Giorgio, scusa“. Faccio osservare agli studenti che Luisa pone questa domanda nel suo interesse, per raggiungere un suo scopo, che è quello di ottenere un’informazione, e che nel far ciò ella blocca Giorgio e lo impegna in una attività. Aggiungo che in tali casi, per educazione e cortesia, si inizia la frase con una certa espressione. Qualcuno offre “senti”. Rispondo che “senti”è usato per iniziare comunicazioni in genere e non in particolare per casi come il nostro. In assenza di altre ipotesi da parte degli studenti, do io l’indicazione: “Scusa” (gli studenti riconoscono una parola già nota); quindi, come al solito, faccio enunciare l’intera frase.
Infine, li invito a riflettere se non manchi ancora qualcosa. A tal fine, incarnando momentaneamente il ruolo di Luisa, provo a mimare il suo incontro con Giorgio, esprimendo con un gesto la funzione interpellativa e chiedendo agli studenti un equivalente verbale. Memore della spiegazione di poc’anzi, qualcuno propone “senti”. Accetto, dico che “va bene” e chiedo un’alternativa. B: “Giorgio”. Gli altri sono d’accordo. Invito B ad enunciare tutta la frase, che a questo punto è completa (“Giorgio, scusa, che tu sappia, la riunione di sabato mattina è alle nove o alle dieci?“), e la faccio ripetere a tutti gli studenti, uno dopo l’altro.
2.2.B.7. Si noti che l’enunciato viene ripetuto da tutti gli studenti solo a partire da questo momento, da quando cioè esso ha raggiunto la sua veste definitiva sotto il profilo lessicale e morfosintattico, mentre fino a questo punto, ad ogni successiva trasformazione, era un singolo studente ad enunciare frase: ciò ad evitare che venissero ripetute, e forse fissate nella mente, sequenze inappropriate o non corrette e d’altro canto (nel caso di sequenze “buone” ma difformi dalla nostra sequenza-meta) a eludere inutili dispersioni e sprechi del tempo disponibile.
Gli studenti già sanno che durante la ripetizione chi non parla ha il compito di ascoltare chi sta parlando, aiutarlo se si trova in difficoltà e correggerlo sbaglia (in quest’ultimo caso è bene non interrompere chi sta ripetendo e attendere che abbia terminato l’enunciato per poi correggerlo: dopo la correzione egli ripeterà ancora una volta l’enunciato).
Avendo una classe formata da soli cinque studenti, faccio ripetere a tutti in questo modo la frase. In una classe più numerosa, per economia di tempo la farei ripetere solo a due o tre studenti e poi distribuirei gli studenti in coppie (lasciandoli nei rispettivi posti) e inviterei le coppie a lavorare simultaneamente: all’interno di ciascuna coppia i due studenti ripetono l’enunciato uno dopo l’atro.
2.2.C. È ora il momento di passare alla fonologia. A questo punto gli studenti sanno enunciare la frase, ne ricordano le parole, ma talvolta le legano in modo fonologicamente inappropriato o producono una accentazione o una intonazione inesatte.
2.2.C.1. Anzitutto li invito a riflettere su quanti e quali siano i “gruppi di parole” in cui si divide la frase. Abbiamo già in passato definito un “gruppo di parole” come una sequenza all’interno della quale una esecuzione fluente e spedita dell’enunciato non dovrebbe ammettere alcuna pausa: le pause vengono quindi a trovarsi fra un gruppo e l’altro. Nella frase che stiamo analizzando gli studenti con il mio aiuto (ometto per brevità, nella descrizione di tutta la fase fonologica, qualsiasi riferimento alla dialettizzazione che anche qui accompagna ogni passo del procedimento) individuano quattro gruppi: “Giorgio”, “scusa”, “che tu sappia”, “la riunione di sabato mattina è alle nove o le dieci”; all’interno dell’ultimo gruppo due sottogruppi: “la riunione di sabato mattina”, “è alle nove o alle dieci”, il secondo dei quali ulteriormente scomponibile in due sottogruppi: “è alle nove”, “o alle dieci”.
2.2.C.2. Il passo seguente prevede l’identificazione degli accenti primari della frase. Nella nostra frase possiamo affermare che gli accenti primari corrispondono agli accenti delle parole “Giorgio”, “scusa”, “sappia”, “riunione”, “mattina”, “nove”, “dieci”. A identificazione avvenuta faccio enunciare la frase a tutti gli studenti (o solo ad alcuni e poi in coppie: vedi 2.2.B.7.) secondo tale profilo accentuativo, ripetendo alcune volte io, se necessario, per fornire un modello.
2.2.C.3. Il passo successivo verte sull’intonazione. Caratteristici ai fini dell’andamento intonazionale sono i “nuclei” fonologici, di cui si è già parlato con la classe. Il nucleo è costituito da una parola con un accento primario della frase in cui ha luogo un più marcato cambiamento della direzione del tono. A sua volta tale direzione (discendente, ascendente, discendente-ascendente) dipende dal tipo di frase (dichiarativa, interrogativa, esclamativa, ecc.) e dalla funzione semantico-pragmatica della frase stessa (asserzione, richiesta di informazione, richiesta di azione, ordine, augurio, ecc.). Nella nostra frase i nuclei sono individuabili nelle parole “Giorgio”, “scusa”, “sappia”, “nove” / “dieci”(nucleo spaccato). Ancora una volta, faccio enunciare alla classe (secondo le modalità ormai note) la frase secondo tale profilo intonazionale, fornendo io, se necessario, un modello.
2.2.C.4. Abbiamo sin qui considerato tre aspetti fonologici: gruppi di parole (pause), accenti primari, nuclei fonologici. Concludo passando al “tono” della frase, inteso (anche qui la classe sa già di cosa sto parlando) come complesso di ripercussioni fonologiche di un dato atteggiamento del locutore connesso con il ruolo psicologico e il ruolo sociale da lui giocati: ad es. tono cortese, tono impaziente, tono sorpreso, tono irritato, tono distaccato, tono confidenziale, e così via. In particolare, il tono della nostra frase, secondo l’interpretazione che ho scelto, non prevede specifiche marcature (e così anche per le rimanenti battute della conversazione): può definirsi come un tono neutro venato da una tendenziale cordialità. Come sempre, faccio enunciare l’intera frase secondo le modalità già note. È da osservare che, al termine di quest’ultimo passo della fase fonologica, si è ormai giunti alle soglie di una esecuzione realistica e di una interpretazione “dal vivo” della frase.
2.2.D. Quello che forse ancora manca per una effettiva e disinvolta esecuzione è la capacità fisica, da parte dello studente, di mettere in pratica quello che ormai egli sa: come un istruendo in una disciplina ginnica il quale, pur avendo chiaramente compreso in che consiste una data sequenza di movimenti da compiere, trovasse ancora difficoltà nel compierla per inesperienza muscolare e mancanza di automatismo. Si apre quindi, in tale evenienza, una fase di allenamento motorio basato sulla ripetizione. L’insegnante farà ripetere l’enunciato più e più volte alla classe, alternando ripetizioni in coro e ripetizioni individuali: le seconde avranno valore dimostrativo, anche perché renderanno possibili commenti e osservazioni (si ricordi che è sempre bene, in fatto di correzioni e commenti, lasciare la precedenza agli studenti stessi); durante la ripetizione in coro l’insegnante impartirà il ritmo e l’andamento (verità, accenti primari, nuclei). In tutto ciò l’insegnante si comporterà esattamente come un istruttore di educazione fisica che fa ripetere ai suoi allievi, volte simultaneamente a volte (a scopo dimostrativo) individualmente, una sequenza di movimenti, ponendo lui stesso il ritmo.
In effetti la differenza più rimarchevole tra le precedenti fasi del lavoro (costruttive) e la fase attuale (ripetitiva) è proprio nel fatto che, mentre nelle prime – basate sulla riflessione – l’insegnante si adegua al ritmo degli studenti (ovviamente intervenendo in caso di impasse, ma mai forzando i tempi necessari alla comprensione dei termini del problema, al dibattito e all’assimilazione del nuovo), nella fase ripetitiva – finalizzata ad una fluida producibilità del già compreso e basata sull’esercizio fisico – è l’insegnante a stabilire il ritmo (naturalmente in modo non arbitrario) e a chiedere allo studente di adeguarvisi.
Quanto alla ripetizione in coro, essa, oltre ad assicurare a ogni studente l’esecuzione di un alto numero di repliche e ad agevolare quindi lo scioglimento e l’allenamento muscolare, adempie anche a una non trascurabile funzione psicologica: lo studente che avverte imbarazzo e insicurezza nell’enunciare la frase da solo di fronte al resto della classe e all’insegnante, nel coro troverà una rassicurante copertura e un rilassante anonimato che gli consentiranno tra l’altro di concentrarsi sull’oggetto del suo lavoro senza devolvere una quota di attenzione nelle sue preoccupazioni per l’uditorio. Per tale motivo il coro è a volte consigliabile, alternato a repliche individuali, fin da quando si delinea l’esigenza di una ripetizione estesa all’intera classe (da quando, cioè, l’enunciato ha ormai assunto, riguardo a lessico e morfosintassi, fisionomia ultimativa; vedi 2.2.B.7.).
2.3.A. Passiamo alla seconda battuta del dialogo. Comunico alla classe quanto segue: (1) Giorgio dà a Luisa una risposta e inoltre un suggerimento; (2) la risposta alla domanda di Luisa fornisce come informazione le ore 10, ma presenta tale informazione come probabile ma non certa; (3) Giorgio inoltre consiglia a Luisa, per ottenere un’informazione più sicura, di domandare a Giancarlo (un loro collega).
Circa le modalità del comunicare tutto ciò alla classe si veda quanto è stato detto in 2.2.A. a proposito della prima battuta.
2.3.B. 1. D propone: “Penso che è alle dieci. Domandi a Giancarlo”. Ancora una volta, invito la classe (D compreso) a riflettere e a pronunciarsi su quanto ha detto D. C: “‘Domanda’, non ‘domandi’“. Invito C a enunciare l’intera battuta così variata. C: “Penso che è alle dieci. Domanda Giancarlo”. Rispetto all’originale C ha tralasciato la preposizione “a“. Dico allora che qualcosa non va e invito D a ripetere la sua battuta iniziale. D lo fa e ora C si accorge della sua omissione e ripete la battuta: “Penso che è alle dieci. Domanda a Giancarlo”.
Come al solito non manifesto alcuna predilezione per la proposta di D o per quella di C e invito l’intera classe (compresi quindi C e D) ad esprimersi in merito. C e D rimangono delle rispettive opinioni, A si schiera con C, B ed E con D. Invito allora gli studenti, se già non lo stanno facendo di propria iniziativa, a confrontarsi reciprocamente e a discutere, argomentando ciascuno in favore della propria ipotesi. Il dialogo che ne deriva è pressappoco il seguente:
C: È confidenziale, non è formale. Allora “domanda”.
D: Ma, confidenziale, sempre “i”.
C: Ma questo è imperativo.
D: Ah! Imperativo.
E: Ma imperativo è “senti”, con “i”. Allora “domandi”.
A: Ma “senti” è “sentire”, “ire”. Questo è “domandare”, “are”. Dunque “domanda”.
E: Sì’ è vero.
B annuisce.
Il dialogo si è spento. Chiedo se sono tutti d’accordo. Lo sono tutti tranne D, il quale dice di non conoscere le forme dell’imperativo. A questo punto, e solo a questo punto, è necessario il mio intervento: confermo l’esattezza di quanto gli altri hanno concordato, ribadendo che l’imperativo confidenziale per i verbi in “-are” termina in “-a”. (Delle motivazioni, dei fondamenti teorici e dei vantaggi di una tale strategia si è già detto in 2.2.B.2.)
Invito quindi C a ripetere una volta l’intera battuta: “Penso che è alle dieci. Domanda a Giancarlo”. Chiedo agli studenti se hanno altre osservazioni da fare, se va tutto bene così. A loro sembra di sì: evidentemente la loro competenza attuale non gli consente di correggere o di manipolare ulteriormente la sequenza. Si tratta quindi, come è ormai noto, di compiere insieme – io e loro – ulteriori passi che produrranno aggiustamenti e arricchimenti nelle frasi considerate e, al tempo stesso, uno sviluppo della competenza degli studenti. Ma forse, anche a questo stadio del percorso, non è vero che essi non dispongano assolutamente di alcun altro mezzo per intervenire sul nostro frammento linguistico: è anzi probabile che esistano delle conoscenze “latenti”, le quali, pur non emergendo spontaneamente, ad esempio perché ancora vaghe, malferme o non sistematiche, sono tuttavia pronte a scattare se opportunamente incentivate. Mi appresto pertanto a porre dei problemi anziché a risolverli direttamente, ad aprire dei capitoli piuttosto che a concluderli.
2.3.B.2. Anzitutto, faccio loro osservare che nella prima delle due frasi c’è il verbo “pensare” e che questo verbo presenta la situazione non come assolutamente certa, ma come soltanto probabile. Mi fermo. Mi stanno seguendo ma non capiscono dove voglio arrivare. Altro passo: dico che il verbo della proposizione che dipende da “pensare” assume una particolare forma. E: “Congiuntivo”. Domando il parere della classe: B e D sono d’accordo, A e C non hanno elementi per giudicare, nessuno in ogni caso sa quale sia il congiuntivo di “essere”. Confermo la validità dell’ipotesi di E ed introduco la forma “sia”, chiedendo l’intero enunciato. B: “Penso che sia alle dieci. Domanda a Giancarlo”.
Si noti che ho svolto, e fatto svolgere alla classe, un certo lavoro sulla proposta originaria di D (“Penso che è alle dieci”) per giungere all’enunciato corretto “Penso che sia alle dieci”, nonostante la difformità di quest’ultimo dalla mia sequenza-meta (“Dovrebbe essere alle dieci”). Cioè, prima d’imboccare la soluzione da me prescelta, ho mirato a una regolarizzazione e una messa a punto della soluzione suggerita dalla classe. Così facendo, oltre ad aver profittato dell’occasione per mettere in luce un ulteriore aspetto del meccanismo di produzione della lingua italiana (l’uso del congiuntivo in proposizioni dipendenti dal verbo “pensare”), ho collaborato, apportando i dovuti ritocchi, alla creazione di un’alternativa indipendente da quella che ora sto per presentare.
Dico adesso che la frase “Penso che sia alle dieci” “va bene” e invito gli studenti a produrre un’altra frase di senso equivalente. A: “Credo”. Io: “L’intera frase”. A: “Credo che sia alle dieci”. Dico che “va bene” e chiedo un’altra possibilità. E: “Forse”. Chiedo l’intero enunciato. E: “Forse sia alle dieci”. Dico che questa soluzione presenta due problemi. Anzitutto, usando “forse”, la proposizione viene ad essere indipendente e pertanto non si può usare il congiuntivo (e si noti che tale incompatibilità emerge solo a livello di enunciato completo: vedi 2.2.B.1.). Chiedo di nuovo la frase ed E: “Forse è alle dieci”. In secondo luogo faccio presente che “forse” non è, per il significato, equivalente a “credo”, denotando rispetto ad esso un grado di sicurezza assai inferiore, e non corrisponde pertanto a ciò che Giorgio vuol dire.
Torno a sollecitare un’ulteriore frase. Gli studenti sono fermi: mostrano di aver esaurito le loro cognizioni. Attendo qualche secondo, poi dico che per esprimere una supposizione si può usare il verbo “dovere” (anche qui procedo per gradi, non fornisco subito la forma definitiva cui intendo arrivare), e aspetto quindi una frase che tenga conto della mia indicazione. Invano: gli studenti sono smarriti, non sanno che uso fare del mio suggerimento. Li aiuto: “In questa frase il verbo ‘dovere’ prende come soggetto ‘la riunione”’. B azzarda: “La riunione deve alle dieci”. Dico che la frase è incompleta. C: “La riunione deve è alle dieci”.
Invito la classe a pronunciarsi sulla proposta di C. Silenzio. Aggiungo e, se “dovere” si riferisce ad un altro verbo, quest’ultimo assume sempre a certa forma. A: “La riunione deve essere alle dieci”. B ed E sono immediatamente d’accordo: si trattava quindi di una conoscenza “latente”. C mostra visibilmente di aver appreso qualcosa di nuovo per lui. D mi domanda come si chiama questa forma verbale. Giro la domanda alla classe. B: “Infinitivo”. Io: “Infinito”.
Chiedo a uno studente, chi vuole, di ripetere una volta l’enunciato. A: “La riunione deve essere alle dieci”. Dico che la frase è corretta ma che essa implica che Giorgio è sicuro dell’informazione, mentre in realtà lui non ne è sicuro. B: “La riunione probabilmente deve essere alle dieci”. Faccio notare che esiste una certa contraddizione tra “probabilmente” (che indica un alto grado di probabilità ma non sicurezza piena) e “deve”(che denota certezza). La classe non sa cos’altro offrire. Suggerisco che è necessario modificare la forma del verbo “dovere”. La classe ha capito la mia istruzione ma non conosce la forma occorrente. Io: “Dovrebbe”. Invito la classe ad enunciare la frase così modificata, e D: “La riunione dovrebbe essere alle dieci”. Rapidamente, torno a ripetere che “deve essere” esprime certezza, mentre “dovrebbe essere”, esprime una supposizione probabile o molto probabile, ma non certa. Chiedo di nuovo la frase. B: “La riunione dovrebbe essere alle dieci”.
2.3.B.3. Chiedo ora di ripetere la precedente battuta di Luisa (“Giorgio, scusa, che tu sappia, la riunione di sabato mattina è alle nove o alle dieci?”) e subito dopo la risposta di Giorgio (“La riunione dovrebbe essere alle dieci”).Domando agli studenti se la risposta va bene così. Non hanno niente in contrario. Dico allora che la risposta contiene qualcosa di troppo, di superfluo. Tutti si accorgono che “la riunione” è ripetitivo. Chiedo di nuovo la frase. A: “Dovrebbe essere alle dieci”. Domando se sono tutti d’accordo.
Lo sono tutti tranne D ed E, i quali ricordano che altre volte, quando in una frase si è cancellato un sostantivo, lo si è sostituito con un pronome, e pertanto suggeriscono: “La dovrebbe essere alle dieci”. Chiedo l’opinione degli altri. A e B non hanno elementi per decidere. C insiste sulla versione senza pronome “Dovrebbe essere alle dieci” ma non sa darne una giustificazione, semplicemente gli suona bene così. Domando allora qual è la funzione sintattica (soggetto, oggetto diretto, oggetto indiretto o altro) di “la riunione” nella nostra frase originaria “La riunione dovrebbe essere alle dieci”. Risposta unanime: soggetto. Chiedo ora se il pronome “la” può sostituire il soggetto della frase. C risponde di no, perché “a” è un oggetto diretto. Io annuisco e chiedo di conseguenza una soluzione per il nostro problema. Silenzio. Enuncio allora la regola: se si cancella il soggetto, generalmente non si usa nessun pronome. E chiedo la frase risultante. B: “Dovrebbe essere alle dieci”.
Si noti che al termine del lavoro descritto nell’ultimo paragrafo si è giunti alla stessa sequenza (“Dovrebbe essere alle dieci”) già posseduta all’inizio di tale lavoro: non si è dato quindi alcun avanzamento nella costruzione dell’enunciato. Ciò nonostante quel lavoro ha svolto una funzione essenziale: ha fornito agli studenti la competenza idonea a comprendere il perché di una produzione linguistica (in questo caso morfosintattica) che essi avevano adottato senza rendersene conto e perciò in maniera arbitraria e immotivata. Cioè, determinando l’esplosione di un equivoco soggiacente a un superficiale senso, ha disintegrato una opacità dovuta all’interferenza del caso. Il che, come al solito, è stato reso possibile e anzi apertamente attivato dal sollecitare la riflessione e il parere degli studenti. Anche in presenza di un enunciato corretto. Anche in presenza dell’enunciato-meta. Se io avessi immediatamente accettato la sequenza “Dovrebbe essere alle dieci” la prima volta che essa è stata formulata, non sarebbe emerso alcun dubbio circa la sua legittimità e, ancora una volta, sarebbe andata sprecata un’occasione di verifica e di apprendimento.
2.3.B.4. Chiedo ora di esprimere al completo la battuta di Giorgio. D: “Dovrebbe essere alle dieci. Domanda a Giancarlo”. Richiamo l’attenzione della classe sulla seconda frase, dicendo che si può esprimere anche lo scopo del domandare a Giancarlo. A: “Domanda a Giancarlo per avere l’informazione”. Faccio osservare che anche Giorgio ha dato un’informazione. C: “Per avere un’informazione sicura”. Domando quanto sicura, rispetto a quella di Giorgio. C: “Più sicura”. Chiedo l’intera frase e A: “Domanda a Giancarlo per avere un’informazione più sicura”. Suggerisco allora di sostituire “per avere un’informazione più sicura” con un’altra espressione di significato equivalente e formata da un minor numero di parole. B: “Per essere più sicura”. Accetto la proposta e invito a ridurre ulteriormente il numero delle parole. E: “Per sicurità”. Avverto che la terminazione di “sicurità” non è corretta. Nessuno sa fornire la versione corretta e la introduco io (“sicurezza”), chiedendo l’intera frase. D: “Domanda a Giancarlo per sicurezza”. Domando se l’espressione “per sicurezza” è esattamente equivalente all’espressione da cui siamo partiti. La classe esita. Faccio notare che nell’espressione originaria è presente una comparazione. B: “Per più sicurezza”. Dico che l’idea è giusta, ma la forma non va. La classe non sa che fare. Chiedo a quale categoria (sostantivo, verbo, aggettivo, ecc.) appartenga la parola “sicurezza”. Risposta: “Sostantivo”. Domando ora a quale categoria appartenga la parola “più”. Risposta: “Avverbio”. Enuncio allora la regola: non sempre un avverbio può essere riferito direttamente a un sostantivo. La classe mostra di aver capito. A: “Allora un aggettivo”. Confermo. La classe ha capito ma non conosce l’aggettivo richiesto. Io: “Maggiore”. A: “Per maggiore sicurezza”. Concludo dicendo che a volte, come in questo caso, la parola “maggiore”, quando precede un sostantivo, perde la “e” finale. B: “Per maggior sicurezza”. Chiedo l’intera frase. D: “Domanda a Giancarlo per maggior sicurezza”.
2.3.B.5. Chiedo ora da quanti “gruppi di parole” è composta la frase. Ne vengono individuati due: “domanda a Giancarlo” e “per maggior sicurezza”. Invito quindi gli studenti a considerare la parte di dialogo che precede e tutta la situazione entro cui si svolge il dialogo e a dire quale di quei due gruppi di parole è più “informativo”, cioè esprime l’informazione più originale, l’informazione meno implicita e meno prevedibile rispetto a tale parte di dialogo e a tale situazione. In effetti la sezione più informativa è “domanda a Giancarlo”, il cui significato non può assolutamente essere ricavato dal contesto che precede né dalla situazione, mentre il significato espresso in “per maggior sicurezza”è in qualche modo implicito nel contesto e nella situazione. Infatti Luisa ha posto una domanda per ottenere un’informazione ed è ovvio che chi richiede un’informazione intenda ricevere un’informazione sicura. È altresì ovvio che, in caso di risposta incerta, emerga l’esigenza, e quindi lo scopo, di reperire per altra via ulteriori indicazioni provviste di un più alto grado di sicurezza.
La classe non ha difficoltà a capire ed è unanime sulla maggiore informatività di “domanda a Giancarlo”. Io replico dicendo che, tendenzialmente, in una frase italiana la parte meno informativa precede la parte più informativa (se invece la segue, spesso viene con ciò posta in maggior risalto). A: “Per maggior sicurezza domanda a Giancarlo”.
2.3.B.6. Chiedo ora di ripetere la battuta completa. C: “Dovrebbe essere alle dieci. Per maggior sicurezza domanda a Giancarlo”. Domando se è tutto a posto così. Rispondono affermativamente. Faccio allora presente che le due frasi risultano slegate, non connesse. B: “Dovrebbe essere alle dieci. Ma per maggior sicurezza domanda a Giancarlo”. Accetto la proposta, quindi invito la classe a suggerire un’alternativa a “ma”. E: “Però”. Chiedo l’intera battuta, accetto e chiedo un’ulteriore soluzione. Essendo la classe in imbarazzo, suggerisco “comunque” e chiedo di nuovo l’intera battuta. Quindi cerco di puntualizzare più esattamente il valore specifico del connettivo “comunque”, ricorrendo ad alcuni sinonimi: “in ogni caso”, “in tutti i casi”.
Siamo così giunti alla nostra sequenza-meta: “Dovrebbe essere alle dieci. Comunque per maggior sicurezza domanda a Giancarlo”.
2.3.C. Seguono, come noto, (1) la fase fonologica, (2) la fase “muscolare”, nelle quali non ci addentriamo avendone già analiticamente discusso a proposito della prima battuta del dialogo (rispettivamente in 2.2.C. e 2.2.D.).
2.4. A questo punto, avendo ultimato le prime due battute del dialogo, invito due studenti, A e D, a recitare tali battute: assegno ad A il ruolo di Luisa e a D quello di Giorgio. Gli studenti sanno (ho insistito su ciò fin dalle prime lezioni) che loro compito è non solo di ripetere a memoria le battute del dialogo, ma di essere i personaggi del dialogo nei loro atteggiamenti, movimenti, azioni, interazioni, assumendo, di tali personaggi, ruolo sociale e ruolo psicologico e ricreando nell’aula mentalmente (e anche con l’ausilio degli oggetti disponibili) l’ambiente in cui la conversazione ha luogo. Perciò A e D, fingendo che l’aula sia il corridoio della scuola in cui si svolge il dialogo, partono dalle opposte estremità dell’aula stessa e muovono l’uno verso l’altro. Quando s’incrociano, A (Luisa) interpella D (Giorgio) e D risponde nel modo che sappiamo.
Gli studenti sanno inoltre che durante la recita (così come avviene anche durante la ripetizione individuale dal posto: vedi 2.2.B.7.) chi non sta parlando il compito di aiutare l’attore di turno se questi ha difficoltà a ricordare o di correggerlo se commette errori. Per correggere gli errori è bene comunque attendere che l’attore abbia terminato la sua battuta: a correzione avvenuta, l’attore ripeterà l’intera battuta corretta.
Avendo un ristretto numero di studenti, posso chiamarli tutti (due alla volta) a recitare davanti alla classe. Se il numero fosse (molto) più alto, chiamerei a recitare solo tre o quattro coppie e poi, distribuiti gli studenti (seduti nei rispettivi posti) in gruppi di due, li farei lavorare simultaneamente con il compito di ripetere due volte (per gruppo) la conversazione, alternandosi nei ruoli i locutori.
2.5. Impiegando la stessa dinamica e le stesse strategie fin qui descritte, presento le rimanenti due battute del dialogo, e ad ogni successiva battuta rinnovo la fase della recita, avendo cura di chiamare gli studenti eventualmente esclusi dai precedenti turni.
Generalizzando: in un qualunque dialogo, il primo turno di recite ha luogo una volta introdotte le prime due battute (le battute devono ovviamente essere almeno due, altrimenti non si dà scambio comunicativo), il secondo turno dopo la terza battuta, il terzo dopo la quarta, e così via.
2.6. Al termine dell’attività scrivo il dialogo alla lavagna o ne fornisco una copia a ciascuno studente.
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3.1. Prima di concludere vorrei trarre, da quanto si è detto finora, delle considerazioni riguardanti un tema specifico di non marginale interesse. Nelle precedenti pagine si è dato un esempio di presentazione di lingua parlata inerente all’approccio comunicativo: la Ricostruzione di conversazione. Ora, una critica spesso rivolta a tale approccio è quella di trascurare l’insegnamento della grammatica, il quale verrebbe ad essere soppiantato o da attività tese a far sì che lo studente si esprima in piena libertà e senza fastidiose remore (e quindi con gravi ipoteche sulla correttezza e sull’appropriatezza) o da una didattica che punta alla memorizzazione di frasi o discorsi ritenuti funzionali agli scopi comunicativi dello studente (ma senza riguardo alle regole linguistiche che presiedono alla formazione di quei messaggi). Una critica del genere poggia su numerosi errori. Cerchiamo di individuarli uno ad uno.
3.2. Anzitutto, essa confonde e appiattisce su una dimensione unica attività didattiche finalizzate a obiettivi diversi. La Produzione libera orale, attività in cui lo studente s’impegna come locutore in una vicenda comunicativa senza controlli o correzioni di nessun tipo da parte dell’insegnante, mira – fornendo occasioni di tirocinio comunicativo – a sviluppare scioltezza espressiva e sicurezza psicologica. Ma accanto e oltre alla produzione libera esiste la presentazione, di cui la Ricostruzione di conversazione costituisce l’esempio più cospicuo e che mira invece all’apprendimento analitico e capillare, da parte dello studente, di quel meccanismo di produzione della lingua di cui si è parlato in 1.2., e cioè delle regole per costruire messaggi. Attività diverse, quindi, con diverse finalità: finalità non antagoniste, non conflittuali, non mutuamente esclusive, ma sinergicamente orientate alla realizzazione dello scopo ultimo di chi studia una lingua straniera, cioè approssimarsi quanto più possibile al modello costituito dal parlante nativo, possederne e riprodurne il più possibile le abilità.
3.3. In secondo luogo, l’asserzione che dichiara espunta la grammatica dall’orizzonte didattico di un approccio comunicativo è semplicemente falsa. Riteniamo che il campione di Ricostruzione di conversazione fornito nel presente articolo e le note di presentazione che lo precedono dovrebbero fugare qualunque dubbio in proposito. Anzi, dovrebbero costituire la premessa per una rifondazione delle modalità di insegnamento della grammatica: all’interno di contesti, in atti comunicativi autentici, sulle orme di un reale comunicatore, il quale, nel produrre, muove dai significati alle forme grammaticali e non viceversa (il che implica, tra l’altro, l’abbandono di moduli didattici tipo “oggi si parlerà del congiuntivo” o loro varianti raffinate).
Se poi dovesse permanere qualche perplessità residua per il fatto che nel nostro campione non sono stati forniti paradigmi o schemi morfologici (dei quali peraltro non si esclude l’utilità), vorremmo dire che questo aspetto del problema, di rilevanza sicuramente periferica, può essere facilmente affrontato o mediante un testo di grammatica (e un discorso a parte andrebbe fatto circa l’opportunità di insegnare allo studente, se ancora non ne è in grado, a consultare autonomamente un simile testo) o anche personalmente dall’insegnante in una breve appendice all’attività stessa.
3.4. Infine, l’intera “questione grammaticale” riposa spesso su un singolare equivoco. Spesso infatti chi muove all’approccio comunicativo accuse di carenze grammaticali, lamentando presunte omissioni nell’insegnamento di regole per la strutturazione di messaggi, assegna al termine “grammatica”, in ciò seguendo una assai diffusa tendenza di impostazione tradizionale, il senso di “morfosintassi“.
Ma se per “grammatica” si deve intendere l’insieme delle regole utilizzate in una data lingua per strutturare messaggi, o, come si è detto altrove, per correlare significati e suoni, si dovrà allora riconoscere che i confini della grammatica si estendono ben oltre quelli della morfosintassi, investendo il dominio fonologico, il dominio lessicale, e spingendosi fino a quel territorio in cui la lingua si connette con la cultura e la civiltà che la esprimono (vedi 1.2.). In ognuno di questi ambiti esistono regole, o almeno fasci di tendenze omogenee. E in effetti il meccanismo di produzione ne tiene conto. Così come ne tiene conto l’approccio qui delineato, che fa leva sul meccanismo di produzione in tutta la sua complessità.
Ne risulta quindi che tale approccio non solo non trascura la “grammatica” intesa secondo un’accezione tradizionale, ma non trascura neanche quelle ulteriori zone della grammatica – intesa nell’accezione estensiva che le compete – che vengono invece per lo più ignorate o emarginate da prospettive metodologiche differenti da quella adottata in queste pagine. Accade così che paradossalmente gli stessi principi chiamati in causa a condanna dell’approccio comunicativo ne confermino la validità svelando invece inadeguatezze e limiti di chi li invoca.