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Un esempio di produzione libera orale

La vicenda comunicativa nella quale fra poco gli studenti si impegneranno ad interagire è quella di un acquirente in un negozio di abbigliamento. Un primo spunto per l’attività è già dato. Qualche giorno fa, infatti, hanno ascoltato la registrazione su nastro di un dialogo intercorso appunto tra un cliente ed una commessa di un negozio di abbigliamento. L’uomo aveva chiesto una giacca di lana di buona qualità e, dietro i consigli della commessa, dopo aver ben guardato e valutato tra i capi presentatigli, ne aveva scelto uno.

Oggi, però, gli studenti dovranno cimentarsi con atti comunicativi diversi da quelli presentati nella lezione di ascolto: non più “chiedere consiglio”, “valutare”, “informarsi sul prezzo”, ecc., ma “fare un reclamo”, protestare per aver pagato per buono un capo difettoso. Inoltre, nell’attività che li vedrà impegnati fra poco essi non saranno più soggetti prevalentemente ricettivi, ma gli agenti stessi di certi atti comunicativi, i creatori stessi dei messaggi.

Occorre, perciò, che siano motivati ad agire, che siano stimolati e, per così dire, che siano trasportati dalla classe in un negozio di abbigliamento.

A tale scopo non basta fare una semplice menzione delle informazioni precedentemente raccolte dal nastro, che pure rappresentano il punto di partenza del loro lavoro. Bisogna ricostruire nei dettagli tutta la situazione comunicativa e, dove il quadro delle informazioni risulta incompleto, intervenire “di fantasia”. L’atmosfera del negozio dovrà essere presente nella classe, dovranno essere ricostruiti le personalità e gli atteggiamenti psicologici del cliente e della commessa, infine dovrà essere chiara la ragione per cui l’uomo si ripresenta nel negozio: vuole fare un reclamo.

Come sempre, gli studenti lavorano collettivamente. La loro stessa collocazione nell’aula (sono disposti a semicerchio) li sollecita a prendere atto delle informazioni degli altri e ad integrarle con le proprie. L’insegnante funge semplicemente da “raccoglitore” delle informazioni e, tutt’al più, i suoi interventi si limitano a stimolarle. Anche la sua collocazione nella classe rende atto di questa sua funzione: non si trova “di fronte” ad essa, come in una “lezione”, si trova in mezzo a loro, ad una estremità del gruppo.

Inizio col chiedere qualche informazione sul negozio. Uno studente suggerisce che si tratta di una boutique molto elegante al centro di Roma. Un altro aggiunge che è una boutique “esclusiva”, vi si trovano solo capi firmati da grandi nomi. “Com’è la clientela?”, domando. Qualcuno descrive i clienti: sono persone eleganti. Possono spendere. C’è anche un attore famoso… Ne esce fuori un quadretto ben dettagliato. “Ho capito”, commento io. “E il personale?”. C’è chi vuole almeno quindici o venti commessi, chi invece ne suggerisce solo due. Una studentessa interviene dicendo che una boutique molto elegante non può essere così grande da avere quindici o venti commessi, ma neanche così piccola da averne solo due, e decide per sei. Raccolgo l’informazione: abbiamo raggiunto un compromesso. Chiedo ora una descrizione più accurata della commessa che ha servito l’uomo. Dalla voce, registrata sul nastro, deve essere molto esperta. “È molto gentile”, “Anche lei veste elegantemente e sa consigliare i clienti”, “Lavora da molti anni nel negozio”. Domando: “Può decidere da sola se cambiare la merce venduta, restituire i soldi ai clienti, fare sconti…?”. Qualcuno risponde che in un negozio così ci deve essere un direttore, uno che controlla. Il negozio è molto organizzato. Passano così alla descrizione del direttore. Non si vede. É nel suo ufficio. È una persona elegante, intelligente, diplomatica. Sa accontentare i suoi clienti, ma anche curare i propri interessi. È un uomo ambizioso, vuole fare carriera.

Gli interventi di ciascun studente sono coordinati dalla logica delle descrizioni. La coerenza delle informazioni è il perno su cui agisce la loro fantasia. Si può quasi dire che tutti siamo ormai in un negozio di abbigliamento. Anche i più restii a parlare, i più “timidi” hanno detto la loro o, quantomeno, hanno le idee chiare e sono pronti a parlare. I più fantasiosi conducono il gioco e stimolano gli altri ma, comunque, tutti sono coscienti del fatto che si sta riproducendo in classe una situazione reale nella quale, prima o poi, tutti potrebbero incorrere. E l’atmosfera di teatralità e di giocosità stabilitasi nella classe non è nuova per nessuno: sulla drammatizzazione si fondano tante altre attività di classe.

A questo punto intervengo dicendo che il nostro cliente è ritornato stamattina nel negozio perché a casa, rimisurando la giacca, si è accorto che presenta un fallo di fabbrica: ha un buco sulla manica.

Dalle sedie si alza un brusìo. Alcuni commentano, altri si interrogano a vicenda per assicurarsi di aver capito bene la nuova informazione. Io, intanto, mi dirigo al centro della classe. Ora l’attenzione di tutti è concentrata su di me, sono io che riprendo le fila del “gioco” per dare nuove istruzioni. Ripeto il mio intervento, indicando chiaramente dove si trova il buco, “… ecco, proprio qui, sul gomito, nessuno avrebbe potuto notarlo nel negozio”. C’è chi inizia spontaneamente a parlare della giacca col proprio vicino; qualcuno invece sorride, come per porre fine alla vicenda con un commento conclusivo, quasi per dire: “Va bene, ho capito ed è molto divertente, ma basta, quello che ci proponi adesso è troppo difficile da esprimere”. Approfitto del momento per dichiarare aperta l’attività di produzione libera. Tocca a loro adesso continuare il dialogo nel negozio di abbigliamento. Il signore è appena entrato e si dirige verso la commessa che lo aveva servito.

Mi avvicino agli studenti e li divido in gruppi di tre, aiutandoli a spostare le sedie. Uno di loro sarà il cliente, uno la commessa e l’altro il direttore: lascio a loro la scelta dei ruoli. Inoltre, faccio disporre i gruppi ad una certa distanza l’uno dall’altro, in modo che non si disturbino a vicenda. L’ultimo gruppo, però, consta di quattro persone. Al quarto rimasto, quindi, impongo il ruolo della moglie del cliente, venuta apposta per avere parte nella protesta. Lo studente che dovrà interpretarlo sorride divertito: non capita tutti i giorni di dover interpretare il ruolo della moglie!

Ai gruppi così riuniti do il via per l’attività. Assegno un tempo delimitato: cinque minuti per costruire la conversazione e, una volta costruita, ripeterla con una migliore fluenza.

Gli studenti cominciano a parlare. Mi accorgo, però, che qualcuno vorrebbe aiutarsi scrivendo le frasi su un foglio. Intervengo, perciò, dal centro della classe, per invitare tutti a non scrivere: non ne avrebbero il tempo, e inoltre in una situazione reale non ne avrebbero neppure la possibilità.

Ricominciano a parlare. Io, intanto, mi sposto da un punto all’altro dell’aula, rimanendo sempre ad una certa distanza, ma dimostrandomi sempre disponibile ad una loro eventuale richiesta di aiuto. Qualcuno, infatti, mi chiede un vocabolo, qualcun altro la forma corretta di una frase. Io assecondo le loro richieste, ma raccomando a tutti di non preoccuparsi tanto della forma delle frasi, e di curare invece la scorrevolezza del discorso, la verosimiglianza della loro esecuzione, la buona interpretazione dei ruoli psicologici e sociali dei personaggi. Del resto, tutti sanno che i problemi formali, grammaticali, della lingua vengono regolarmente affrontati in altri momenti della lezione.

A quasi un minuto dall’inizio dell’attività mi accorgo che uno dei gruppi si anima poco. Uno dei tre studenti vorrebbe parlare, ma gli altri due trovano difficoltà ad interpretare i loro ruoli: forse non riescono ad esprimersi come vorrebbero, oppure si bloccano, pensando di essere “meno bravi” dell’altro, o forse, chissà, hanno semplicemente paura di parlare. La dura realtà della classe ostacola il lavoro della fantasia. Devo ricondurli in quel mondo e così, quasi fossi curiosa di sapere come si sono suddivisi i ruoli, domando: “Beh? Tu chi sei, il cliente?”. “No, io sono il direttore”. “lo sono il cliente, e lei è la commessa”. “Bene!”, commento io. “Sii gentile, ma non dimenticare che oggi hai già dovuto cambiare un paio di pantaloni ad un altro cliente”. Un sorriso, un sospiro per rianimarsi ma, intanto, sono già “rientrati” nel negozio di abbigliamento.

Continuo a circolare senza mai invadere il loro campo, ma sempre presente e disponibile ai loro richiami.

I gruppi lavorano intensamente, così lascio trascorrere ancora qualche minuto oltre i cinque inizialmente stabiliti. Quando sento che la maggioranza di essi è arrivata ad una conclusione, invito tutti, dal centro della classe, a trovare un punto di arrivo, un epilogo e a ripetere da capo la conversazione. Dopo circa tre o quattro minuti, quando l’ultimo gruppo ha terminato di ripetere, dichiaro finita l’attività. Sono trascorsi in tutto poco meno di quindici minuti, otto li avevamo impiegati prima per mettere “a fuoco” insieme la vicenda comunicativa, della mezz’ora di lezione destinata complessivamente a questa attività ci restano ancora più di cinque minuti, il tempo necessario perché almeno uno o due gruppi possano presentare agli altri la loro scenetta.

Ne invito uno a caso al centro dell’aula, disponendo contemporaneamente il tavolo, lo sgabello e i pochi oggetti della classe in modo da riprodurre alla meglio un negozio di abbigliamento. Mi siedo, quindi, tra gli altri studenti, mentre quelli chiamati, senza aver avuto neanche il tempo di pensare alla mia scelta, iniziano la loro rappresentazione.