ti Scrivo
Affrontiamo l’abilità di scrivere, vale a dire l’abilità di trasmettere messaggi per mezzo di segni grafici. Sottolineo la definizione di scrivere, e in modo particolare il “trasmettere messaggi”, perché spesso nella glottodidattica si dimentica che l’atto di scrivere, nella realtà, implica l’esistenza di un lettore, di un destinatario. (Anche il diario ha un lettore, se non altri lo stesso scrivente.)
Si potrebbe obiettare che la mia è solo una trascurabile pignoleria e che l’importante è che gli studenti scrivano bene. Invece insisto, perché l’esistenza o meno di un ricevente dei messaggi è una variabile sostanziale e di indubbia pertinenza nel nostro compito di insegnanti. Una giustificazione alla mia tesi è costituita dalla differenza esistente fra quei testi prodotti da studenti che devono soltanto scrivere “bene” e quelli prodotti da studenti che hanno scritto ad un determinato lettore, presente nella mente mentre scrivono. Questi ultimi hanno più coesione, più scorrevolezza, più fluidità, più autenticità; leggendoli, si sente che sono le idee che spingono fuori le parole. (Invece negli altri le parole appaiono come elementi prioritari ai quali sono state artificialmente appese delle idee.) Tali testi risultano anche più lunghi. È vero che spesso le idee sono troppo ambiziose rispetto alle capacità linguistiche dello studente e che ciò dà luogo a sbagli grammaticali che rendono a volte impossibile la comprensione. Però, si ha la sensazione che lo studente, spinto dalla voglia di esprimere una determinata idea, diventi audace, si avventuri in zone grammaticali finora inesplorate, si sforzi di inventarsi delle regole. A volte si capisce che ha consultato una grammatica ed ha piazzato in mezzo al testo, magari a sproposito, una costruzione grammaticale che non aveva mai incontrato prima. A volte si riconosce una struttura grammaticale prelevata dalla sua lingua madre e trasferita “di peso”, senza nessuna delle necessarie modifiche, nella seconda lingua. Si trovano delle parole arcaiche o di uso estremamente specifico o settoriale che magari non hanno alcuna relazione con il testo. E così via.
Allora, dove voglio arrivare? Che senso ha parlare di un ricevente se il risultato è sicuramente un numero elevatissimo di sbagli? Invito il lettore ad immaginare per un attimo che i testi scritti dagli studenti non vengono corretti. Cioè che gli studenti, sotto lo stimolo dell’insegnante, scrivano per un determinato destinatario e per un determinato motivo; e che poi l’insegnante non corregga gli errori. Ciò avrebbe un senso didattico? Vediamo.
Poniamo, ad esempio, che l’attività di scrittura si svolga in classe e duri mezz’ora circa. E mettiamo che ci sia stata una precedente attività di lettura avente come oggetto un articolo di giornale in cui si parlava di studenti di lingua in un modo troppo generico e non del tutto esatto. Gli studenti vengono allora invitati dall’insegnante a scrivere una lettera al direttore del giornale. Altre precisazioni non sono necessarie: ogni studente, essendo chiamato in causa personalmente, avrà idee proprie sul contenuto della lettera. (Non è sempre facile trovare spunti per la scrittura che immediatamente coinvolgano lo studente in prima persona. Per non complicare il presente discorso affronto questo problema nel seguente articolo.)
Gli studenti si mettono al lavoro. Per mezz’ora non succede altro che ciò che ho descritto sopra: gli studenti si sforzano di trovare modi lessicali e grammaticali per farsi capire, sperimentano forme non ancora ben imparate, inventano parole che “suonano” giuste, consultano (oppure no) un dizionario, una grammatica, l’insegnante, un altro studente. Comunque, vanno avanti; e la forza motrice è costituita sempre dai messaggi che devono arrivare al lettore.
Alla fine della mezz’ora prevedo tre possibili alternative. Una è che l’insegnante dichiari conclusa l’attività, e basta. (La prima volta, come per tutte le attività di un approccio comunicativo, bisogna spiegare agli studenti il perché di una tale conclusione.) Oppure l’insegnante dà l’indirizzo del giornale e invita gli studenti a spedire la lettera. Oppure l’insegnante raccoglie le lettere, le legge a casa, aggiunge un breve commento sul contenuto (non sulle forme) e le rende agli studenti.
Prima di procedere, vorrei precisare che ciò che stiamo esaminando è solo un tipo di attività didattica, connesso con la produzione di lingua scritta, la cui esistenza non esclude l’esistenza di altri tipi di attività. Voglio semplicemente esaminare se un tale tipo di attività (che chiamiamo Produzione libera, come avrà già capito chi ci ha seguiti in questi anni) favorisce o no un progresso nello studente.
Scrive John Oller Jr. in Language Tests at School (Longman, 1979, p. 18, 19).
“Nell’uso normale della lingua si possono individuare due importanti tipi di contesti. Il primo è la materia fisica della lingua, la quale si organizza in combinazioni di elementi verbali più o meno lineari. [Il contesto verbale o “contesto linguistico”, Ndr]… Un secondo tipo importante di contesto ha a che fare con il mondo, fuori della lingua, come viene percepito dagli utenti della lingua in relazione con se stessi e con persone o gruppi di persone per loro significativi. Adopereremo il termine “contesto extralinguistico” per far riferimento a stati di cose costituiti da oggetti, vicende, persone, idee, rapporti, sentimenti, percezioni, ricordi, e così via. Può essere utile fare una distinzione fra gli aspetti oggettivi del contesto extralinguistico e quelli soggettivi. Da una parte c’è il mondo delle cose, vicende, persone, ecc., e dall’altra c’è il mondo del concetto di sé, concetto dell’altro, rapporti interpersonali, rapporti di gruppo, e così via. In un certo senso per un determinato individuo i due mondi fanno parte di un’unica totalità, però non necessariamente sono così strettamente legati. Altrimenti non ci sarebbe bisogno di termini come schizofrenia o paranoia.
Né i contesti linguistici, né quelli extralinguistici sono semplici di per sé, ma ciò che rende ancora più complicata la questione e che rende possibile una comunicazione sensata è che ci sono corrispondenze sistematiche tra contesti linguistici e contesti extralinguistici. In altre parole, le sequenze di elementi linguistici negli usi normali della lingua non sono casuali nei loro rapporti con persone, cose, vicende, idee, rapporti, atteggiamenti, ecc., ma hanno un rapporto sistematico con questi stati di cose fuori della lingua. Possiamo dire, quindi, che i contesti linguistici vengono pragmaticamente applicati in contesti extralinguistici, e viceversa”.
Nel nostro caso, cioè la scrittura, lo studente ha per l’appunto, come abilità da sviluppare, il “viceversa”, cioè l’applicare contesti extralinguistici in contesti linguistici. Cioè deve diventare più efficace in tale abilità. Si tratta di un’abilità per niente semplice ma, se lo studente non la esercita, non ci si può aspettare che diventi bravo nell’effettuarla. Per migliorare la sua capacità di scrivere, deve scrivere. Con questo, certo, non dico niente di nuovo: tutti gli insegnanti da secoli fanno scrivere gli alunni, convinti che, Cosi facendo, essi migliorano. Nuova invece è la proposta di non correggere. (La tradizione vuole che si correggano solo gli errori morfosintattici, lessicali, ortografici. Non sarebbe priva di interesse una proposta di correggere errori a monte delle forme linguistiche. Per esempio, errori di percezione del contesto extralinguistico. Proposta da non confondere con la mia, anche perché ad una tale proposta obietterei facendo ricorso allo stesso tipo di argomentazione adoperato in queste pagine.)
Osserviamo due studenti: lo studente A in una classe dove le Produzioni libere vengono corrette, e lo studente B in una classe dove le Produzioni libere non vengono corrette. Lo studente A, la prima volta che gli viene restituito un suo scritto con le correzioni dell’insegnante, non proverà un sentimento di gioia. Rimarrà un po’ scoraggiato e, cosa umana, reagirà decidendo di sbagliare di meno nel futuro. Nella produzione libera seguente e in tutte le successive si ricorderà di questa decisione. Se non è masochista, eviterà di esplorare strutture grammaticali non ben imparate, eviterà di “inventare” forme o parole quando servirebbero. Niente audacia: lo studente preferirà rimanere su un terreno sicuro. Frasi iniziate verranno abbandonate interamente: troppo rischioso. Lo studente B invece non ha questo “freno” alla sua inventiva, può tranquillamente avventurarsi in regioni linguistiche poco conosciute, può buttarsi, provarci. L’abilità di applicare contesti extralinguistici in contesti linguistici può esercitarsi liberamente, senza che tale esercizio sia annacquato da considerazioni di altro ordine.
C’è un altro motivo per proporre di non correggere le produzioni libere. Lo studente B viene incoraggiato a spingersi ai limiti delle sue conoscenze e oltre. Lo studente A, invece, viene incoraggiato a ritirarsi ben al di sotto dei limiti delle sue conoscenze. Per lo studente B, quindi, c’è una costante verifica ed autovalutazione. La natura stessa dell’attività gli fornisce informazioni relative a tre categorie di dati: a) “ciò che so fare”; b) “ciò che non so fare e non m’importa”; e c) “ciò che non so fare e che invece vorrei saper fare”. Quest’ultima categoria è quella che più ci interessa come insegnanti. Sono gli elementi di questa categoria che lo studente è pronto, anzi prontissimo, ad imparare. Un’eventuale presentazione che riguardasse questi elementi avrebbe bisogno di pochissimo tempo. Gli elementi di questa categoria corrispondono al punto a cui è arrivato lo studente lungo ciò che Julian Dakin chiama il suo “programma interno”. Secondo Dakin, il programma dell’apprendimento risiede “all’interno del discente. Le esperienze fornite dall’insegnante, e i problemi da lui posti, sono tentativi di rendere reale ciò che è potenziale”. (The Language Laboratory and Language Learning, Longman, 1973, p. 16). E ancora: “… sebbene l’insegnante possa controllare le esperienze alle quali viene esposto il discente, è il discente che seleziona da esse ciò che impara” (Ibid).
Più esteso è il campo di problemi linguistici affrontato dallo studente (quando è fortemente motivato dalla voglia di trasmettere messaggi), più alta è la probabilità che alcuni entrino nella mia terza categoria o, nei termini di Dakin, corrispondano al punto attuale del programma interno dello studente, e quindi divengano candidati ad una rapida assimilazione in una eventuale successiva attività di presentazione.
Riassumiamo. Per Produzione libera scritta intendiamo che lo studente scriva ad una determinata persona (o determinate persone) per determinati motivi, e che il testo risultante non venga corretto. (L’attività ha quindi le stesse caratteristiche della Produzione libera orale, di cui abbiamo parlato in precedenti numeri del bollettino). Ho cercato di dimostrare che un corso di lingua che non comprendesse frequenti attività di produzione libera avrebbe i seguenti effetti: da una parte rallenterebbe la velocità con la quale lo studente percorre il suo programma interno e, dall’altra, trascurerebbe l’esercizio della capacità di applicare contesti extralinguistici in contesti linguistici, capacità il cui livello rappresenta l’unico vero indice del suo progresso.