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Sul “fare eco”

Se potessimo entrare invisibili nelle infinite aule scolastiche del mondo troveremmo moltissime differenze di comportamento da parte degli insegnanti. Tante e tante differenze che sarebbe praticamente impossibile classificare i diversi comportamenti in un modo leggibile da chi non era con noi.

Potremmo, però, decidere a priori una classificazione a poche voci, e poi andare a vedere quanti insegnanti si collocano in ognuna delle voci. In questo caso vanno rispettati due criteri: a) le voci dovrebbero essere scelte in modo che l’appartenenza ad una voce comporti la non-appartenenza alle altre; e b) tutti gli insegnanti dovrebbero trovare una loro collocazione nella classificazione. Minore è il numero delle voci nella classificazione, maggiore sarà la probabilità che questi criteri vengano rispettati. Anzi, il numero migliore è il più basso: due. Questa è una delle classificazioni che sceglierei io: nei momenti in cui l’insegnante interagisce con la classe intera ci sarà chi prevalentemente “spiega” e chi prevalentemente “chiede”. Cioè, chi parla addosso ai discenti e chi invece li fa parlare. Sono sicuro, purtroppo, che la stragrande maggioranza si collocherà nella prima categoria. Mi piace pensare, tuttavia, che fra i lettori del Bollettino Dilit questa maggioranza sia assai ridotta rispetto alla norma. È probabilmente anche vero che la proporzione del tempo in cui questo tipo di pubblico interagisce con l’intera classe è piuttosto ridotta rispetto alla norma, ma sto pensando ad attività didattiche in cui riteniamo sia utile un’interazione insegnante/intera classe, quali la Ricostruzione di conversazione e l’ultima fase del Puzzle linguistico. Fatte bene, queste attività richiedono da parte dell’insegnante un comportamento “chiedente” piuttosto che un comportamento “spiegante”.

Adesso restringiamo il campo. Lasciamo perdere gli insegnanti “spieganti” ed andiamo a visitare invisibili, gli insegnanti “chiedenti”. E creiamo una nuova classificazione a due voci: gli insegnanti che fanno “eco” e quelli che non fanno “eco”. “Fare eco” significa ripetere ciò che il discente dice. Per esempio:

Insegnante: Qual è la capitale della Francia?
Discente: Parigi.
Insegnante: Parigi. Bene.

Troveremmo che la maggior parte degli insegnanti “chiedenti” fanno eco.

Vorrei adesso cercare di dimostrare che il fare eco è un vizio di cui vale la pena liberarci. Questo perché comporta dei seri danni all’apprendimento. Essenzialmente per tre motivi. Li tratterò uno per uno.

Il primo motivo si collega allo scopo stesso del comportamento “chiedente” dell’insegnante. Perché chiediamo invece di affermare? In fondo la lezione proseguirebbe molto più velocemente se non chiedessimo il parere del discente. La risposta è che quando il discente cerca la soluzione in prima persona l’assimilazione della nuova informazione è molto più probabile di quanto sarebbe senza un lavoro mentale da parte sua. Anzi, più fa ricerca, più probabilità c’è che l’apprendimento abbia luogo. Lo studente va visto, quindi, come un ricercatore. Attenzione, non stiamo dicendo che lo studente ha spontaneamente chiesto di essere trattato così: è una nostra scelta trattarlo da ricercatore. Spesso l’unico modello nell’esperienza precedente dello studente cui egli può ricorrere per dare un senso al comportamento “chiedente” dell’insegnante è la classica interrogazione Nell’interrogazione la funzione delle risposte alle domande è di ottenere un giudizio dall’insegnante sulla propria bravura. È naturale che la prima “lettura” che lo studente fa della nuova situazione sia fortemente influenzata da questo. Niente di più normale, quindi, se questo nuovo insegnante “corregge” la risposta dello studente. Forse il lettore si sta domandando “Non si parlava del ‘fare eco’? Che c’entra la ‘correzione’?”. Il fatto è che quando l’insegnante fa eco, ciò che dice è diverso da quello che ha detto lo studente; e quest’ultimo ne è consapevole. Lui sa che questa diversità è un miglioramento: cioè, dal suo punto di vista, una correzione. Gli esempi abbondano ma uno mi è capitato ieri mentre osservavo una Ricostruzione di conversazione.

Studente: Mi prendi il portacendere, per favore.
Insegnante: Mi prendi il portacenere, per favore.

Ho chiesto dopo al collega perché ha cambiato l’ipotesi dello studente e mi ha detto che era convinto che lo studente avesse detto “portacenere”. È perfettamente umano sentire quel che vogliamo sentire o quel che ci aspettiamo di sentire. Il danno nel fare eco è che lo studente rimane convinto del suo ruolo di “interrogando”: non gli arriva l’idea che noi lo vediamo come un ricercatore. In una situazione di esame conviene essere prudente, cercare di sbagliare il meno possibile, anzi la difesa migliore, se parlare non è obbligatorio, è il silenzio.

Invece è importantissimo che lo studente capisca che vogliamo che faccia ricerca, che consideriamo le sue parole non come tentativi di non sbagliare ma invece come ipotesi offerte e disponibili ad un commento che gli permetterà di migliorarle. Il lettore potrebbe replicare che il problema non è il fare eco bensì il non ascoltare con sufficiente attenzione da parte dell’insegnante. E invece sta di fatto che l’ascoltatore più attento del mondo non potrà evitare di modificare l’ipotesi dello studente nel momento in cui la ripete. Questo perché l’ipotesi dello studente è generalmente un complesso di scelte morfologiche, scelte sintattiche, scelte lessicali e scelte fonologiche. Nel migliore dei casi l’eco dell’insegnante modifica (cioè migliora) l’ipotesi dello studente almeno al livello fonologico. Lo studente è stato quindi corretto.

Il secondo danno che viene provocato col fare eco riguarda gli altri studenti (quelli che non hanno espresso un’ipotesi in quel momento). Anche loro sono ricercatori. La lezione deve essere una ricerca svolta da un’équipe di ricercatori. L’ipotesi dello studente A viene sottoposta ad un commento non solo da parte dell’insegnante ma anche dei ricercatori collaboratori. Anzi, in una lezione ben svolta sono loro per primi che sono tenuti a commentare l’ipotesi. Se gli studenti sono abituati a sentir fare eco da parte dell’insegnante, aspetteranno sempre che ciò avvenga, prima di prendere in considerazione l’ipotesi. Il risultato è una classe che non si dà la briga di ascoltare i compagni, con i conseguenti tempi morti per chi non sta facendo un’ipotesi e tanta inutile fatica per l’insegnante (l’unico che sta cercando di capire chi sta formulando l’ipotesi). Una situazione costituita da tante lezioni in parallelo quanti sono gli studenti, anziché una ricerca unitaria di tanti collaboratori.

Il terzo, e forse il più grave, danno che viene arrecato col fare eco ha a che vedere con il fatto che la lezione di lingua usa come mezzo di istruzione l’oggetto stesso dello studio: la lingua. (Sto dando per scontato che le lezioni si svolgano in L2.) In qualsiasi lezione di lingua il discente esercita un determinato ruolo comunicativo. Più viene esercitato un ruolo comunicativo, più quel ruolo tende a diventare spontaneo. In ultima analisi la scuola trae legittimità non dalla sua capacità di creare persone che funzionino bene al suo interno bensì dalla sua capacità di rendere le persone più capaci di intervenire nella realtà extrascolastica. Ogni volta che facciamo esercitare un ruolo comunicativo che non serve nella realtà extrascolastica non soltanto facciamo perdere tempo ma inoltre promuoviamo un comportamento comunicativo che potrebbe contribuire ad influenzare negativamente i rapporti comunicativi che il discente potrà voler stabilire in futuro. Per capire meglio le condizioni in cui il fare eco è ammissibile nel mondo extrascolastico prendiamo in considerazione lo scambio seguente:

Zia: Dove sei stato oggi?
Bambino: All’asilo.
Zia: Sei stato all’asilo. Bravo. E che cosa hai fatto all’asilo?
Bambino: Ho disegnato un dinosauro.
Zia: Hai disegnato un dinosauro. Che bravo.

Proviamo ad invertire i ruoli:

Bambino: Dove sei stata oggi?
Zia: Sono stata a giocare a bridge con delle amiche.
Bambino: Sei stata a giocare a bridge con delle amiche. Brava. E con quante amiche giochi?
Zia: Con tre amiche.
Bambino: Giochi con tre amiche. Che brava.

Nel primo scambio tutto è normale. Nel secondo scambio, invece, il bambino rischia di essere rimproverato per insubordinazione. Nel mondo extrascolastico chi si trova davanti ad un interlocutore che fa sistematicamente eco sa di occupare una posizione di subordinazione non-negoziabile rispetto all’altro. Non dovrebbe essere nostra premura preparare gli studenti ad occupare una tale posizione sociale.

Una clausola addizionale al terzo motivo per smettere di fare eco in classe è che, se lo studente avverte il “paternalismo” implicito nel fare sistematicamente eco da parte del suo insegnante, non potrà mai percepire il proprio ruolo come ricercatore: “Subordinato mi vedi? Subordinato sarò”.