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Non mi chiedono mai niente…

Riceviamo e pubblichiamo

Alcune riflessioni maturate insegnando italiano a Taiwan e in Giappone (al lettore decidere quanto sono generalizzabili)

Una delle più comuni lamentele da parte di molti insegnanti è la mancanza di domande da parte dei propri studenti: un’apparente passività che lascia spesso isolati e impotenti di fronte ad un muro di silenzio: “non mi chiedono mai niente”, “anche se non capiscono, non me lo dicono”, “sono troppo timidi, troppo passivi”, e via dicendo. In breve, si ha spesso la spiacevole sensazione di trovarsi un po’ smarriti, non riuscendo a capire se gli studenti ci stiano seguendo o no: apparentemente tutto fila liscio, ma serpeggia il sospetto che le teste che ci annuiscono sorridendo, accanto ad altre misteriosamente chine sul quaderno, ci stiano “dando la tara”. Come ai matti. Magari in realtà non hanno capito niente della nostra spiegazione, pensiamo: io come faccio a saperlo?

Davvero avete capito?

Alcuni insegnanti pongono direttamente la domanda alla classe: “davvero avete capito?” Se un coraggioso risponde di no (perché ci vuole coraggio ad ammettere di fronte a tutti di non aver capito), l’insegnante ricomincia subito a spiegare dall’inizio, esattamente come la prima volta o con qualche variazione e digressione. E poi ripete la domanda: “adesso avete capito?”

Ovviamente viene da chiedersi: se gli studenti non hanno capito la prima volta, perché dovrebbero aver capito la seconda? E come si sentono mentre riascoltano le stesse cose due volte? Il fatto che l’insegnante spieghi qualcosa per la seconda volta viene spesso visto dagli studenti come un “favore” che l’insegnante gli fa per colmare una loro insufficienza. Alcuni forse pensano: invece di “andare avanti” l’insegnante si ferma e rispiega, perché con noi una volta sola non basta… Non sarà la prima volta nella sua vita che spiega questo punto, e quindi la sua spiegazione sarà collaudata… Evidentemente nella sua esperienza le altre classi capivano subito, eppure con noi non ha funzionato. Siamo proprio asini.

Invece altri studenti forse penseranno: questa spiegazione non è chiara, e adesso che gli abbiamo detto che non la capiamo lui ce la propina di nuovo? Adesso quando ci chiede se abbiamo capito io gli rispondo di sì, altrimenti si offende o si arrabbia o, peggio, mi rispiega tutto per la terza volta…

Così, quando l’insegnante speranzoso chiede di nuovo “adesso avete capito?”, generalmente alcuni (ormai stufi) annuiscono: “sì, tutto chiaro”; mentre altri si rifugiano frustrati nel silenzio e nei misteri del quaderno: l’insegnante interpreterà il loro silenzio come un assenso? O sarà abbastanza onesto da capire la loro incertezza? In ogni caso, molti non hanno nessuna intenzione di lasciarsi attribuire una deficienza che non sentono propria, né vogliono mentire dicendo che hanno capito bene, né accusare l’insegnante di incapacità dicendogli che nemmeno stavolta hanno capito granché.

Per il povero insegnante, a questo punto, l’unica soluzione possibile sembra essere prendere per buona la mancanza di risposte negative. Pare che abbiano capito, e in ogni caso non posso farci niente, ormai. Gli ho già detto più volte che se non capiscono me lo possono dire chiaramente, ed io “rispiego tutto anche cento volte, se necessario”: per ora andiamo avanti e vedremo.

Inutile dire che la successiva verifica (inevitabile, se in fondo alla mente ho ancora il ricordo di quegli assensi troppo sospetti per essere veri) offre risultati fallimentari e molto frustranti, tanto per l’insegnante quanto per gli studenti.

Da cosa deriva tutto questo? Dall’imporre un proprio passo (o il passo del “programma”) a una decina di teste con ognuna ritmi e caratteristiche differenti? Dal non lasciare che gli studenti scoprano e interpretino da soli il significato di una parola, un concetto, un punto grammaticale, ecc.? O da una sconfinata fiducia nella propria chiarezza espositiva? Le cause sono sicuramente parecchie e affondano le loro radici nel modo di condurre la lezione, ma l’insegnante può fare molto, per prevenire questa situazione.

L’ideale naturalmente sarebbe avere di fronte un gruppo che manifesta i propri interrogativi spontaneamente, senza alcuno stimolo a farlo da parte dell’insegnante. Si dice spesso che una reattività curiosa da parte della classe si raggiunge nel tempo, mediante una pratica didattica attenta e coerente. Che gli studenti devono avere una fiducia profonda nell’insegnante. Che si deve cercare e stimolare continuamente una comunicazione reale e profonda. Che la lezione non è il palco dell’insegnante, ma degli studenti. Tutte cose buone e giuste, che conosciamo.

Ma per stimolare domande spontanee, in pratica, che altro possiamo fare?

Avete capito sì o no?

Un primo passo, ad esempio, è eliminare completamente la formula “avete capito?” e sostituirla, se è proprio necessario chiederlo, con “ci sono domande?” Questa formula, apparentemente simile alla prima, è in realtà molto diversa: innanzitutto è molto più ampia, poiché lascia spazio non solo a chi non ha capito, ma anche a chi vuole approfondire, confrontare, sollevare una riflessione, chiedere qualche esempio specifico, e cosi via. Forse gli studenti hanno capito benissimo la spiegazione, ma proprio quest’ultima ha aperto nuovi dubbi e sollevato nuovi interrogativi. La domanda “avete capito?” prevede come risposta solo “sì” oppure “no”, chiedendo agli studenti se abbiano recepito o meno la spiegazione, e nient’altro: non prende nemmeno in considerazione l’idea che essi possano non accettare la spiegazione appena ascoltata, e non prevede nessun accoglimento di punti di vista differenti, nessuna defezione rispetto alla Verità che propone-impone. Quello che ti ho detto è indiscutibile: o capisci o non capisci.

Invece la formula “ci sono domande?” propone ed eventualmente apre una fase di dibattito: implica che l’insegnante accetti qualsiasi tipo di domanda e sia pronto a metterle tutte sul tavolo della discussione comune.

Ad esempio, durante una lezione sui verbi riflessivi, un insegnante dice che questi verbi sono preceduti da “mi, ti, si, ci, vi, si”. Poi chiede: “avete capito?” Magari tutti hanno capito perfettamente quello che l’insegnante ha detto, ma forse qualcuno si sta chiedendo se queste paroline che precedono il verbo non coincidano, in fondo, con dei pronomi diretti. Un dubbio intelligente, che varrebbe la pena di condividere con la classe, scambiandosi idee e opinioni. Ma l’insegnante non chiede agli studenti se ci siano obiezioni, considerazioni o precisazioni: chiede solo se abbiano capito quello che lui ha detto. Lo studente, magari timido, che si è posto il problema della natura pronominale dei verbi riflessivi rischia di restare col suo interrogativo. Il resto della classe forse non scorge neppure la questione e non avrà la possibilità di affrontare il problema. Tanto hanno capito.

Vale la pena di fare una domanda?

Se non ci basta chiedere se abbiano capito o meno, e se vogliamo incoraggiare gli studenti a qualsiasi intervento, allora dobbiamo anche chiederci cosa significhi per lo studente fare una domanda all’insegnante davanti a tutti.

Sembra una cosa semplicissima, ma è un’azione molto diversa rispetto a dire semplicemente “sì, ho capito” o “no, non ho capito”: siamo su un piano di responsabilità molto più alto e abbiamo moltissime possibilità, ma si tratta anche di un’operazione estremamente difficile e faticosa.

Lo studente ha appena ascoltato qualcosa in una lingua non sua, e sta ragionando su quanto ha capito e non capito (perché in un’altra lingua e/o perché quanto ha sentito gli appare nebuloso concettualmente). A questo punto vuole esprimere qualcosa: forse un dubbio, un interrogativo. Deve isolare il problema, ciò che vuole sapere, e poi dargli forma costruendo una domanda morfosintatticamente corretta nella lingua bersaglio. In sostanza, deve verificare più volte di non aver commesso sciocchezze né a livello di concetti né a livello di “grammatica”: non vuole certo fare una figuraccia! Per questo motivo deve anche raccogliere una certa dose di coraggio, ed infine esporsi di fronte a tutti: un consumo di energie non indifferente. Quindi deve davvero valerne la pena, rispetto al mantenimento di un solido “basso profilo” mimetico ed efficace…

Se uno studente rompe il ghiaccio e fa una domanda, ha consumato queste energie e raccolto il suo coraggio: in breve, ha deciso che ne vale la pena. Il suo intervento ha una forte motivazione e un grande valore, e merita tutto il rispetto dell’insegnante e della classe.

Se anche la sua domanda sembrasse strana, stupida, oppure mal formulata o “fuori programma”, non potrebbe che essere la benvenuta, se veramente vogliamo una classe reattiva e critica. Eventualmente, semmai, possiamo dire che non abbiamo capito e chiedere di riformulare l’intervento. Ovviamente, liquidare o eludere la domanda di uno studente significa disprezzare la sua fatica, il suo pensiero e il suo coraggio, e quindi minare alla base il rapporto di fiducia tra l’insegnante e la classe: non solo con lo studente che ha sollevato il problema, che dopo uno sforzo significativo si sentirà non capito (o peggio umiliato) pubblicamente, ma anche con gli altri, che non volendo trovarsi nella stessa spiacevole situazione si guarderanno bene dal chiedere nulla in futuro.

Al contrario, accettare ogni dubbio e mostrare il proprio rispetto verso chi lo rende pubblico contribuisce a costruire una reciproca fiducia, e stimola ulteriori approfondimenti e una maggiore apertura da parte di tutti. Spesso è un processo lento e graduale, ma condizione necessaria a instaurare un clima di collaborazione, in cui l’insegnante “scende dalla cattedra” il più possibile. Banalità? Direi proprio di sì, ma che purtroppo non sono ancora entrate in molte aule!

L’insegnante “non lo sa”!

Un altro caso, probabilmente ben più frequente di quanto si creda, è quello in cui l’insegnante non conosce la risposta alla domanda di uno studente, o non la conosce con certezza: è inutile e controproducente inventare una spiegazione “verosimile” o “accettabile” su due piedi, buttando lì una nostra personale “interpretazione” della soluzione. È molto più onesto ammettere di non sapere e, di fronte allo studente, appuntarsi con cura la domanda, dicendo che risponderemo alla prossima lezione, dopo aver verificato la risposta. Cosa pensano gli studenti che assistono a questa nostra reazione? Intanto, che la domanda appena fatta non era un intervento stupido, e che lo stesso insegnante la considera degna di approfondimento: altrimenti non se la scriverebbe, né andrebbe a cercare una risposta. Inoltre si scopre che l’insegnante non pretende di sapere sempre tutto: è un essere umano e non lo nega, e si rapporta in modo onesto con  la classe, impegnandosi anche oltre la lezione per risolvere il problema irrisolto. Merita fiducia, e sebbene non sia in grado di rispondere subito, promuove la domanda appena sentita, dando implicitamente il benvenuto a qualsiasi altro intervento.

Paziente attesa

Infine, quando e come chiedere se ci siano domande? Intercalare delle continue richieste di conferma durante il nostro discorso è una tentazione che si rivela controproducente e innaturale, oltre che privo di rispetto nei confronti dei nostri interlocutori: finiamo per condurli “un passo alla volta” esattamente dove vogliamo andare noi, ma non aiutiamo di certo la loro indipendenza e abilità di negoziare significati. Invece, è la classe che deve prendere in mano la possibilità/responsabilità di decidere da sola se interromperci o meno per chiedere chiarimenti (vedi l’articolo “Se non ci capiscono”, di Christopher Humphris nel Bollettino Dilit 1994/1 scaricabile dal sito www.dilit.it/formazione). Ulteriore problema: mentre ci ascoltano gli studenti non hanno il tempo materiale di ripercorrere quanto sentito e operare il faticoso processo descritto sopra, che porta alla formulazione di una domanda.

Molto meglio, allora, ritagliare una fase specificamente dedicata al dibattito: quando abbiamo finito di parlare possiamo finalmente chiedere se ci siano interventi. Chiedere come si chiede l’ora ad un passante, educatamente ma frettolosamente, magari in piedi vicino al gruppo, non funziona: è essenziale mostrarsi disponibili e pronti a garantire che ogni questione è ben accetta, per quanto tempo possa richiedere. Meglio verificare di essere lontani dallo spazio degli studenti e in una posizione di attesa, aperta e rilassata, ad esempio comodamente seduti.

Io, che lavoro in aule relativamente piccole, mi siedo casualmente per terra appoggiandomi al muro con noncuranza. Per quanto posso, cerco di trasmettere un’idea di “rallentamento del tempo”: prendetevi tutto il tempo di cui avete bisogno per riflettere, io me ne sto qui comodo comodo ad aspettare.

Seduto, chiedo se ci siano domande e rimango in attesa per un tempo abbastanza lungo (meglio aspettare troppo che troppo poco) per permettere agli studenti di decidere se valga la pena di intervenire, e soprattutto per lasciarli pensare in pace. Cerco di restare tranquillo, “ininfluente”. E zitto.

Aspetto e li guardo controllare gli appunti, il dizionario o il pavimento. E intanto mi chiedo: cosa stanno pensando di questa fase? Pensano che il “momento delle domande” sia un “favore” che gli faccio, o una formalità ereditata dalla scuola pubblica, o una perdita di tempo? Sentono che devono farmi “almeno una domanda” per forza, perché la voglio io? O stanno davvero riflettendo su quello che interessa a loro? E cerco di capire se ho sbagliato qualcosa.

Conclusione

Se siete arrivati a leggere fin qui, saprete che non ho scritto niente di “nuovo” o di particolarmente originale, ma solo semplici accorgimenti per promuovere gli interventi spontanei in classe:

  • L’eliminazione della formula “avete capito?”, in favore dell’accettazione rispettosa di ogni tipo di domanda.
  • L’apertura di fasi di dibattito regolari e programmate, con l’insegnante disponibile ma lontano dallo spazio degli studenti (in una posizione rilassata e “non aggressiva”).
  • L’onesta ammissione di non sapere quando la domanda (che ci appunteremo per rispondere in futuro) travalica le nostre conoscenze e certezze.

Con qualche accorgimento e la costruzione di un rapporto di fiducia duraturo, forse avremo il piacere di essere interrotti da uno studente che chiede o – meglio ancora – che non è d’accordo con noi.