Un salto in libreria II: “Le facce del parlare” di Carla Bazzanella
È giunto sul nostro tavolo un prezioso testo di Carla Bazzanella, Le facce del parlare, uscito circa un anno fa per i tipi della Nuova Italia e inserito nella fortunata collana “Biblioteca di italiano e oltre”. Il contenuto è ben sintetizzato nel sottotitolo che suona così: “Un approccio pragmatico all’italiano parlato”. Il mio compito sarà quello di uscire da questa sinteticità per illustrare gli aspetti più importanti di questo testo, evitando però di cadere nella prolissità di un riassunto totale. Ma, prima di addentrarmi nello specifico, voglio dire che sono stato favorevolmente colpito dalla ricca mèssa di riferimenti bibliografici, che Carla Bazzanella utilizza ora come punto di partenza storico per poi procedere nelle sue elaborazioni, ora come supporto teorico delle sue conclusioni. Tutto il testo ne è disseminato a tal punto che mi ci vorrebbero almeno quattro pagine per elencare tutta questa sorta di “Gotha” della linguistica. Si va da Austin a Searle, da Lakoff a Lepschy, da De Mauro a Lehmann, da Humboldt a Halliday e poi Morris, Ochs, Tannen e così via.
Il libro si divide in due parti intitolate rispettivamente “Problemi generali” e “Aspetti specifici”. Mentre nella seconda parte vengono presentate alcune trattazioni che attengono allo studio del parlato, partendo da un corpus di riferimento e ponendo l’accento, ad esempio, su alcune modalità d’uso dei tempi verbali come l’imperfetto e il futuro oppure sui meccanismi sintattici di focalizzazione e l’uso del passivo, sui segnali discorsivi, sulle interruzioni tra parlanti, sulle micro e macro funzioni delle ripetizioni in un dialogo, nella prima parte si discute piuttosto di fatti metodologici.
Io mi soffermerò soprattutto sulla prima parte. Intanto, approccio pragmatico perché? Ma perché la Bazzanella vuole che finalmente si esca da quel guscio che racchiude il parlare come “pura e semplice macchina strutturale” per approdare all’idea che il parlare serve a “fare delle cose”. La dimensione pragmatica dell’analisi linguistica riguarda tutto ciò che concerne l’azione indotta dall’uso del linguaggio. Per spiegarmi meglio, posso dire che l’analisi pragmatica studia gli aspetti del parlare come forma dell’agire linguistico all’interno di una certa situazione comunicativa e, ovviamente, sociale. Significare è come agire. “Dire è fare” diceva Searle negli anni ’70. È intuibile, perciò, che la pragmatica non possa rimanere una scienza pura, ma essere invece un luogo del sapere dove, naturalmente attratti, confluiscono contributi di diverse altre discipline come la psicologia, la sociologia, l’etnologia della comunicazione, la filosofia del linguaggio, ecc.
Insomma la pragmatica, per Carla Bazzanella, si caratterizza in quanto “considerazione della lingua come azione ed interazione all’interno di un contesto”; e quindi come “dipendenza del significato dal contesto d’uso”. Quanta enfasi viene data, e giustamente a mio avviso, alla nozione di contesto!! Se ne occupò per primo Malinowski il quale parlava esattamente di “contesto di situazione” e ne individuava le linee portanti nei caratteri dei partecipanti, nella loro azione verbale e non verbale e negli effetti di queste.
Più tardi l’etnometodologo americano Hymes specificò le componenti del contesto così individuandole: partecipanti, atti o forma e contenuto di ciò che si dice, risultati, localizzazione, agenti strumentali, norme d’interazione e d’interpretazione, i tipi, l’espressione. Solo più recentemente, cioè nel 1989, Givón è arrivato a distinguere tre tipi di contesto, ognuno caratterizzato da un focus. Givón ci parla infatti di:
a) Focus generico che può essere spiegato come condivisione del mondo culturale e del lessico da parte dei parlanti;
b) Focus deittico che consiste nel condividere la situazione enunciativa in cui va inclusa la deissi vera e propria;
c) Focus del discorso o condivisione del contesto.
Lo stesso Givón riconosce che, a causa della complessità e della vaghezza del contesto, il discorso delle sue componenti va tenuto aperto ad ogni ulteriore contributo informativo.
Dicevamo poc’anzi della deissi. Ad essa Carla Bazzanella dedica ampio spazio da pagina 43 a pagina 48 prima di tutto definendola e poi presentandone le categorie. Ricordiamo qui la bella definizione di deissi, citando testualmente. Essa infatti è “collocazione e identificazione di persone, aspetti, eventi, processi e attività di cui si parla o a cui ci si riferisce, in relazione al contesto spazio-temporale creato e sorretto dall’atto dell’enunciazione e dalla partecipazione ad esso, tipicamente di un parlante e almeno di un interlocutore”. È naturale che i mezzi linguistici che realizzano deissi sono i dimostrativi, i pronomi personali, il tempo verbale e gli avverbi di tempo e di luogo. Presentando invece le categorie della deissi, Carla Bazzanella ci rammenta che c’è una deissi personale, una deissi temporale, una deissi spaziale, una deissi sociale e una deissi testuale.
Vorrei qui dire, tanto per concludere il paragrafo dedicato alla deissi, che le lingue naturali sono nate per l’interazione faccia a faccia e che la deissi è l’aspetto più chiaro ed evidente per ricordarcene. E qui dovrei aprire il discorso sul falso problema della dicotomia parlato/scritto, ma vorrei rimandarlo alla fine di questa mia fatica quando accennerò al concetto di “continuum”.
Vorrei, invece, soffermarmi brevemente ora su due stimolanti momenti del libro in cui ci si invita a riflettere sulla “Teoria degli atti linguistici” e sul “Principio di cooperazione”. La teoria degli atti linguistici del 1962 ci presenta un Austin tutto intento a contrapporre la nozione di “performativo” ovvero del parlare come agire, alla nozione di “constativo” ovvero della semplice asserzione. Ma lo stesso Austin poi mette pace in questo dualismo risolvendolo e superandolo “all’interno di una teoria generale dell’atto linguistico caratterizzato dalle dimensioni di felicità/infelicità, verità/falsità, dalla forza illocutoria, da un significato locutorio”.
Tornando un attimo sul concetto di forza illocutoria o “illocutionary force” e volendo provare a darne una piccola spiegazione, posso dire che un’enunciazione, oltre ad avere un significato, possiede anche una sua forza alla quale possono essere riferite, ad esempio categorie del tipo affermare, consigliare, convincere, ordinare, ecc.
Il “Principio di cooperazione” che regola la conversazione fu scoperto da Grice nel 1975 e in sostanza consiste nell’obbligo da parte dei parlanti a dare un contributo adeguato allo scopo dello scambio linguistico. Questo principio è articolato in quattro categorie, ognuna delle quali contiene delle massime. Vediamole:
a) Categoria della quantità con due massime così sintetizzabili:
1. Dà un contributo che contiene la quantità d’informazione richiesta;
2. non dare un contributo più informativo di quanto richiesto.
b) Categoria della qualità con queste massime:
1. Non dire ciò che ritieni falso;
2. non dire ciò di cui non hai prove.
c) Categoria di relazione
1.Sii pertinente.
d) Categoria di modo
1. Evita oscurità di espressione;
2. evita ambiguità;
3. sii conciso;
4. sii ordinato.
Chiaramente se le massime che regolano la conversazione sono violate, sorgono le cosiddette “implicature conversazionali” ovvero tutto ciò che si può cogliere oltre il significato letterale delle parole dette.
Sempre in riferimento all’organizzazione della conversazione di grande interesse è, a pagina 67, il capitolo “Turni”. Nel 1974 Sacks, Jefferson e Schegloff hanno, in un loro scritto, individuato un sistema detto a “gestione locale” che funziona in relazione al “punto di rilevanza transizionale” il quale altro non è se non “il luogo, identificato tramite indicatori linguistici (struttura sintattica, struttura intonativa, ecc.) in cui si può scambiare il turno senza infrangere la regola”. Per il cambio di turno vengono individuate tre regole:
1. Il parlante di turno seleziona chi parlerà dopo;
2. qualcuno si autoseleziona;
3. il parlante che ha il turno lo mantiene.
C’è poi una regola d’oro che semplicemente invita a non sovrapporsi troppo, parlando uno per volta. Un esempio tipico di struttura dei turni è dato dalle “coppie adiacenti”, tipo domanda-risposta, ringraziamento-minimizzazione, saluto-saluto, ecc.
Naturalmente, quando la conversazione è particolarmente lunga e partecipata è, secondo me, molto difficile attenersi proprio a tutte le regole. Ma non è poi così drammatico, anzi sembra che questo rispetto dei turni interessi più gli analisti che gli effettivi attori d’una conversazione. Un interlocutore che anticipa il suo intervento completando, ad esempio, l’enunciato del partner con un nome di città, il titolo d’un romanzo, il nome di un personaggio storico, non fa niente di scorretto, ma vuole mostrare solo partecipazione e competenza.
Potrei andare ancora avanti illustrando i pregi del libro di Carla Bazzanella, esemplificandoli adeguatamente, ma mi rendo conto che, se mi lascio prendere la mano, poi non faccio più una recensione, ma un trattato. E ciò non era, in partenza, nelle mie intenzioni. Chiudo, perciò, questo mio breve lavoro presentando brevemente il concetto di “continuum”.
Rifacendosi a Lehmann, la Bazzanella a pagina 33 così scrive: “Un dato fenomeno linguistico non è correlabile, tout court, allo scritto o al parlato, e, soprattutto, non è identificabile in base a una sola funzione: la stessa contrapposizione ad esempio tra frasi coordinate (tradizionalmente attribuite all’orale) e frasi subordinate (considerate un tratto tipico dello scritto) non solo non corrisponde a dati risultanti da testi specifici, ma è stata criticata nella sua rigidità dicotomica e recentemente riportata ad un continuum“. Un esempio di assenza di rigida dicotomia tra scritto e parlato viene dall’uso del passivo. Un tempo si riteneva questa forma verbale come tipico del campo della lingua scritta. Ma l’analisi di corpora reali del parlato, e non solo del parlato formale, ha smentito questa specie di binomio dogmatico, cioè verbo passivo = lingua scritta, scoprendo un largo uso del passivo anche nel parlato. Concludendo, possiamo dire che tra lo scritto e il parlato c’è una vasta area di sovrapposizione e le due varietà si intravedono appena sfumate solo se si guarda agli estremi opposti di una continuità. Ma sono estremi quasi solo teorici, secondo me, che, nella prassi comunicativa dei due generi, non hanno luogo allo stato puro. Non c’è, insomma, uno scritto solo scritto, né un orale solo orale.
Credo che gli spunti fin qui offerti siano più che sufficienti per stimolare la vostra curiosità. Perciò vi lascio, cari lettori e lettrici, con i migliori auguri di un felice Anno Nuovo e dandovi i soliti ragguagli sul libro.
Il testo
Bazzanella, Carla, 1994 Le facce del parlare, Firenze, La Nuova Italia Editrice
Pagg. 269, £ 28.000