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Interlingua – parte prima

Quello che segue è qualcosa di diverso rispetto ai nostri soliti articoli. È una relazione su un concetto teorico. È un concetto, però, di primaria importanza in quanto soggiace, in un modo o nell’altro, a qualsiasi prassi nell’insegnamento delle lingue. La bibliografia cui si fa riferimento è in lingua inglese, ma tutti i brani citati sono tradotti in italiano.

Prima dell’inizio

Per capire bene il concetto di interlingua dobbiamo situarlo in una prospettiva storica. Negli anni ’50 e nei primi anni ’60 il comportamentismo come spiegazione psicologica del modo in cui le lingue vengono imparate sembrava avere sgomberato il campo da qualsiasi altro punto di vista. L’apprendimento linguistico era considerato dalla maggior parte degli studiosi come l’apprendimento di nuove abitudini. Gli elementi linguistici, ed in modo particolare, le strutture frasali, erano visti come operanti: erano, cioè, elementi comportamentali di cui l’organismo (la persona) si serve per operare sul suo ambiente. Questi operanti venivano condizionati, in passi minimali, tramite il rafforzamento selettivo. Nel caso del bambino, la “madre” diventava sempre più esigente riguardo alla quantità di lingua richiesta (oppure al grado di correttezza richiesto) prima di soddisfare le esigenze del bambino; e, nel caso dello studente di una seconda lingua, l’insegnante aumentava progressivamente la complessità del comportamento linguistico che lo studente doveva manifestare per guadagnarsi l’approvazione.

In questo tipo di clima era del tutto naturale che l’interesse primario venisse focalizzato sul problema della manifestazione da parte dello studente, di abitudini sbagliate: gli errori. Certi elementi comportamentali sembravano più resistenti di altri ad un rafforzamento positivo. Qualche cosa interferiva con il procedimento e, data la teoria, l’interferenza non poteva che essere costituita da: comportamenti precedentemente rafforzati, cioè la prima lingua. Era, quindi, logico cercare di analizzare le differenze fra la prima lingua (L1) e la seconda lingua (L2) per individuare e predire quali nuovi comportamenti avrebbero richiesto un più marcato rafforzamento per formare l’abitudine corretta.

Questo settore si chiamava Analisi Contrastiva.

L’inizio

Un primo attacco a questo tipo di logica giunse nel 1967 da parte di S. Pit Corder:

Questo contributo proveniente dal linguista non sempre é stato accolto con interesse dagli insegnanti. Questo perché l’esperienza pratica di questi ultimi ha generalmente mostrato loro dove risiedono le difficoltà ed essi non hanno avuto l’impressione che il contributo del linguista fornisse loro alcuna informazione particolarmente nuova. Gli insegnanti hanno notato, per esempio, che molti degli errori a loro familiari non erano in alcun modo previsti dal linguista. (1967)

Corder intendeva trovare una spiegazione alternativa agli errori degli studenti sulla base dell’ipotesi dell’acquisizione linguistica che Chomsky aveva proposto in opposizione al modello comportamentista.

L’ipotesi afferma che il bambino nasce con una predisposizione innata ad acquisire il linguaggio; che egli dev’essere esposto al linguaggio perché il processo di acquisizione abbia inizio; che egli possiede un meccanismo interno di natura sconosciuta il quale lo rende capace di costruirsi una grammatica di una certa lingua a partire dai dati limitati a sua disposizione. (op. cit.)

Corder riteneva l’ipotesi egualmente valida per i discenti di una seconda lingua, ed è famoso per aver detto:

Se esiste in lui la motivazione, è inevitabile che un essere umano impari una seconda lingua se viene esposto ai dati linguistici. (op. cit.)

Gli errori, quindi, potevano essere spiegati solo in termini delle strategie di apprendimento dello studente. Come ipotesi provvisoria si poteva supporre che queste strategie, almeno in parte, fossero le stessi di chi acquisisce una prima lingua.

Corder sviluppa poi l’idea del programma interno dello studente, il quale determina la sequenza di acquisizione degli elementi linguistici. Ciò che l’insegnante percepisce come errori sono semplicemente esempi di elementi del programma dell’insegnante nell’ordine sbagliato, cioè non in accordo con il programma interno dello studente. Studiando gli sbagli sistematici (gli “errori”) a un qualunque stadio del progresso del discente possiamo ricostruire la sua conoscenza della lingua a quel punto, vale a dire la sua competenza di transizione.

Gli errori di un discente, quindi, evidenziano il sistema della lingua che egli usa (cioè ha imparato) ad un determinato punto del corso (e va ripetuto che è comunque un sistema che egli usa, anche se non si tratta ancora del sistema giusto). (op. cit.)

Corder conclude lanciando un appello per lo studio sistematico degli errori al fine di scoprire di più sul programma interno dello studente, in modo che noi possiamo adattarci ai bisogni del discente anziché imporre a lui i nostri preconcetti.

Nasce un nuovo concetto

Il termine “interlingua” fu coniato da Selinker un paio d’anni più tardi. L’attenzione di Selinker è richiamata dal fatto che

quasi tutta la vasta letteratura, prodotta sia da linguisti che da psicologi, che cerca di mettere in relazione la psicolinguistica con l’apprendimento di una seconda lingua, è caratterizzata da una confusione tra “imparare” una seconda lingua e “insegnare” una seconda lingua. (1972, p. 210)

Selinker voleva gettare le basi per una seria teoria psicolinguistica dell’apprendimento di una seconda lingua. Egli fa rilevare che chi impara una seconda lingua con successo (una bassa percentuale) raggiunge la competenza del parlante nativo senza che gli siano stati esplicitamente insegnati i fatti linguistici di cui è costituita tale competenza. Questo è facile da dimostrare in quanto i linguisti “scoprono quotidianamente fatti nuovi e fondamentali sul linguaggio” (op. cit.). Rimane da scoprire come quelle persone lo fanno, o meglio perché altre non vi riescono.

Dobbiamo scoprire la struttura psicologica latente nel cervello che viene attivata quando si tenta di imparare una seconda lingua. Per fare ciò dobbiamo analizzare i dati pertinenti, e cioè gli “eventi comportamentali nella seconda lingua” prodotti in una “situazione di esecuzione significativa”, (op. cit., 210).

Quando il discente cerca di produrre un insieme di enunciati nella lingua bersaglio, essi risultano diversi dall’ipotetico insieme corrispondente che sarebbe stato prodotto da un parlante nativo della lingua bersaglio stessa. Questa differenza significa che è in gioco un sistema linguistico diverso. Selinker lo chiama “interlingua” (Interlanguage).

La ricerca sui dati pertinenti dovrebbe rendere possibile la previsione della forma degli enunciati nelle interlingue. Ci sono 5 processi centrali nell’apprendimento di una seconda lingua di cui occorre tener conto per fare queste previsioni:

1) Trasferimento dalla L1;
2) trasferimento dell’addestramento;
3) strategie dell’apprendimento della L2;
4) strategie di comunicazione nella L2;
5) ipergeneralizzazione di materiale linguistico della lingua bersaglio.

I miei dubbi

Sebbene sia stato Selinker ad inventare il termine “interlingua”, la particolare accezione in cui egli lo usa a me sembra molto restrittiva. I motivi per cui affermo ciò sono i seguenti:

1) Sebbene egli parli di “processi”, la sua interlingua è in realtà, statica e finale. È il prodotto finale dei discenti che non hanno raggiunto l’uniformità con la lingua bersaglio. Lo vediamo quando egli afferma:

L’importanza dell’isolare questo 5% [quelli che riescono a raggiungere l’uniformità] è l’ipotesi che queste persone non attraversino una interlingua. (op. cit., p. 223).

Degli esperimenti… richiederebbero una conoscenza del probabile punto d’arrivo del discente. (op. cit., p. 224).

O ancora, quando Selinker dice che la maggior parte dei discenti non producono enunciati completamente uniformi a parlanti della lingua bersaglio (op. cit., p. 214) lasciando capire che quelli che riescono arrivano a produrre linciati di tal genere. Ciò che Selinker scopre può servire pertanto solo ad insegnanti di studenti molto avanzati.

2) Egli focalizza l’attenzione sulla “fossilizzazione”termine dalle connotazioni volutamente negative. Il fatto che parla anche di strategie, con connotazioni ovviamente positive, può essere spiegato con il fatto che egli ha preso in prestito da altri questo termine. Il termine “ipergeneralizzazione” è più coerente con il suo interesse per il fallimento, perché per descrivere un processo dinamico che aiuta lo studente ad apprendere verrebbe invece utilizzato il termine “generalizzazione”.

Egli parla spesso, inoltre, della ricomparsa nello studente di elementi che si ritenevano ormai sradicati. S’interessa, del pari, allo scivolare indietro, cioè al fenomeno di studenti che tornano alla norma interlinguistica.

3) Questo mi conduce al terzo problema con il modello di Selinker. Le sue tecniche di ricerca si basano sul porre allo studente domande alle quali lo studente deve rispondere con frasi complete. Questo è ciò che Selinker intende con situazione di esecuzione significativa. C’è qui, però, un livello estremamente basso di significatività, se confrontiamo questo con una vicenda comunicativa normale in cui lo studente elabora significati a tantissimi livelli (interpersonali, cognitivi, affettivi, del discorso, ecc.). Se Selinker non utilizza quest’ultima come dato pertinente sarà costretto a persistere nella sua preoccupazione riguardo allo scivolare indietro.

Molte di queste [strutture fossilizzabili apparentemente sradicate] ricompaiono nell’esecuzione interlinguistica quando l’attenzione del discente si focalizza su argomenti intellettuali nuovi e difficili, oppure quando egli è in uno stato di angoscia o altra eccitazione, e, stranamente, talvolta quando è in uno stato di estremo rilassamento. (op. cit., p. 215) oppure, potremmo aggiungere, quando affronta le normali difficoltà del partecipare ad una conversazione.

4) Infine Selinker ritiene che imparare una seconda lingua non implichi l’imparare dei nuovi significati. Egli dice che i dati dovrebbero essere raccolti in una situazione in cui un adulto tenta di esprimere dei significati, che può già avere, in una lingua che sta imparando. (op. cit., p. 210)

Un po’ di luce

Alcuni di questi problemi, però, sono stati meglio affrontati da altri studiosi dell’interlingua e di altri concetti ad essa collegati. Nemser, per esempio, adopera il termine “sistemi approssimativi” e dice specificamente che essi “variano di carattere a seconda del livello di competenza” (1971). Egli dice che

in una data situazione di contatto i sistemi approssimativi di discenti allo stesso stadio di competenza in gran parte coincidono; le principali variazioni sono ascrivibili a delle differenze tra esperienze di apprendimento. (op. cit.)

Pure riconoscendo che altri utenti approssimativi usano sistemi devianti stabili, il suo interesse risiede nei sistemi del discente, i quali “sono per definizione transitori” (op. cit.) (corsivo mio).

Ciò nonostante anch’egli, mentre da una parte denuncia la teoria dell’interferenza come “una specie di visione a singhiozzo del contatto linguistico”, dall’altra è primariamente preoccupato dagli aspetti negativi dei sistemi approssimativi. “Gli errori… nella percezione e nella produzione di una data lingua bersaglio” vengono realizzati in configurazioni regolari dai discenti che hanno la stessa linguamadre. Inoltre, io credo che la sua visione dell’insegnamento è piuttosto negativa, in quanto se l’insegnamento deve riuscire, comporta

l’impedire oppure il rimandare il più a lungo possibile la formazione di sistemi e sottosistemi intermedi permanenti (strutture fonologiche e grammaticali devianti). (op. cit.)

Egli considera lo studente, tuttavia, come un’entità più attiva di quanto non faccia Selinker, come si può vedere dal modo in cui descrive, nella penultima citazione, la creazione degli errori da parte degli studenti.

Una ventata d’aria fresca

Per una visione molto più positiva del concetto di “interlingua” dobbiamo consultare l’articolo di Corder del 1971 in cui viene sviluppata l’idea di dialetto idiosincratico” o “transizionaleEgli afferma:

Il motivo principale per cui contesto i termini errore, deviante o malformato è che tutti questi termini, in misura maggiore o minore, pregiudicano la spiegazione dell’idiosincrasi. Ora, uno dei motivi principali per cui si studia la lingua del discente è appunto scoprire perché essa è quella che è, cioè spiegarla ed eventualmente dire qualcosa sul processo di apprendimento. Se, quindi, etichettiamo come devianti o erronee le sue frasi, abbiamo con ciò introdotto una spiegazione prima ancora di aver operato una descrizione. (op. cit.)

Poi, e questo è molto importante, egli sostiene che il dialetto transitorio del discente non può essere considerato agrammaticale perché questo è un giudizio emesso nei termini del dialetto bersaglio. Il dialetto del discente va studiato nei suoi propri termini, e nei suoi propri termini gli enunciati sono grammaticali.

Corder insiste sulla necessità di uno studio longitudinale dei discenti di una seconda lingua che non vengono condotti attraverso programmi fatti da insegnanti. Sarà solo se prendiamo come dati pertinenti gli enunciati di studenti che seguono liberamente i propri programmi che saremo in grado di rilevare dei fatti utili.

Ciò che senz’altro produce le implicazioni più importanti per l’insegnamento è il desiderio di Corder di dimostrare che “l’apprendimento linguistico è un qualche tipo di attività, di tipo cognitivo, di elaborazione di dati e di formazione di ipotesi”.

Da un punto di vista leggermente diverso, Hammarberg rafforza questa posizione. Egli rileva la contraddizione presente nell’uso dell’espressione “analisi degli errori”la quale era diventata, tutto sommato, l’espressione associata a “interlingua”, ecc., ed era stata inventata in opposizione alla “analisi contrastiva” dei teorici della formazione di abitudini. Con l’analisi degli errori ci s’interessa solo agli errori. “Il trattamento riuscito della lingua bersaglio non viene preso in considerazione”. (1974, p. 186) Egli afferma:

Secondo me questo limite – l’analizzare solo gli errori trascurando la descrizione accurata dei non-errori – è arbitrario e inadeguato agli scopi comunemente attribuiti all’analisi degli errori. (Ibid.)

Se dobbiamo specificare il grado di padronanza della lingua che ha attualmente lo studente, troveremo una configurazione regolare complessa in cui gli “errori, o i fatti da essi evidenziati, non possono essere visti come elementi isolati e autosufficienti” (op. cit., p. 187). Il suo orientamento è di tipo pratico, ed egli s’interessa alle decisioni prese riguardo alla “terapia”. Egli fornisce molti esempi di stranieri che studiano lo svedese in cui è impossibile individuare correttamente i problemi degli studenti se non si considerano, inoltre, gli errori che possono sembrare a prima vista semplici distrazioni momentanee.

(segue)

Bibliografia

Corder, S.P. 1967 “The Significance of Learners’ Errors” in IRAL, n° 5, p. 161-170.
Corder, S.P. 1971 “Idiosyncratic Dialects and Error Analysis” in IRAL, n° 9, p. 147-160.
Corder, S.P. 1978 “Language-learner Language” in Richards, J.C. 1978, p. 71 -93.
Hammarberg, B. 1974 “The Insufficiency of Error Analisys” in IRAL, n° 12, p. 185-192.
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Krashen, S. 1981 Second Language Acquisition and Second Language Learning, Pergamon Press.
Nemser, W. 1971 “Approximative Systems of Foreign Language Learners” in IRAL, n° 9, p. 115- 123.
Richards, J.C. (a cura di) 1978 Understanding Second and Foreign Language Learning: Issues and
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Selinker, L. 1972 “Interlanguage”, IRAL, n° 10, p. 209-231.
Selinker, L., Lamendella, J.T. 1979 “The Role of Extrinsic Feedback in Interlanguage Fossilization. A Discussion of ‘Rule Fossilization: a Tentative Model'” in Language Learning, n°29, p. 363-375.
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Vigil, N.A., Oller, J.W. 1976 “Rule Fossilization: A Tentative Model”, Language Learning, n° 26, p. 281-295.
Wexler, K., Culicover, P.W. 1980 Formal Principles of Language Acquisition.