Che significa insegnare una lingua?
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Lo studente: dobbiamo chiederci chi sia e come definirlo
Abbiamo di fronte una persona dotata di una propria storia, di esperienze e conquiste personali, dotata di una logica, di un determinato carattere, di una propria sensibilità e intuizione, di una cultura, di una dignità. Può trovarsi di fronte a noi per diversi motivi, può essere più o meno motivato ed avere un’attenzione e un rendimento altalenante. È una persona complessa che possiamo anche non riuscire a comprendere a pieno ma il rapporto con lui deve essere cercato. La priorità dell’insegnante deve essere quella di trovare un modo di comunicare con lo studente, e non parlo solo linguisticamente, per non fargli pesare il fatto che si trovi davanti ad un ostacolo, all’incapacità di avere il pieno controllo della lingua che sta apprendendo. Proprio perché all’interno del rapporto insegnante-studente è il secondo a sentire i limiti della comunicazione, sarà l’insegnante a doverlo rassicurare ponendolo al centro dei suoi interessi e dandogli la priorità come individuo pensante e autonomo. Lo studente deve essere in primo luogo rispettato e si deve sentire degno di fiducia per raggiungere la propria autonomia e acquisire conoscenze in serenità.
Instaurare un tale tipo di rapporto non è sicuramente semplice, e la faccenda si complica se ci troviamo in una situazione in cui tale dinamica non solo dovrebbe realizzarsi con uno studente ma con la totalità di una classe.
Inevitabilmente la dinamica di gruppo richiede più attenzione. Di cosa si parla quando si fa riferimento a dinamiche di gruppo? Sicuramente più individui insieme possono mantenere atteggiamenti propri o lasciarsi influenzare dalle personalità che ritengono più forti… Nel campo dell’apprendimento di una lingua sicuramente riconosceranno qualcuno come “il più bravo”, il modello da seguire: questo potrebbe essere positivo, oppure farà nascere tra loro antagonismo.
Probabilmente la competizione non giova all’apprendimento, e visto che inevitabilmente un’insegnante potrà trovarsi a fare lezione ad una classe, dovrebbe trovare il modo di volgere la situazione a suo favore, o meglio, a favore dell’apprendimento e a vantaggio di tutti gli studenti. Se nel contesto scolastico la competizione può favorire il lavoro individuale perché induce stress, forse una tale dinamica non è adatta all’insegnamento di una lingua perché porta gli studenti a focalizzarsi su “cosa devono sapere” per essere migliori degli altri e non sull’apprendimento di una lingua viva.
Sarà proprio per questo motivo che andrà allora preso in considerazione il rapporto studente-studente non come un aspetto negativo ma come possibilità di confronto positivo. È difficile concepire il rapporto tra studenti come rapporto tra pari perché tra loro ci saranno inevitabilmente delle differenze e spesso sono loro i primi a riconoscerle. Come evitare che nasca competizione? Forse inducendoli ad aiutarsi l’un l’altro, lungo un cammino che stanno percorrendo insieme, ma resta da chiedersi come fare a porre l’accento sul viaggio che conduce all’obiettivo e non sull’obiettivo stesso…
Torniamo al rapporto insegnante-discente e chiediamoci quale sia il vero ruolo di colui che è “l’esperto della materia trattata”. Si può davvero parlare di insegnante? Lo studente impara “grazie a lui” o “attraverso di lui”? Se pensiamo all’insegnante come strumento, allora possiamo giungere al risultato che non è l’insegnante a indurre gli studenti verso l’apprendimento, ma insegnante e studenti camminano insieme.
Gli studenti si rivolgono agli insegnanti per essere guidati, ma se questo fosse ciò che credono di volere e non quello di cui hanno bisogno? Se l’obiettivo dell’insegnamento della lingua è che lo studente acquisisca una autonomia tale da vivere della e nella lingua, allora forse a questa autonomia si deve abituare “durante” il percorso di apprendimento.
La verità da tener presente però è che l’insegnante che prepara la lezione svolge inevitabilmente un ruolo di guida e di coordinatore, ed è inevitabile. Bisogna allora chiedersi come fare dell’insegnante una “guida invisibile” se sono gli studenti che comprendono, si pongono domande e assimilano strumenti comunicativi e non noi.
Se si parla di autonomia e centralità dello studente emergono inoltre altre problematiche relative all’autorità dell’insegnante e alla libertà dello studente: dove finisce l’una e comincia l’altra?
Inoltre, è meglio un insegnante “professore” o un l’insegnante “genitore”?
Persino a 26 anni, se non si abita ancora da soli, può capitare che un genitore dimostri il proprio affetto al figlio lasciandogli il pranzo pronto e magari etichettando gli alimenti conservati in frigo in singoli contenitori. Qual è la reazione del figlio? Istintivamente può non vedere e apprezzare la premura del genitore ma sentirsi anzi preso in giro, sottovalutato. Quali sono le conseguenze? La sua reazione sarà non di ringraziamento ma di conflitto, a meno che non arrivi ad accettare l’aiuto costante della cura altrui con il rischio di una conseguente perdita di autonomia.
E se quello del genitore troppo premuroso fosse il comportamento dell’insegnante? Lo studente potrebbe sentire inutile la sua figura perché riterrebbe di non averne bisogno oppure non si sentirebbe stimolato perché sa di essere “più avanti” rispetto all’insegnante, probabilmente neppure si sentirebbe gratificato e il risultato sarebbe lo stesso: a cosa mi serve una persona che mi insegni cose che già so?
L’insegnante “professore”, di contro, è una figura autoritaria, intimidatoria,…
Se parlassimo, invece, di “insegnante “educatore”? Forse dovrebbe essere un educatore invisibile ma bisognerebbe chiedersi quanto sia necessario “educare” nell’ambito dell’insegnamento di una lingua. Probabilmente questa finalità metterebbe in discussione l’identità dello studente come persona e quanto lo rispetteremmo se avessimo tale atteggiamento?
Assumere il ruolo dell’insegnante “genitore” e dell’insegnante “educatore” potrebbe essere una tendenza conseguente ad un attaccamento affettivo nei confronti dello studente, ma forse il vero legame affettivo dovrebbe manifestarsi, da parte dell’insegnante, nel suo essere strumento al servizio. In sintesi: dovrebbe manifestarsi nell’avere pieno rispetto dello studente.
Se allora il rapporto affettivo deve essere veicolato al fine del rispetto e dell’ascolto dei bisogni altrui, è legittimo pensare ad un rapporto “extrascolastico” insegnante-studenti magari con itinerari e uscite di gruppo? Forse potrebbe aiutare a ridimensionare la figura dell’insegnante “professore” ma bisogna evitare che ciò conduca ad un rapporto di amicizia che privilegi uno studente rispetto all’altro, altrimenti si perderebbe il rapporto classe-insegnante e il cammino “insieme” diverrebbe cammino “insegnante-alcuni studenti”.
Qual è allora il ruolo dell’insegnante?
Un attore che si fa “strumento di apprendimento” e “guida invisibile”, attento a non trasmettere se stesso ma il suo ruolo. Cosa di ciò che potrebbe trasmettere l’insegnante agli studenti compromette il percorso di apprendimento? E come deve comportarsi per non essere né professore né genitore o educatore?
Forse dovrebbe non focalizzarsi solo su se stesso, altrimenti proverebbe ansia da prestazione; dovrebbe invece fare attenzione ai bisogni degli studenti. Deve essere capace di non fare il “professore”, ammettere di poter sbagliare e di non essere portatore della verità assoluta, cosa alla quale potrebbe facilmente essere condotto sia perché è padrone della lingua, sia perché ha un ruolo di “superiore”.
Il rispetto nei confronti dello studente consiste nell’ascolto e nell’attenzione alle sue esigenze.
L’insegnante dovrebbe imparare a penetrare i procedimenti mentali altrui e guidarli conoscendoli, attraverso un approccio logico lineare. Se lo studente è al centro del processo di apprendimento, la sensibilità dell’insegnante alle sue necessità deve essere prioritario. Lo studente è portatore di logica e di intelligenza e non deve essere sottovalutato. L’insegnante dovrebbe allora trovare la forza di mettersi in gioco, deve possedere sensibilità, intuizione e flessibilità rispetto alle esigenze degli studenti, tanto più se insegna una lingua.
Altro aspetto su cui riflettere è cosa “l’insegnante-strumento” o “guida invisibile” debba pretendere e aspettarsi dagli studenti. Probabilmente la sua priorità deve esse quella di non chiedere risultati per conferma e appagamento personale. Cosa dovrebbe aspettarsi, allora? L’esercizio svolto correttamente senza errori o desiderare che lo studente assimili le nozioni?
Se la centralità viene concessa all’apprendimento bisogna allora chiedersi in che modo il percorso di apprendimento si stia avvicinando agli obiettivi prefissi e se la valutazione richieda l’intervento dell’insegnante. È sufficiente una autovalutazione da parte degli studenti? Gli studenti si valutano in rapporto ai loro “pari”? È necessario un momento di verifica “standard” o basta il feedback nel rapporto insegnante-studente e studente-studente durante la lezione?
Probabilmente l’insegnante che con la sua sensibilità si fa osservatore, riesce a valutare i progressi e le difficoltà dei suoi studenti. Ma fino a che punto deve comunicarlo?
Forse uno studente che ricerca soluzioni e risposte ai suoi dubbi, ed è abituato alla sua autonomia, non vuole la gratificazione perché riesce da solo ad essere consapevole dei suoi successi e dei suoi limiti. Se faccio ipotesi e sperimento soluzioni alternative, non voglio sentirmi dire “brava!” o “si, così hai fatto bene!” perché se sono consapevole della mia logica, so che comunque sto ragionando correttamente. Inoltre, l’insegnante che fa complimenti si fa professore, portatore dell’unica verità e questo potrebbe essere un elemento di disturbo.
Non sarà forse allora lo stesso studente a chiedere la correzione degli esercizi? Se ragioniamo in questo modo non avrebbe neppure senso chiedersi se la correzione degli errori sia una censura o un aiuto. Se uno studente si abitua ad avere una sua autonomia e l’apprendimento diventa un processo di scoperta, vorrà arrivare da solo alle sue conquiste e forse l’unica cosa di cui avrà bisogno e chiederà all’insegnante saranno consigli su dove focalizzare l’attenzione per migliorare. Vorrà sicuramente chiarimenti, farà domande, ma se si sarà davvero abituato ad avere la sua autonomia vivrà serenamente il suo percorso e sarà lui a pretendere di farlo da solo. L’incentivo allora non sarà il complimento, che anzi rischierebbe di portare all’effetto contrario. Lo stimolo all’apprendimento sarà da ricercare nella dinamica della lezione.
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Ci siamo chiesti cosa significhi insegnare una lingua, ma a livello pratico come si realizza l’insegnamento durante la lezione? È importante che il momento di insegnamento-apprendimento venga strutturato nei minimi dettagli, bisogna quindi tener presente molteplici aspetti.
- lo spazio. Perché non fare dello spazio uno strumento? Se la lingua è tale perché vive in un contesto, anche l’ambiente dovrebbe essere curato. Innanzitutto se vogliamo che l’insegnante non sia un “professore”, non dovrebbe essere seduto dietro una cattedra pronto a interrogare, se non è “genitore” né “educatore” non dovrebbe neppure però sedersi accanto agli studenti o stare in piedi dietro di loro pronto a incitarli con una pacca sulla spalla. L’insegnante dovrebbe essere visibile a tutti e muoversi all’interno dello spazio classe a seconda delle esigenze che l’attività richiede. Se è uno strumento, dunque, è importante che abbia la sua visibilità. Se parliamo di autonomia dello studente, l’insegnante non dovrebbe neppure essere il protagonista della lezione. Allora dobbiamo chiederci quanto incida la sua posizione e cosa comunichi agli studenti il suo posto e il suo atteggiamento, e le possibilità sono molteplici: seduto o in piedi, al centro della classe o ad un lato, spostato verso la parete o in posizione avanzata. Anche gli studenti dovrebbero essere collocati in una posizione che li renda equidistanti dall’insegnante. Protagonisti dell’apprendimento, non dovrebbero avere la possibilità di “nascondersi” gli uni dietro gli altri per non essere “interrogati”, e ciò ha a che fare con l’atmosfera dell’ambiente, la loro autonomia e il loro scambio reciproco.
- i tempi. Per valutare le varie possibili attività da preparare per la lezione non si può prescindere dal tempo a disposizione. Bisogna valutare inoltre quante attività prevedere e la loro durata, darsi dei limiti per avere la libertà di modificare quanto si è programmato in base alle esigenze del momento, tenendo sempre in considerazione i propri obiettivi. Ad esempio può capitare che gli studenti impieghino più tempo di quanto ci saremmo aspettati anche solo per sottolineare in un testo alcune categorie grammaticali. Fino a che punto dobbiamo “aspettarli” e rispettare le loro esigenze e quando invece dobbiamo intervenire per passare alla “tappa successiva” o anche per cambiare attività? Sicuramente le nostre scelte dipenderanno da diversi fattori ma se al centro abbiamo posto l’apprendimento dello studente escluderemo sicuramente la priorità di finire tutta l’attività in un tempo stabilito. Inoltre dobbiamo sempre avere chiaro il lavoro nella sua totalità e valutare se quel tempo che vorremmo lasciare o togliere agli studenti porti ad una ridondanza o a una perdita, e se questa “perdita” possa essere recuperata in seguito (in riferimento alla lettura analitica: il “recupero” potrebbe essere incluso nel confronto tra gli studenti)
- il ritmo. Valutare i tempi vuol dire anche tener presente l’andamento della lezione durante la quale è essenziale mantenere un ritmo il più possibile concitato. Per concitato non intendo però riferirmi ad un ritmo che induca ad andare di fretta e trasmetta conseguentemente stress. Fare attenzione al ritmo vuol dire lasciare che gli studenti abbiano il tempo necessario per l’apprendimento evitando tempi morti che inducono al “sonno mentale”.
- lo stimolo continuo. È sicuramente importante che durante la lezione lo studente venga stimolato da più attività, ma dobbiamo anche chiederci come queste attività siano legate tra loro in modo da evitare una frammentarietà che porterebbe lo studente a sentirsi spaesato. Dobbiamo dunque valutare come, se e quanto “variare” nel corso di una stessa lezione. Il termine “variare” inoltre porta con sé l’interrogativo su cosa variare, e le possibilità sono molteplici: variare attività su uno stesso argomento, attuare una stessa attività variando argomento, dedicare ogni attività ad un argomento diverso…
- la ripetizione. Se consideriamo importante che lo studente sia continuamente stimolato e facciamo riferimento alla variazione dobbiamo chiederci se questa variazione abbia a che fare con “nuova materia” o “materia già trattata” e valutare l’importanza della ripetizione nel processo di apprendimento. Dobbiamo tener presente, inoltre, che la ripetizione stimola la memoria e contribuisce al fissaggio di ciò che viene acquisito. Ma chiediamoci anche fino a che punto la ripetizione debba o possa essere variata per non indurre lo studente a sentire inutile la ripetizione di quanto ha già acquisito.
- il livello di difficoltà delle attività proposte. Prendendo in considerazione la ripetizione e quanto in essa ci debba esse di “già detto” o di “nuovo”, bisogna anche valutare quanto la percezione del nuovo incida sull’apprendimento. Comunemente può ritenersi condivisibile l’opinione secondo cui “più alto è l’obiettivo, più grande è il risultato”. Ma fino a che punto un obiettivo troppo lontano da quanto riteniamo di essere in grado di raggiungere influisce negativamente sulle nostre prestazioni e invece di stimolarci ci conduce verso uno stato di inadeguatezza e frustrazione? È anche vero che più alto e difficile viene considerato un obiettivo, più il fatto di raggiungerlo porta alla consapevolezza della conquista, alla maggiore fiducia in se stessi … Dobbiamo riflettere, però, sul fatto che l’apprendimento dello studente è un percorso lento e che anche lui sa che l’obiettivo massimo è la piena padronanza della lingua, vista già in partenza come conquista utopica. Il livello di difficoltà cui devono essere sottoposti gli studenti, allora, deve essere tale da produrre uno stimolo. Gli studenti dovrebbero abbandonarsi alla scoperta della conoscenza senza paura e l’insegnante deve porre tutta la sua attenzione a non correre il rischio che gli studenti si sentano frustrati in seguito ad una proposta troppo lontana dalle loro possibilità.
- il “clima emotivo”. Per non sentire la paura di provare perché troppo preoccupato a non sbagliare, lo studente dovrebbe sentirsi a suo agio, sapere che qualsiasi cosa farà la sua dignità sarà salva e che non verrà giudicato come incapace. Dovrà sentire che se non prova e sperimenta scelte personali, degne del rispetto dell’insegnante e degli altri studenti, non riuscirà ad essere protagonista dell’apprendimento. Posto dunque che l’atmosfera possa incidere positivamente o negativamente sull’apprendimento, dobbiamo chiederci come creare un”atmosfera adatta in cui lo studente provi piacere, solo così potrà sentirsi davvero stimolato e desideroso di apprendere. Sicuramente un”atmosfera in cui lo studente non abbia paura di mettersi in gioco nasce dalla valutazione dell’insegnante come strumento e non come giudice. E se l’insegnante trovasse alcune occasioni per mettersi in ridicolo e fare il clown, quanto gli verrebbe meno la stima e il rispetto da parte degli studenti? Quanto potrebbe gestire poi il lavoro “serio”? Dobbiamo dunque chiederci con quali modalità possa l’insegnante essere percepito come “strumento” senza che ne derivi una perdita di serietà che comprometterebbe la dedizione all’apprendimento da parte degli studenti. Quanto poi su questa perdita di serietà possono incidere attività come i giochi linguistici? Più che porci tali domande probabilmente dovremmo anche tenere in considerazione il fatto che ciascun insegnante è una persona con una sua storia, un suo carattere e un suo modo di rapportarsi al mondo, insomma, ognuno trova la sua strada pronto a mettersi in gioco per livellare la propria esuberanza o freddezza, consapevole che la ragion d”essere dell’attività di insegnamento è sempre lo studente.
- il linguaggio dell’insegnante. L’insegnante, nella sua interazione con lo studente, si serve di più linguaggi. Il più evidente è quello verbale. Dobbiamo interrogarci e valutare quanto il parlato del docente debba essere aderente al parlato normale e quanta attenzione sia da prestare al livello di comprensione dello studente. Probabilmente è giusto adeguare il nostro linguaggio di nativi ad un interlocutore che non si serve degli stessi strumenti e competenze, ma bisognerebbe fare attenzione a non rendere manifesto l’adeguamento del linguaggio allo studente che si sentirebbe sottovalutato, trattato come un bambino al quale si raccontano le favole, ne deriverebbe un senso di frustrazione e la percezione dell’inutilità dell’insegnante (in riferimento allo stimolo che può dare la difficoltà). Cos”altro indurrebbe uno studente a sentire inutile la presenza dell’insegnante e a non rivolgersi più a lui? Probabilmente un insegnante prevaricatore, un professore attento a dimostrare la sua competenza. Il rischio che ciò accada si verifica quando lo studente pone domande. Cosa chiederebbe uno studente autonomo e abituato trovare soluzioni da solo? Forse cercherà brevi chiarimenti, vorrà solamente degli indizi. Se l’insegnante, invece di dare indizi, inizia una “lezione nella lezione” ci sono due possibilità: che lo studente perda di vista il suo obiettivo concreto e/o che non comprenda a pieno ciò che l’insegnante vuole comunicargli. L’esito sarebbe comunque una perdita di interesse, così l’insegnante che si sforza di “insegnare” ottiene il contrario dell’apprendimento. Appare evidente allora quanto sia importante e necessaria la sintesi, e non solo nell’ambito delle risposte che forniamo agli studenti ma anche delle spiegazioni degli argomenti linguistici e delle attività da svolgere. Interviene così l’esigenza del linguaggio non verbale. Forse dovremmo trovare un equilibrio tra i due linguaggi, il fine è pur sempre l’apprendimento di una “lingua viva in situazione”. L’insegnante, dunque, non si serve unicamente del linguaggio verbale, ma anche di quello del corpo e in merito a quest’ultimo spunti di riflessione possono scaturire anche dal suo modo di prendere le distanze o avvicinarsi agli studenti, dall’uso delle espressioni del viso, dai gesti, persino dall’abbigliamento…
- la lavagna. Abbiamo parlato dei mezzi di cui possiamo usufruire per insegnare una lingua, e nell’ambito della lezione e dello spazio-classe dobbiamo aggiungere la lavagna. Come per gli altri strumenti, anche in questo caso dobbiamo valutare quanto e quando servircene, e se il suo uso guidi e stimoli davvero l’autonomia dell’apprendimento. Dobbiamo inoltre prendere in considerazione non solo i diversi casi in cui si manifesti la necessità di usarla ma anche come integrarne l’uso negli interventi dell’insegnante e se sia utile anche per gli studenti servirsene.
- i compiti a casa. Anche le attività individuali in orario “extra-apprendimento/lezione” richiedono una valutazione in merito ad una loro efficacia e/o ragion d”essere. A questo punto però, alla luce dei ragionamenti che abbiamo portato avanti, l’importanza che siamo abituati ad attribuire agli esercizi assegnati in una dinamica di insegnamento scolastico viene meno nell’ambito dell’insegnamento di una lingua. Perché si “danno i compiti”? Per far esercitare da soli gli studenti dopo una spiegazione. Ma se la lezione non è frontale e lo studente sperimenta imparando, perché dovrebbe avere la necessità di una ulteriore verifica? Se la spiegazione è che la verifica la vuole l’insegnante, vuol dire o che non ha osservato gli studenti, o che ha bisogno di una conferma evidente dell’efficacia del suo lavoro. Comunemente i “compiti” vengono corretti in classe durante la lezione successiva, ma non c”è il rischio di cadere nella logica giusto/sbagliato? E gli studenti non sarebbero portati a confrontarsi tra loro prima della “correzione-interrogazione” per fare “bella figura”? Quale sarebbe allora l’utilità dell’esercizio? E quanto volentieri verrebbe svolto dagli studenti? Se gli studenti sono al centro dell’apprendimento, saranno stimolati e interessati a chiedere da soli consigli all’insegnante su come migliorare o cosa fare a casa per “apprendere meglio”. Allora forse l’esercizio “da fare” é un”imposizione che porterebbe ad una perdita di autonomia perché si verificherebbe una perdita di libertà.
- l’imprevisto. L’imprevisto è un elemento da tenere sempre in considerazione quando si pianifica una lezione. Probabilmente questo aspetto rientrerebbe comunque nell’ambito del continuo adattamento dell’insegnante alla situazione. L’insegnamento è un percorso imprevedibile e non bisogna mai dimenticare che come la lingua è viva, in uso, così anche l’insegnamento è sperimentazione e adattamento alla situazione in base alle circostanze e agli obiettivi che l’insegnante si pone. L’insegnamento della lingua è pratica e azione ma come nella vita non potremmo mai essere padroni delle situazioni in cui ci troviamo, così in classe le nostre aspettative potrebbero essere inevitabilmente deluse. Nel fare le nostre scelte dobbiamo sempre tener presente che l’insegnamento è anche l’apprendimento dello studente e ciò che facciamo vi incide. Questi gli aspetti generali che compongono l’insegnamento di una lingua e lo caratterizzano come tale, bisogna comunque tenere in considerazione l’ambiente in cui stiamo insegnando, se si tratta di quella che viene comunemente definita una lingua straniera o di una lingua seconda, e in base a questo considerare quanto lo studente ha bisogno di apprendere e di essere stimolato in classe.
Proposta didattica: se la lingua è lingua in situazione e noi individui siamo attori della nostra vita, forse potrebbe essere piacevole sperimentare con gli studenti laboratori di sceneggiatura che costituirebbero un”attività extra e complementare alla ricostruzione di conversazione.
… continua … forse cambiando …