Enter your keyword

post

Che cosa significa insegnare una lingua

La mia storia inizia in un pomeriggio di aprile, con me davanti a una lavagna nera e il sole già caldo che soffoca il Villaggio Mariotti.

Villaggio Mariotti è un quartiere di Cisterna di Latina, da sempre identificato con il nome del costruttore che dopo la fine della seconda guerra mondiale trasformò le macerie dei bombardamenti in quattro palazzoni intorno a una piazzetta di cemento. Gli appartamenti erano piccoli e senza pretese ma comunque furono presi d’assalto dagli sfollati, perché gli affitti erano bassi e c’era la stazione ferroviaria a soli duecento metri di distanza. Negli anni ’70 qualcosa cominciò a cambiare, la guerra e la povertà si allontanarono nel ricordo e il nuovo benessere spinse la gente a cercare di conquistarsi una casa di proprietà. gli appartamenti del Villaggio Mariotti però non rimasero vuoti: a giocare tra le macchine della piazzetta un giorno scese un bambino nero, il primo mai visto nel paese.

Nel giro di pochi anni il quartiere si trasformò. Gli italiani se ne andarono quasi tutti, rimase soltanto qualche vecchietto e chi non riusciva a permettersi un mutuo. Le altre abitazioni furono occupate invece da africani, cinesi, filippini. La forzata convivenza si rivelò da subito faticoso e difficile. Io frequentavo spesso la zona (a la frequento ancora oggi) perché i miei nonii abitano lì. Ogni colta che sedevo con loro nel balconcino mi riferivano dei litigi e de  gli scontri quasi quotidiani, causati dalla diversità di abitudini e culture e amplificati dall’impossibilità di comunicare adeguatamente. Ai miei occhi era chiaro che la maggior parte dei problemi avrebbe potuto trovare una soluzione con il confronto e il dialogo, e la maledizione di Babele non mi era mai apparsa così attuale e minacciosa.

Un anno fa un mio amico mi chiese se fossi interessata a insegnare l’italiano nel quartiere in un’associazione di volontariato. Accettai con entusiasmo e senza pensarci troppo, e quel pomeriggio di aprile mi trovai in una stanzetta davanti a dieci ragazzi filippini. Avevo un gesso bianco in mano, una laurea triennale in filologia romanza e nessuna idea su come si insegnasse una lingua straniera.

I ricordi che avevo della mia esperienza a scuola con l’inglese e il francese non mi aiutavano molto.  Pensavo alle mille frasi da riempire con il verbo giusto, alle registrazioni rallentate in classe, e sapevo che non sarebbero state d’aiuto. Ne ero certa perché l’avevo vissuto sulla mia pelle: anni di grammatica francese non mi avevano portato automaticamente a parlare quella lingua, così come ai tempi del liceo i testi delle canzoni americane mi sembravano incomprensibili e inespugnabili, tutt’altra cosa rispetto all’inglese chiaro delle registrazioni in classe. All’epoca mi ero sentita frustrata  e sapevo che adesso non potevo  sbagliare. Davanti a me c’erano persone che non potevano permettersi di perdere tempo e che soprattutto non erano a scuola per dovere, ma per necessità.

Le mie prime lezioni furono bizzarre.  Alternavo senza alcun criterio il metodo grammaticale, l’unico che conoscessi,  con pillole di lingua “utile” che i ragazzi avrebbero potuto usare per comunicare subito. Ad esempio, passai un’ora della prima lezione a tramortire i filippini con i misteri dell’articolo determinativo, e la mezz’ora successiva a scrivere alla lavagna frasi come  “non capisco”, “puoi parlare più lentamente” , nella speranza che ricopiarle e ripeterle fosse sufficiente per dare loro almeno qualche strumento di comunicazione immediata. L’unica certezza di ogni lezione era il gioco dell’impiccato, che usavo negli ultimi quindici minuti per richiamare alla mente il lessico della giornata. Dividevo la classe in due squadre e a turno ognuna doveva indicare una lettera per cercare di ricostruire la parola alla lavagna, guadagnando un punto per ogni parola indovinata. Il gioco suscitava notevoli entusiasmi, e ogni volta nell’ultima mezz’ora la classe diventava il polo di attrazione per tutti i filippini della zona. C’era un’atmosfera di divertimento e di competizione, e anche chi aveva passato la lezione a dormire sul banco nell’ultimo quarto d’ora si svegliava, si concentrava e usava tutte le risorse possibili per ricordare o ricostruire la parola alla lavagna.

Piano piano cominciavo a scoprire che il gioco non serviva solo a rendere la lezione più piacevole, ma che poteva anche essere il mezzo per renderla più efficace. Tuttavia non riuscivo ancora a sentirmi libera di sperimentare, anche perché ero convinta di dovermi adeguare alle aspettative, sicuramente tradizionali, che i miei studenti avevano sulla scuola e sugli insegnanti.  Nella preparazione della pratica didattica continuavo quindi ad affidarmi alle unità grammaticali del corso che avevo a disposizione, un vecchio libro comprato chissà quando dall’associazione.

L’ultimo giorno prima delle vacanze avevo in mente di presentare un dialogo sugli acquisti in un negozio di abbigliamento, ma a lezione si presentò soltanto una ragazza. Lei aveva lo sguardo annoiato, faceva caldo e mi sembrava assurda l’idea di restare in quella stanzetta soffocante, ma d’altra parte mi dispiaceva farla tornare a casa. Guardando il dialogo alla lavagna e i disegni che avevo fatto per rappresentare i vari capi d’abbigliamento mi venne un’idea: perché non chiederle di accompagnarmi in un vero negozio? Lei accettò con entusiasmo, e la “lezione” fu un successo. Grazie a una commessa disponibile passammo quasi un’ora a girare per i banchi, e la ragazza per la prima volta si rivelò curiosa e veramente interessata. Quasi non riuscivo a rispondere a tutte le sue domande sui nomi dei vestiti, sui colori, sul modo giusto di rivolgersi alla titolare del negozio. Tornai a casa contenta e per la prima volta ebbi la certezza di aver fatto qualcosa di utile.

In autunno all’università (mi ero iscritta al corso di laurea magistrale in Linguistica presso l’università La Sapienza di Roma) lasciai la filologia romanza per la glottodidattica, e cominciai a leggere e a studiare per formarmi. Mi ricordai che la lingua non serve solo a comunicare, ma che ha la funzione importantissima di rappresentare il reale. Le parole non sono etichette sulle cose, sono proprio queste ultime a essere discriminate e concettualizzate in modo diverso da ogni sistema linguistico. Come insegnante dovevo quindi aiutare i miei studenti ad avvicinarsi a una visione del mondo diversa da quella veicolata dalle loro rispettive lingue, offrendo loro  altre lenti con cui guardare la realtà. La pragmatica poi rafforzò in me la convinzione che dovessi cercare di trasmettere la lingua vera, quella che permette di esercitare il controllo sulla realtà compiendo delle azioni, e non il sistema astratto cristallizzato in tanti esercizi formali. Cominciai a girare nelle librerie per cercare qualche strumento che mi aiutasse a tradurre questi concetti nella pratica didattica. Qua e là trovai degli spunti, ogni tanto qualche buona idea, ma non riuscii a scoprire un manuale che mi piacesse veramente.

In autunno ricominciai il corso di italiano nella stessa associazione, cercando di sperimentare nuovi metodi. Questa volta la classe era formata da una decina di persone provenienti dai cinque continenti (l’Antartide era l’unico a non essere rappresentato, per ovvi motivi) che incredibilmente poi mi ha seguito fino a maggio, e da un’altra decina che frequentava in maniera discontinua. Cercavo di rendere l’atmosfera in aula cordiale e amichevole, visto che molti di loro arrivavano dopo una giornata di lavoro in campagna o nei cantieri . Nonostante i miglioramenti però non riuscivo a trovare un modo coinvolgente per fare grammatica. A un certo punto mi mettevo alla lavagna e spiegavo a ruota libera,con un sorriso ma con la stessa determinazione dei miei vecchi professori,  ignorando deliberatamente la consapevolezza che conoscere una regola non significa saperla  e poterla applicare. Sentivo che quello che facevo era inutile, ma in attesa di scoprire qualcosa di meglio non potevo comportarmi diversamente. In fase di correzione invece ripensavo a Corder e a Selinker, lasciavo perdere la penna rossa e nel dubbio non correggevo quasi niente, cercando di capire il motivo che aveva indotto gli studenti a sbagliare. Anche l’analisi degli errori però non bastava: una volta capito il perché, come fare per aiutare a migliorare?

Ho chiesto aiuto alla mia professoressa di glottodidattica all’università e lei mi ha consigliato di rivolgermi alla Dilit per trasformare il mio sapere in saper fare. Adesso so che esistono modi coinvolgenti per riflettere sui problemi formali della lingua, e che è possibile strutturare una lezione interessante che metta veramente al centro lo studente.

In uno dei libri che ho preparato per un esame[1], Camilla Bettoni così scrive a proposito delle particelle modali del tedesco:  “Le particelle modali acquisiscono il loro significato dal contesto, che perciò varia di volta in volta. Prima di poterle riusare in modo autonomo e originale, l’apprendente deve notarne, capirne e ricordarne vari significati contestualizzati in un alto numero di esempi diversi per poi estrapolarne funzioni deitticamentegeneralizzabili.” La frase sul mio libro era sottolineata due volte, e a lato avevo scritto un commento di energica approvazione. Mi sono domandata come mai non sia riuscita a mettere in pratica quello che evidentemente approvavo e conoscevo così bene, ed evidentemente questa è solo un’altra testimonianza che sapere qualcosa non significa necessariamente saper tradurla in azione.

Ed ecco quindi che in queste due settimane di formazione alla Dilit riesco ad arrivare al punto nodale della questione, il ruolo dello studente e quello dell’insegnante: non  solo che cosa si insegna, ma anche come lo si fa.  Numerosi libri di glottodidattica sottolineano l’importanza dell’apprendente e la sua centralità nel processo di apprendimento, questo è vero,  ma in genere poi si limitano a trattare l’aspetto linguistico lasciando ad altre discipline il compito di completare il quadro. Io non avevo la curiosità e l’intraprendenza per farlo in autonomia perché durante i miei studi non avevo mai affrontato temi pedagogici, e la mia ignoranza mi portava a pensare che in realtà non ci fosse nessun mistero o problema. Ero quindi convinta che la questione fosse ancora lì, sulla lingua, e che quei vaghi accenni si riferissero soltanto alla valorizzazione del rapporto umano tra studente e insegnante. Pensavo che la capacità di  insegnare fosse legata alla capacità di spiegare bene i concetti, qualità che ognuno possiede in misura maggiore o minore e che non è possibile cambiare. Esistono buoni professori e cattivi professori, e  alla fine tutti devono inevitabilmente salire in cattedra.

In questi quattordici giorni invece ho visto all’opera altri insegnanti che parlano poco, ascoltano molto e non hanno cattedre. Se lo avessi letto nei libri forse non ci avrei creduto, eppure adesso so che avere il coraggio di mettersi da parte funziona. Funziona perché responsabilizza e accende la curiosità di chi deve imparare, che finalmente si sente trattato con stima e interesse e che per questo scopre la voglia di provare e cercare in autonomia. Funziona persino con quelli come me, che pensano di dover ottenere sempre il massimo, e che per una volta si sentono liberi di sbagliare ed esplorare senza ansia strade sconosciute. Ho così riflettuto su cosa significhi insegnare una lingua. Perché non basta usare la lingua autentica e creare una buona atmosfera in classe: lo studente apprenderà veramente solo se lui deciderà di farlo, cioè se sarà abbastanza motivato, e avrà maggiori possibilità di fissare le cose nella memoria se quelle stesse cose per lui avranno acquisito significato. Per ottenere questo l’insegnante dovrà necessariamente ridimensionare se stesso e avere l’umiltà e il coraggio di offrirsi come regista, lasciando il palco ai veri attori del processo di apprendimento.

Ottocento anni fa Tommaso D’Aquino così scriveva nel De Magistro: insegnare significa condurre altri “alla scienza di cose ignote allo stesso modo che uno, scoprendo, conduce se stesso alla conoscenza di ciò che ignora”.[2]  L’insegnante in questa visione non è chi imprime le conoscenze nella mente dell’alunno, ma è colui che sa creare le situazioni e i contesti di apprendimento in modo che gli alunni possano effettuare esperienze per scoprire, inventare, ricostruire i concetti.

Chissà come mai siamo riusciti a dimenticarlo così bene. Forse perché l’idea di una generazione di uomini e donne che hanno la forza di cercare attivamente, di sbagliare e di scoprire fa paura. Anch’io non ho idea di cosa succederebbe, di come cambierebbe il mondo: eppure non vedo l’ora di avere davanti una classe per scoprirlo.

[1] Camilla Bettoni 2006 Usare un’altra lingua: guida alla pragmatica interculturale, Editori Laterza p. 205.

[2] S. Tommaso D’Aquino  (a cura di M. Casotti), De magistro, La scuola, Brescia, 1957, p 28.