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Formare gli insegnanti all’approccio comunicativo

Già pubblicato su Culturiana, anno III, n° 10, Frascati, dicembre 1991

Nonostante un notevole filone del pensiero contemporaneo, che vede raccolti studiosi di discipline e orientamenti pur diversi fra loro (e si citano qui, per rimanere in un territorio più vicino a quello che ci riguarda, Barthes, 1986, p. 231 e Titone, 1988,p. 15), sostenga autorevolmente che la lingua non è solo comunicazione, rimane pur vero che qualsiasi uso della lingua si rifà in qualche modo alla comunicazione, per il solo fatto di imitarla, volutamente deformarla, o altro. Inoltre, in intere generazioni di insegnanti di lingue moderne sarebbe difficilissimo trovare un solo insegnante che non ritenga essere suo compito il mettere i discenti in grado di comunicare.

Curioso, quindi, che esista l’espressione “approccio comunicativo” riferita all’insegnamento delle lingue. Tuttavia quest’espressione ha una storia breve: meno di 20 anni. È un’espressione che riscuote un successo enorme, tanto è vero che poche scuole di lingua, pochi editori di libri di testo, resistono alla tentazione di includerla nelle proprie dichiarazioni di intenti. Eppure molte di queste scuole di lingua, molti di questi editori, non si sono sostanzialmente trasformati in modo tale da giustificare la rivendicazione di un nuovo approccio.

La stessa parola “approccio” è un neologismo giunto dall’area anglosassone. Cambiare approccio significa cambiare l’intera impostazione del lavoro: non basta per esempio integrare delle funzioni comunicative in un programma essenzialmente basato sulla trasmissione di una progressione di strutture sintattiche, per sostenere che l’approccio sia cambiato. Insomma, perché ci sarebbe bisogno di cambiare l’intera impostazione dell’insegnamento linguistico? Quali sono i presupposti da rispettare per meritare di essere considerati esponenti di questo nuovo approccio? Che cos’è cambiato negli ultimi vent’anni? E di che cosa è necessario tener conto in una attività di formazione di insegnanti? Un modo per delineare una breve risposta a tali quesiti, risposta che meriterebbe spazi ben più ampi di quelli a disposizione in questa sede, è di rilevare come tre figure – da un lato il parlante nativo e dall’altro l’insegnante e il discente – hanno acquisito maggiore spessore e più profondo rispetto di quanto non accadesse prima. Consideriamo queste tre figure una per una.

L’insegnante

Tradizionalmente l’insegnante aveva un ruolo molto secondario. La sua decisionalità si limitava a, grosso modo, due ordini di opzioni: 1) come presentare ed esercitare un atomo della lingua; 2) quando saltarne uno.

Mi spiego meglio. Con “atomo” intendo o una regola morfosintattica o una regola fonologica o un elemento lessicale o una frase esemplificatrice di una struttura sintattica o di una funzione comunicativa, a seconda dell’epoca. Spettava a chi scriveva i libri di testo, non all’insegnante, decidere quali atomi trattare e in che ordine. Possiamo individuare su per giù due fonti alle quali chi scriveva libri di testo attingeva per prendere le sue decisioni in merito. Una delle due fonti era l’esperienza più o meno personale e il buon senso. E cioè un bagaglio di intuizioni molto pragmatiche le quali traevano origine magari dall’insegnamento delle una volta più prestigiose lingue classiche, cioè il latino e il greco, e con gli anni avevano poi subìto delle modificazioni in base a un misto di criteri di facilità di apprendimento e di frequenza d’uso.

L’altra fonte erano le categorie di linguisti in voga a seconda dell’epoca, quali le “strutture” di Bloomfield (1933), le “frasi kernel” di Chomsky (1957), le “funzioni comunicative” di Wilkins (1976).

La scelta del peso dell’una o dell’altra fonte era spesso condizionata da direttive e programmi emessi da tale o tal altro Ministero dell’Educazione. La figura dell’insegnante era piuttosto ridotta: a lui spettava semplicemente il ruolo di “motivare” i discenti ad “imparare” questi atomi preselezionati e preordinati. Consapevoli che le cose rimangono più impresse nella memoria se inserite in situazioni a seconda dei casi realistiche o fantastiche, i più bravi introducevano nel loro insegnamento delle rappresentazioni figurative o addirittura teatrali di alcuni aspetti della comunicazione umana reale. Questo comunque in misura molto ridotta dato l’altissimo numero di atomi che occorreva insegnare.

L’insegnante “comunicativo”, invece, così come noi lo intendiamo, acquista una decisionalità piuttosto alta. Un libro di testo effettivamente “comunicativo” non gli prescrive tassativamente in che ordine deve svolgere le varie attività, non gli prescrive neppure che deve svolgere tutte le attività proposte né un congruo numero di esse. Si tratta, appunto, solo di proposte. L’insegnante attinge al libro di testo quando vuole e, inoltre, trova sul mercato una gamma sempre maggiore di variegato materiale didattico supplementare al quale attingere quando lo ritiene opportuno. Anzi, l’insegnante “comunicativo” è orientato in primo luogo ad attingere al mondo autentico della comunicazione umana, non adulterato, come spesso avviene, dalle mani dell’editoria didattica. Sceglie dal materiale didattico pubblicato solo per risparmiare tempo, e solo se l’eventuale adulterazione è veramente minima.

Il parlante nativo

Tradizionalmente il parlante nativo riceveva scarsa attenzione. Interessava ai linguisti solo in quanto produttore di certi fenomeni linguistici.

Serviva, cioè, al massimo come la prova che certi fenomeni atomistici (spesso elaborati nella mente del linguista) esistessero davvero. Oltre a questo costituiva più un problema che un aiuto. Quando si esprimeva era imbarazzante per l’insegnante: infrangeva tante di quelle regole che l’insegnante aveva pazientemente insegnato agli alunni. La linguistica era arrivata pure a togliersi d’imbarazzo formalizzando di fatto la non pertinenza del parlante: relegando tutto quel che egli dice di non corrispondente al sistema ordinato dei linguisti (la “competenza”) ad una categoria non degna di studio (la “esecuzione”). Anche con la più recente introduzione di funzioni comunicative nell’insegnamento assistiamo a frasi strappate dalla complessa e fluida realtà sociale e psicologica del parlante, imbalsamate ed etichettate una volta per tutte.

In un approccio comunicativo degno del nome, invece, l’accento si sposta dalla lingua come sistema astratto al parlante come esperto del suo uso e come utente effettivo. Un insegnante comunicativo, ascoltando la registrazione di una conversazione per esempio, vede persone che creano e ricreano un rapporto, che negoziano i significati, vede persone che vivono, che hanno un passato, che hanno desideri, intenzioni, scopi, paure, e che sono in grado di avvertire tutta la gamma di emozioni umane, e di esprimerle. Egli sa che il modo in cui i due o più parlanti si esprimono è frutto di questa loro globale umanità alle prese con i vincoli del “codice”. Soprattutto questo insegnante è consapevole che quella conversazione è unica: non è mai esistita e non potrà mai ripetersi.

Lo studente

Tradizionalmente lo studente era considerato semplicemente il destinatario di nozioni trasmesse, fossero nozioni etichettate formalmente o funzionalmente. Era suo compito memorizzare queste nozioni e applicarle in successivi esercizi. Ogni esempio di una loro non corretta applicazione si chiamava “errore” e generalmente veniva corretto.

Ora, invece, questo concetto del discente come “difettoso” viene rimpiazzato da un concetto più “evolutivo”. Lo studente è ritenuto in possesso di un sistema linguistico globale (una “grammatica da discente”, una “interlingua”), il quale è, all’inizio, estremamente rozzo, semplice, ridotto, povero; e poi, tramite l’esperienza, si sviluppa progressivamente in modo organico, passando attraverso successive fasi di elaborazione, di “complessificazione” (vedi Corder, 1981).

Il “programma” di sviluppo è determinato più da meccanismi interni al discente che non da ciò che viene “insegnato”. L’influenza dell’insegnante può essere rilevata più nella velocità con la quale il discente percorre il proprio programma che nella sequenza nella quale gli elementi linguistici vengono acquisiti.

L’altra novità nel modo in cui il discente viene visto è che ogni essere umano ha la potenzialità di diventare un ricercatore competente. Capace, cioè, di affrontare un terreno complesso (ridotto solo in termini di estensione, ma non in termini di complessità), individuare diversi esempi di un fenomeno degno di studio, ipotizzare una “regola” riguardante la sua struttura o la sua funzione, verificare la fondatezza di questa regola almeno per quanto riguarda il terreno sotto osservazione e modificarla a seconda del caso. È poi capace di tollerare tranquillamente la consapevolezza che la regola così elaborata potrebbe non essere la verità assoluta e potrebbe subire ulteriori modifiche in una futura indagine condotta nell’ambito di un altro terreno.

L’insegnante comunicativo, quindi, come viene qui inteso, propone al discente due tipi distinti di attività: uno di esercizio dell’attuale interlingua e l’altro di studio del linguaggio di parlanti nativi. Nell’uno come nell’altro caso, che il canale sia lo scritto o l’orale, che si tratti di comprendere o di esprimersi, vengono rispettate le condizioni naturali della comunicazione umana. In altri termini, vengono mantenuti intatti i contorni testuali di qualsiasi fenomeno linguistico, nonché i suoi contorni extratestuali, quali la personalità del parlante, le sue percezioni dell’interlocutore e del rapporto che desidera avere con lui, le sue conoscenze enciclopediche, ecc.

La formazione odierna, quindi, punta a preparare l’insegnante a lavorare con questa nuova impostazione senza d’altra parte intaccare, è bene sottolinearlo, l’atmosfera di piacevole collaborazione, divertimento, competizione parodistica e gioco che deve caratterizzare il lavoro in classe se non altro per diluire le inibizioni che sorgono spontaneamente in chiunque si appresti ad imparare una lingua straniera.

Bibliografia

Barthes, Roland, 1981 Le grain de la voix, Parigi, du Seuil. (Trad. it. 1986, La grana della voce, Torino, Einaudi).
Bloomfield, Leonard, 1933 Language, New York, Holt, Rinehart and Winston.
Chomsky, Noam, 1957 Syntatic Structures, The Hague, Mouton.
Corder, S. Pit, 1981 Error Analysis and Interlanguage, Oxford, Oxford University Press.
Titone, Renzo, 1988 “From Cognitive to Integrated Models of Second Language
Acquisition”, in Language Teaching and Learning: Canada and Italy, Ottawa, Canadian Mediterranean Institute.
Wilkins, David, 1976 Notional Syllabuses, London, Oxford University Press.