Cerca

post

L’autonomia nell’apprendimento linguistico

Un tema sempre attuale

Mi è di nuovo capitato tra le mani un numero speciale della collana Quaderni di LEND, uscito nel settembre del 1994 per i tipi della casa editrice La Nuova Italia e curato dal Prof. Luciano Mariani. Raccoglie la maggior parte delle relazioni presentate da più specialisti del settore in occasione del convegno nazionale LEND dal titolo “Per un’autonomia nell’apprendimento linguistico“. Quest’importante evento risale ormai ai giorni 29-30-31 Ottobre del 1992. Ricordo che si parlava molto di autonomia, all’epoca, nell’ambito del nostro aggiornamento continuo alla Dilit International House e se ne parla ancora.

Comunque la mia sensazione, e spero che sia solo tale, è che questo concetto di autonomia si sia fatto presto strada nelle simpatie e nelle convinzioni di chi si occupa a vario titolo dell’insegnamento, ma che ogni tanto lo si perda di vista per poi ravvicinarvisi, così, come in un movimento a fisarmonica. Secondo me ciò è fisiologico, in quanto la ricerca teorica e la prassi didattica sono due cose che marciano con modalità e ritmi diversi: la prima è tesa con ansia febbrile verso sempre più nuovi orizzonti, la seconda deve invece tradurre tutti i risultati della ricerca in programmi modulabili intorno alle tante e complesse individualità di cui è fatta la comunità scolastica.

C’è inoltre un equivoco di fondo che spesso esce fuori dai tanti e continui contatti che ho, a vario titolo, con il mondo della scuola, sia pubblica che privata: spesso si confonde l’autonomia del discente con la centralità del medesimo. Si può parlare, secondo me, di autonomia del discente quando questi dapprima percepisce e poi, anche con l’aiuto dell’insegnante, ha pienamente chiaro lo scopo delle attività che svolge; quando, insomma, entra in possesso di quella meta-abilità che più comunemente viene indicata con lo slogan imparare ad imparare. Va da sé che un sistema organizzativo del mondo scolastico con testi e programmi tesi a realizzare concretamente l’autonomia, è la base essenziale per realizzare questo mondo nuovo. Ma che vuol dire imparare ad imparare? Per quello che io ho capito, questa suggestiva espressione significa riconoscere e poi applicare in modo consapevole adeguati comportamenti, abitudini, strategie di apprendimento al fine di agevolarne un processo efficace con risultati gratificanti soprattutto per lo studente, ma anche per l’insegnante. Sì, perché se è vero che il primo diventa sempre più padrone del proprio sistema d’apprendimento, avviandosi così verso forme di autonomia sempre più marcate, è altrettanto vero che il promotore, il facilitatore di certi raggiungimenti è proprio l’insegnante.

È lui, infatti, che ha il compito di offrire man mano allo studente, in un processo formativo parallelo e integrato con il programma di studio vero e proprio, gli strumenti per rendersi sempre meno dipendente. È lui che, senza i provinciali timori di chi teme di perdere certe prerogative di categoria, rende possibile da parte del discente la scoperta di “regole del gioco”, che prima erano solo suo appannaggio.

Mi scuso se mi sono regalato troppo spazio, ma, quando qualcosa mi appassiona, è inevitabile che la voglia di dire mi prenda un po’ la mano.

Ma torniamo al libro curato da Mariani, cioè L’autonomia nell’apprendimento linguistico. Non ricordo perché all’uscita di questo volume non ne parlai subito nella mia rubrichetta spesso ospitata nel Bollettino Dilit dal titolo Un salto in libreria.

Posso farlo ora, però, visto che l’argomento è sempre di viva attualità e, secondo me, lo rimarrà per parecchio, anche perché, se guardo lo stato dei sistemi educativi, pubblici e privati non fa differenza, l’autonomia dello studente sembra più l’inizio di un cammino della speranza che un fatto acquisito. Siccome mi sembra giusto stimolare la curiosità di voi lettori, non darò conto di ognuno dei sedici contributi, la cui lunghezza media va, peraltro, dalle dieci alle venti pagine e passo, ma mi attarderò solo su due di essi:

  1. I fili di un discorso sull’autonomia di Luciano Mariani
  2. Si può educare all’autonomia? La conoscenza della metodologia didattica come strumento dell’autonomia del discente di Gill Sturtridge.

Di Mariani è noto da anni l’interessamento verso il tema dell’autonomia. Basta leggere le cose che ha scritto su LEND, diverse delle quali si trovano anche su internet, per rintracciare, ad ogni piè sospinto, quest’argomento. Penso, per esempio, al terzo numero di LEND del 1988, in cui, parlando delle abilità di studio e volendo infondere coraggio e fiducia in coloro che sono gli attori principali della realtà scolastica, cioè i docenti e i discenti, tra l’altro dice che è importante “privilegiare, oltre ai contenuti delle singole discipline, anche i processi sottesi all’acquisizione e alla rielaborazione di quei contenuti”. E poi, più avanti aggiunge: “Si tratterà allora di evidenziare, esplicitare, sistematizzare ciò che all’interno dell’esistente già tende a sollecitare una maggiore consapevolezza di come si impara ad imparare“.

C’è inoltre un altro suo articolo, apparso sempre su Lingua e Nuova Didattica nel numero speciale di Settembre 1996, in cui L. Mariani titola esplicitamente così il secondo paragrafo: Verso l’autonomia: dalle abilità di studio alle strategie di apprendimento. In questo, tra l’altro, si sottolinea come con “il tentativo di dare più corpo e spessore a questi approcci centrati sul discente, si è cominciato a parlare di abilità di studio, di strategie di apprendimento, ed anche, in modo più globale, del concetto di autonomia”.

Quasi commovente è la conclusione di questo fondamentale articolo, in cui Mariani, prendendo a prestito una domanda di Allwright del1984, si chiede perché gli studenti non imparano ciò che gli insegnanti insegnano. E così risponde: “Perché le strade verso l’apprendimento sono tante quante sono le persone, e il nostro modesto compito può essere innanzitutto quello di indicare queste strade, rendendole più sicure per chi deve percorrerle. Si tratta di un cammino verso l’autonomia, dello studente e dell’insegnante, così ben sintetizzato in questa bella poesia cinese:

Vai verso la gente
Vivi in mezzo a loro
Comincia da ciò che sanno
Costruisci su ciò che hanno
Quando il loro compito sarà svolto
E il loro lavoro sarà finito
Tutti diranno
“L’abbiamo fatto noi”.
Per venire ora al contributo di Mariani al presente volume, va, secondo me, messo in risalto l’esordio dello stesso in cui si dice che sviluppare l’autonomia implica la promozione di cambiamenti nello studente, nell’insegnante e poi nelle condizioni e negli strumenti di lavoro a scuola. Vi sono inoltre un paio di paragrafi che mi preme ricordare: quello in cui si parla dei paradossi dell’autonomia a scuola e l’altro in cui viene tracciata una definizione di autonomia.

Nel primo punto si mette in evidenza come i modelli educativi attraverso cui ci siamo formati, da quello familiare a quello scolastico, non assumono l’autonomia come modello prioritario, anzi, per la maggior parte di noi questo aspetto formativo non esiste proprio. E dire che ogni adolescente naturalmente vi aspira. Passando poi a parlare più direttamente dell’ambito scolastico, viene sottolineata la grossa contraddizione in cui spesso, se non sempre, cade chi ha responsabilità educative e formative: infatti, se da una parte è vero che si pretende più o meno esplicitamente dallo studente un certo grado di autogestione e di autonomia, dall’altra, purtroppo, è anche vero che queste abilità non sono insegnate allo studente in modo sistematico e raramente sono accolte in un curriculum. Allora non ha senso, in fasi delicate come quella d’esame, di scrutinio, oppure di semplice giudizio, dire che a uno studente manca un metodo per gestire autonomamente il proprio studio. Non ha senso, perché non abbiamo mai tentato uno straccio di formazione in questa direzione.

Altre contraddizioni Mariani le rintraccia nella scelta del momento in cui l’autonomia va introdotta e di chi debba occuparsene. C’è nel mondo della scuola molta confusione: c’è chi crede che nel periodo delle scuole medie sia prematuro parlare di autogestione e chi, nel biennio seguente afferma che è troppo tardi. L’impressione sconsolante che se ne ricava è che nessuno voglia prendersi la responsabilità di promuovere l’ autonomia dello studente. C’è in molti educatori come una tacita, diffusa convinzione che certe abilità siano frutto di una naturale e automatica acquisizione che procede dal semplice fatto di frequentare la scuola. Mi viene da dire che tutto questo più che di scienza sa di miracolo.

Andando poi verso una definizione di autonomia, Mariani afferma che possono essere ritenuti più autonomi, almeno rispetto ad altri, quegli studenti che:

– usano strategie efficaci
– possiedono conoscenze adeguate
– mostrano convinzioni e atteggiamenti produttivi.

Notevole, verso la fine, il passaggio, in cui prova a definire che cosa significhi possedere conoscenze strategiche, e concludendo che “significa intuire che cos’è una strategia, quali strategie sono più efficaci e quali hanno funzionato in passato nel proprio caso. Nel lavoro quotidiano, ciò implica essere o diventare consapevoli dello scopo di un compito di apprendimento, dei requisiti necessari, delle strategie più appropriate per svolgerlo e per valutarne l’efficacia.

Arrivando alla conclusione del suo intervento, Mariani ci lascia con una citazione da Le travail autonome di Albert Moyne del 1982, con la quale egli concorda e che incontra pienamente anche la mia adesione: “Si tratta di pensare all’autonomia e alla dipendenza come due stati simmetrici di cui l’essere umano ha bisogno per diventare se stesso. Ma questi due stati non hanno un limite definito universale e oggettivo per tutti. Occorrerà allora condurre i nostri studenti a gestire la dipendenza e l’autonomia secondo i loro bisogni e forse proprio in questo consiste il vero modo di essere autonomi”.

Passando al secondo contributo, quello cioè di Gill Sturtridge, mi piace rammentare che opera da diversi anni nell’Università di Reading, un centro che rimane ad una quarantina di chilometri ad ovest di Londra. La professoressa Sturtridge apre il primo capitolo dicendoci subito come la pensa. Infatti afferma che la maggior parte dei docenti sostiene di basare le proprie lezioni sulla centralità dello studente; ma poi ci tiene a sottolineare subito che c’è “un’ area della didattica rispetto alla quale i discenti sono raramente interpellati o anche solo informati. Quest’area è la metodologia, sia quella che regola la gestione della classe sia quella che sottende alle attività didattiche”. Raramente, insomma gli insegnanti spiegano il loro modo di lavorare, quello che fanno e perché lo fanno. Quando ciò avviene, spesso si pecca di approssimazione e di superficialità. La Sturtridge attribuisce tutto questo non tanto all’idea che il campo metodologico debba cadere sotto l’esclusivo dominio dell’insegnante, quanto ad una serie di cause, fra le quali spicca la convinzione che fare insieme alla classe una profonda analisi delle tecniche didattiche tolga spontaneità e naturalezza alla “rappresentazione” della lezione. Secondo me la parola “rappresentazione” ben virgolettata contiene un’implicita critica al modo che spesso ha il docente di percepire il proprio operato: come spettacolo, appunto, esibizione solo delle sue abilità. Ma forse sto operando una forzatura alle intenzioni della Sturtridge.

Molto stimolante anche il secondo capitolo dove si riconosce che “La responsabilità di chiarire le ragioni di certe attività non dovrebbe essere di sola pertinenza dell’insegnante; anche l’autore di libri di testo dovrebbe sentire la stessa responsabilità”. Naturalmente con ciò si vuole sottolineare l’importanza di decifrare da parte dello studente gli scopi di compiti da fare senza la presenza di un insegnante. La Sturtridge, per la precisione, mutua quest’idea da Wenden, il quale aveva a sua volta preso spunto da Breen, il quale sottolineava già nel 1987 quanta importanza rivestisse la conoscenza del significato del compito da parte dello studente.

Quindi la responsabilità di chiarire le ragioni di una certa attività che una volta era attribuita solo all’insegnante, si trasferisce pari pari all’autore di un libro di testo.

Per finire vorrei richiamare l’attenzione del lettore su un allegato situato a pag. 84. Per formare nel discente la consapevolezza delle strategie da usare per fare un certo cloze viene posto sotto il cloze medesimo, della lunghezza di undici righe, il seguente questionario:

– Quali informazioni hai usato per scegliere le parole da inserire nel cloze? Ne hai usata qualcuna delle seguenti?

  1. Conoscenza della grammatica.
  2. Conoscenza delle parti del discorso richieste: verbi, sostantivi, ecc.
  3. Parole apprese in questa unità.
  4. Abilità nell’indovinare.
  5. Familiarità con lo specifico.
  6. Capacità di deduzione.

Poi si chiedeva di fare una lista di questi punti in ordine d’importanza.

Ecco, secondo me, un modo pratico ed economico di inglobare, nell’ambito di un semplice compito, anche qualcosa che possa dare allo studente più consapevolezza di quello che fa, sperando di avviare un embrione di autonomia, che, sviluppandosi con costanza, produrrà studenti nuovi, persone nuove. Voglio qui di seguito riportare, sempre per rendervi più curiosi, i nomi degli autori degli altri contributi e i titoli degli stessi:

Peter Skean, Differenze individuali e autonomia di apprendimento
Remo Job, Claudio Tonzar, I processi coinvolti nell’apprendimento linguistico
Ute Rampillon, Il ruolo delle strutture metacognitive nel processo di apprendimento linguistico
Joan Rubin, Come aiutare gli studenti a sviluppare il controllo esecutivo
Jean Paul Narcy, Errare umanum est. Gli errori: prevenire per guarire?
Anna Ciliberti, Il “lavoro di riparazione” in situazioni di contatto e nella classe. Verso l’autovalutazione
Jack C. Richards, L’insegnamento linguistico in una prospettiva “riflessiva”
Graziella Pozzo, Routines, interesse e autonomia
Martin Dodman, Domande su domande: ricercare presupposti ed esiti nella propria azione
Silvana Ranzoli, Apprendimento e autonomia: spazi aperti nella realtà della classe
Augusto Carli, L’apprendimento linguistico autonomo all’università e il ruolo delle glottotecnologie
Maria T. Prat Zegrebelsky, Dal laboratorio linguistico al centro linguistico: dalla dipendenza all’autonomia
Francois Mangenot, Informatica e autonomia
M. José Barbot, Centri di autoapprendimento in ambito istituzionale e prerequisiti

Va detto, tra l’altro che ogni singolo contributo è corredato di riferimenti bibliografici con titoli e nomi di autori estremamente stimolanti. Non mi rimane quindi che esortare chi è in possesso di questo libro a ridarvi ogni tanto un’occhiata e chi non l’ha mai visto a conoscerlo al più presto. Buona lettura e un caro saluto a tutti.