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Il mito del senso generale

Ormai le attività di ascolto fanno parte del repertorio di quasi tutti gli insegnanti di lingua, qualunque sia l’approccio seguito. Ascoltare registrazioni autentiche o semiautentiche è diventato un’esperienza sempre più frequente per gli studenti di lingua. La lunghezza di queste registrazioni si è ormai stabilita intorno a 3-5 minuti. Le prime registrazioni non-semplificate risalgono alla metà degli anni ’70 ed erano piuttosto brevi (salvo qualche eccezione destinata a classi avanzate). E poi con l’accumulo dell’esperienza sono diventate più lunghe. Credo che ormai siamo arrivati all’optimum. Chiedere più di 5 minuti di concentrazione ad uno studente non particolarmente motivato è chiedere troppo. Dall’altra parte molto meno di 3 minuti rischia di sembrare una sciocchezza superficiale per lo studente motivato allo studio.

Ora, molti insegnanti mi dicono che fanno ascoltare il brano soltanto due volte o, ogni tanto, tre volte. E quando chiedo come mai così poche volte, mi dicono che già così gli studenti capiscono il senso generale. E lo dicono con una sicurezza che spaventa! Come fanno, mi domando, a sapere che cosa ha capito ognuno dei loro studenti? E poi come fanno ad usare un termine come “senso generale” come se avesse un senso indiscusso, come se potesse essere quantificato? Dov’è il confine fra il senso generale e il senso “altro”?

Se uno studente capisce che i due parlanti esprimono pareri discordi sul costo della vita in un determinato paese, questo basterà ad “aver capito il senso generale”? Anche se questo studente non è in grado di dire se le due persone stanno litigando o meno? E se un altro studente capisce che le due persone stanno litigando perché non si sopportano più dopo una vacanza insieme in un determinato paese e che il “pretesto” della lite è il costo dei piselli e qualche altra cosa? Il secondo studente non è riuscito a capire che i piselli vengono menzionati solo come esempi del costo della vita, ma invece ha capito qualche cosa di più “profondo” della conversazione. Invece il primo studente è riuscito a “salire” dall’esempio dei piselli al concetto del costo della vita, ma ignora il “perché” della conversazione.

Chi dei due ha capito il “senso generale”? Se il lettore sa rispondere, beato lui. Io non so rispondere. Né davanti a questo confronto né davanti alle migliaia di confronti che si creano ogni volta che gli studenti ascoltano.

Invece di cercare di stabilire quale dei due studenti abbia capito il “senso generale” non sarebbe meglio constatare che a tutti e due gli studenti mancano alcuni aspetti del significato del testo? E che quindi tutti e due hanno spazio, e dei giusti motivi, per aumentare la loro comprensione? Se abbandoniamo il concetto del “senso generale” possiamo lavorare con il concetto meno limitativo dell’aumentare la comprensione, qualunque sia l’epiteto usato per qualificare il particolare aspetto del significato che di volta in volta viene compreso.

L’insegnante che si ostina a credere nel concetto di “senso generale” rimane in un certo modo sordo. Mi spiego. Ogni volta che ascolta gli studenti parlare di ciò che hanno capito, egli è incapace di attribuire a tutte le parole dello studente che si esprime lo stesso peso: alcune hanno per l’insegnante più importanza di altre. Quelle parole che riferiscono aspetti del “senso generale” vengono recepite con un sentimento di soddisfazione (se sono “giuste”) o di insoddisfazione (se sono “sbagliate”), mentre le parole che riferiscono aspetti che non fanno parte del “senso generale” producono indifferenza o a volte addirittura irritazione dovuta ad una preoccupazione di perdere tempo. L’insegnante che invece riesce ad abbandonare il concetto di “senso generale” diventa in grado di sentire ciò che dicono gli studenti nei termini loro.

E poi c’è un’altra cosa: in tante classi lo studente non dice quello che ha capito. Specialmente in quelle classi in cui l’insegnante ha in mente un concetto di “senso generale”. Questo in parte perché l’insoddisfazione o l’indifferenza di cui sopra si sentono e influiscono sulla voglia o meno di scoprirsi. Già lo studente è assillato da un senso di insufficienza ogni volta che si trova a contatto con la lingua autentica, figuriamoci come si sente davanti a manifestazioni di sentimenti non entusiastici da parte dell’insegnante dopo essersi sforzato due volte: una nel cercare di capire e l’altra nello sforzarsi di esprimere ciò che ha capito.

Qual è, allora, il modo corretto di concepire la situazione? Prima di tutto bisogna riconoscere (ed accettare!) che mentre lo studente ascolta si sta creando una rappresentazione del testo che ha come centro non il testo ma lo studente stesso. Non può essere diversamente. Anche l’insegnante che “dimostra” che gli studenti hanno capito il “senso generale” riesce a farlo soltanto “guidando” in qualche modo l’espressione dello studente. Le tecniche più usate sono: fare delle domande allo studente (e queste domande limitano drasticamente il campo); lasciar esprimere liberamente lo studente ascoltando con partecipazione (che in realtà significa l’uso spontaneo di manifestazioni facciali o vocali di accordo o meno, il che permette allo studente di “correggere il tiro” durante il racconto); lasciar esprimere gli studenti liberamente passando la parola da uno studente all’altro in ordine casuale (solo l’ordine è casuale: il momento di far passare la parola da uno studente all’altro, invece, è tutt’altro che casuale: ha luogo ogni volta che il racconto esce fuori dal binario del “senso generale”. Gli studenti se ne rendono conto e “si correggono” di conseguenza). In realtà, anche se la rappresentazione del testo dello studente spesso contiene alcuni o anche tutti gli aspetti di quel che l’insegnante ritiene sia il “senso generale”, questo “senso generale” non coincide né con la rappresentazione dello studente né con un riassunto “obbiettivo” di essa. Il baricentro sta da un’altra parte. Per forza.

La seconda cosa che bisogna accettare è che la rappresentazione del testo che lo studente ha in testa dopo aver ascoltato il brano è il meglio che egli è in grado di fare. E il nostro compito di insegnanti non è insegnargli qual è il “senso generale” di un testo, bensì sviluppare questo suo “meglio”. Esso non si sviluppa reprimendolo. Con ciò intendo dire che quegli insegnanti che “portano” gli studenti a capire il “senso generale” di un testo per “aiutare” gli studenti, non li aiutano affatto. Il “senso generale” (che non è altro che la lettura del testo dell’insegnante) deve per forza spazzare via la lettura del testo dello studente. Una versione moderna della vecchia istruzione “stai zitto e studia”. Il risultato (come con qualsiasi efficace atto di repressione) è una diminuzione di energia. Questa diminuzione di energia (causata dal procedimento messo in atto dall’insegnante) fa sì che gli studenti non protestino affatto quando l’insegnante non gli fa ascoltare molte volte la registrazione, il che, invece, gli avrebbe permesso di approfondire la loro comprensione (cosa che normalmente gli farebbe molto piacere). Un circolo vizioso insomma: l’insegnante fa lavorare gli studenti in un modo superficiale (nel senso che gli studenti non lavorano ai limiti delle loro capacità) e si giustifica con la constatazione che gli studenti sono contenti così.

Allora che deve fare in pratica l’insegnante che non respinge le argomentazioni di questo articolo e che vuole almeno fare una prova? Un insegnante che finora trova che i suoi studenti non vogliono ascoltare più di tre volte e che vuole vedere se è possibile che siano loro a chiedere di ascoltare una quarta volta perché convinti loro che servirà ad aumentare la loro comprensione?

Innanzitutto, abbandonato il concetto di “senso generale”, bisogna prendere sul serio il fatto che devono essere tutti gli aspetti del significato ad essere oggetto di dubbio e di ricerca. Incluso ciò che molti insegnanti chiamano “il contesto”. Bisogna abbandonare la prassi in cui l’insegnante fa precedere l’ascolto da qualche informazione sul “contesto”. Lasciamo agli studenti il piacere di scoprire loro il contesto. Ed è inutile rispondere che nella “realtà” lo studente saprebbe benissimo dove si trova ecc., quindi bisogna riprodurre le stesse condizioni nella lezione di ascolto. Non gli stiamo dando un’esperienza reale; gli stiamo, invece, dando un’esperienza unica che la “realtà” non gli può mai dare: e cioè la possibilità di riascoltare, e riascoltare, la stessa vicenda comunicativa. Ed è un modo di far aumentare la comprensione auditiva molto più rapidamente di qualsiasi esperienza “reale”. Nella nostra situazione ciò che conta, come ho già detto, è l’energia. Ebbene, lo studente che non riceve dall’insegnante nessuna informazione su nessun aspetto del significato trova più energia di chi ne riceve. Provate se non mi credete.

Poi bisogna che l’insegnante smetta di chiedere allo studente che cosa ha capito, sia durante la lezione sia alla fine. È inutile rispondere che l’insegnante deve sapere. Non è vero: l’insegnante non ha nessun bisogno di sapere che cosa o quanto ha capito lo studente. Lo studente che ascolta per poi raccontare all’insegnante ciò che ha capito spreca energia: l’energia s’indirizza alla soddisfazione dell’insegnante. Invece l’energia deve indirizzarsi ad uno solo scopo: capire di più. Lo studente deve ascoltare per se stesso, non per l’insegnante. L’insegnante deve farsi i fatti suoi e non impicciarsi di ciò che non lo riguarda! Se qualche lettore si sente male e pensa “allora a che serve l’insegnante?” gli rispondo che questi articoli non sono prodotti da pensieri astratti; sono invece frutto di lunghe sperimentazioni, e posso assicurare che quando lo studente comincia a sentire la crescita più rapida delle sue capacità si rende conto che è stato l’insegnante a sprigionare in lui questa energia maggiore.

Poi bisogna dare allo studente molto spazio per esprimere ciò che pensa di aver capito; ad un pari grado, s’intende, non all’insegnante. Anzi, bisogna proprio insistere affinché lo faccia. Questo per più motivi. Primo, per toglierlo dall’isolamento. Cioè, il primo ascolto della registrazione, specialmente per lo studente poco abituato, può essere un’esperienza poco rassicurante in quanto lo studente si rende conto di quanto poco riesce a capire. Ed è spesso portato a pensare che il problema sta in lui e non nel testo: spesso pensa che dovrebbe cambiare classe, o lingua, o addirittura smettere del tutto di studiare! Se subito dopo sente un altro studente raccontare ciò che pensa di aver capito lui, si rende conto che non è il solo ad aver capito così poco. “Allora non hanno capito granché neppure gli altri” pensa, e si rassicura di non essere l’asino della classe. “Il problema non è più mio ma è diventato nostro; siamo negli stessi guai; diamoci una mano”. Abbiamo quindi una situazione psicologica di eventuale isolamento e depressione trasformata in una di solidarietà, grazie al confronto fra i due studenti. E questa solidarietà sprigiona molta energia.

C’è una cosa che si può fare, anzi che bisogna fare, per evitare che il senso di depressione durante il primo ascolto sia altro che molto lieve. Ed è questo. Prima ancora di cominciare l’attività di ascolto bisogna scrivere alla lavagna:

“CAPIRE” è il contrario di “NON CAPIRE”

e chiedere se gli studenti sono d’accordo. Il motivo di ciò è che molto spesso essi sono d’accordo. E cioè questa semplice formula rappresenta il loro modo di concepire la comprensione. Una concezione dicotomica: o si capisce o non si capisce, non ci sono altre possibilità. Questa concezione viene da lontano. Viene da una scuola che ha troppo spesso rappresentato le conoscenze in questi termini: o capisci o non capisci, o conosci una cosa o non la conosci, o la risposta è giusta o è sbagliata, ecc. È molto utile, quindi, dimostrare che sei a conoscenza di questo modo di vedere le cose, per poi essere più autorizzato ad offrire un altro modo di vederle. A questo punto occorre scrivere un titolo sopra questa frase: FORMULA A. E poi tracciare una grande croce sulla frase stessa per indicare il vostro rigetto. Gli studenti a questo punto sono molto curiosi di sapere qual è l’alternativa: la FORMULA B. Bisogna soddisfarli. Alla lavagna sotto la formula A va messo quanto segue:

FORMULA B

CAPIRE TUTTO (100%)
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CAPIRE NIENTE (0%)
E poi bisogna spiegare che questo modello contempla il capire al 50%, il capire al 25%, il capire all’1%, il capire allo 0,5%, il capire allo 0,00005%, ecc. Poi bisogna dare qualche esempio: “Hans, quando ascolterai la registrazione capirai lo 0,0004%” e lo segnate al punto giusto sul continuum alla lavagna. “Fumiko, tu sei brava: tu capirai lo 0,0006%” e anche questo va segnato. “E tu Arthur, tu hai studiato molto questo mese: tu capirai lo 0,0009%” e viene segnato anch’esso. Tutto questo va fatto ovviamente con giocosità: non c’è niente di scientifico in ciò. Il messaggio che arriva allo studente è duplice: primo, siccome i valori menzionati sono tutti bassissimi e l’insegnante li sta riferendo come normali, dovrebbe essere piuttosto semplice stare nella norma (non c’è terrore più forte per lo studente che di scoprirsi l’asino della classe); secondo, i valori sono diversi per studenti diversi: quindi non c’è neanche il rischio di doversi uniformare agli altri studenti. Favoriamo così un abbassamento del livello di ansia che potrebbe accompagnare lo studente durante il primo ascolto.

Torniamo al discorso che bisogna far in modo che lo studente dica ad un altro studente quello che pensa di aver capito. Proporre questa prassi ha anche un altro motivo. E qui dobbiamo riflettere un po’ su che cosa facciamo tutti quando parliamo. Ad una prima considerazione superficiale potremmo dire che il parlare serve ad informare un altro su ciò che già sappiamo, o pensiamo di sapere. Però quando esaminiamo un po’ meglio la questione ci rendiamo conto che non è così semplice. È spesso durante il parlare ad un altro che vengo a sapere ciò che penso. Il parlare con un altro mi serve ad organizzare i miei pensieri. Spesso è lo sforzo stesso di mettere in parole ciò che penso che trasforma vaghe intuizioni senza forma in veri e propri pensieri concreti. Se il lettore può accettare questa tesi, allora dobbiamo ammettere che lo studente, essendo anche lui un essere umano, funzionerà nello stesso modo. E cioè la sua rappresentazione di ciò che pensa di aver capito prende una vera forma concreta soltanto nel momento in cui cerca di esprimerla ad un altro studente.

Il terzo motivo per far parlare gli studenti fra di loro è che così facendo ognuno di loro sente da un altro delle interpretazioni con le quali non è d’accordo. Nasce quindi la voglia di riascoltare per dimostrare che la propria interpretazione sia quella giusta. Quindi ancora una volta più energia: i successivi ascolti vengono svolti con più attenzione. C’è uno spirito di amichevole competizione che si vede nelle facce degli studenti durante i successivi ascolti quando ogni tanto guardano il compagno come per dire “te l’avevo detto”.

Il quarto motivo per la consultazione fra studenti è contemporaneo al terzo anche se può sembrare contraddittorio. Si crea uno spirito di collaborazione. I compagni diventano “investigatori” con l’obiettivo comune di accerchiare il non-capito per ridurre la sua estensione. Il piacere di fare strada nella loro ricerca crea anch’esso più energia.

Si è detto, quindi, che per tutti questi motivi bisogna anche insistere che gli studenti si consultino fra di loro. Come fare, allora, a garantire che lo facciano? Anzitutto il numero di studenti in ogni gruppo non è insignificante. Abbiamo detto che gli studenti devono parlare. Tutti. In un gruppo di tre o più è facilissimo, per chi non vuole parlare, stare zitto. In un gruppo di due, invece, è molto difficile. Quindi bisogna creare gruppi preferibilmente di due. Ancora, se il compagno è seduto accanto si può facilmente evitare gli occhi del compagno e continuare a guardare l’insegnante (magari per dirgli che siccome non hanno capito niente è inutile parlare). Se invece ogni studente si trova con il compagno fisicamente davanti a lui e l’insegnante è “assente”, è molto difficile non rivolgersi al compagno anche se è soltanto per informarlo che non si è capito niente. Questo fatto stesso stabilisce le condizioni di solidarietà di cui si è parlato sopra ed è molto probabile che qualche precisazione su questo “niente” venga comunicata; e il gioco si avvia.

Riassumiamo: primo un discorsetto sulla concezione “continuum” della comprensione; poi un ascolto (senza nessun tipo di “contestualizzazione”); poi lo spostamento delle sedie in modo che ognuno abbia davanti a sé un altro studente; devono consultarsi su che cosa credono di aver capito (e l’insegnante si fa “assente”). A questo punto, non appena una delle coppie ha finito di parlare l’insegnante ferma tutti e riavvia la registrazione.

Immediatamente molti studenti girano le loro sedie verso il registratore. È importante bloccare questo subito: cioè bisogna fermare il registratore e dirgli di rimettere le sedie come erano. Questo perché è essenziale che non rompano il rapporto con l’altro, che ascoltino “insieme”. Finito il secondo ascolto, l’insegnante non deve dire altro che “continuate”, e farsi “assente” di nuovo.

Questo procedimento va ripetuto per un terzo ascolto e anche per un quarto. Ho cominciato questo lungo discorso parlando di quattro ascolti, ma in realtà l’insegnante che segue tutte le indicazioni alla lettera si renderà ben conto che lavorando così gli studenti non sono affatto stanchi dopo la quarta volta. Ed infatti è di norma arrivare a sette ascolti. Ancora più facile se lungo la strada si effettuano uno o due cambi di compagno.