Con te non ci parlo
Sfogliando l’ultimo numero di Lend, precisamente quello di settembre 1993, mi ha colpito e incuriosito un capitolo curato da Roberta Piazza intitolato “La negoziazione conversativa”. In esso viene passata in rassegna diversa letteratura sull’argomento. Le recensioni che hanno offerto più spunti alla mia riflessione, aprendomi tutto un mondo della linguistica, che prima avevo considerato sempre come secondario e di poca consistenza, sono quelle di You Just Don’t Understand di Deborah Tannen e poi Conversazione e interazione di Remo Zuccherini. Concordo molto con quest’ultimo sul fatto che l’analisi di un testo conversativo non si deve fermare al suo aspetto transazionale, cioè lo scambio delle informazioni tra i parlanti, così come non basta, aggiungo io, pensare che un’analisi morfosintattica o lessicale riesca a coprire tutto il potenziale di un testo di tipo conversativo.
Bisogna quindi andare oltre. Bisogna vedere che tipo di rapporto si instaura fra i parlanti, vedere insomma che interazione c’è e quali sono le regole di questo interagire. Perché, diciamolo, queste regole esistono, anzi formano una buona parte di quella “grammatica ampia” di cui Stefano Urbani ci ha sempre parlato. Solo che i parlanti non se ne avvedono in quanto le regole sono meccanismi inconsci, “saltano all’occhio solo quando vengono infrante o violate” come dice R. Zuccherini (op. cit.).
Ovviamente, questo mio contatto con una materia così interessante non poteva rimanere lettera morta o, al massimo, produrre puro godimento personale. Siccome sono insegnante, ho subito sentito il desiderio di sperimentare in classe questo tipo di analisi, che per comodità potremmo chiamare della negoziazione “riuscita” o “fallita”. Dovendo allestire un lavoro esercitativo credo sia meglio pensare a un testo dove vi sia disaccordo, dove abbondino dissonanze, scarti, dove insomma non vi sia collaborazione da parte di uno dei partecipanti. E questo proprio perché le regole dell’interazione sono invisibili quando tutto fila liscio, quando il discorso è armonico, si evidenziano al massimo in caso di fallimento dell’accordo negoziale.
Forte di questo convincimento, ho scelto un brano dal libro di Marina Mizzau I bambini non volano riprodotto qui di seguito.
Il giovane uomo seduto vicino al finestrino si mise in bocca una caramella di menta, poi si tolse gli occhiali, li strofinò sommariamente con l’estremità della cravatta, li rimise, constatò l’inutilità di ciò che aveva fatto e chiese alla moglie: “Hai un Kleenex?”.
Lei frugò nella borsa e disse che non ne aveva.
Di fronte a loro una donna dai capelli grigi, sui settanta, estrasse dalla propria borsa un cartoncino ripiegato da cui strappò un foglietto simile a carta velina. “È fatto apposta per pulire gli occhiali” disse offrendolo indiscriminatamente ai due giovani.
Leggermente stupito l’uomo prese il foglietto ringraziando e lo passò rapidamente sulle lenti che ricollocò al loro posto.
“Non così, le pulisca bene” disse la signora di fronte con un certo tono autoritario che sembrava concedersi per diritto grazie alla giovane età dei suoi due compagni di viaggio.
Con goffa acquiescenza lui si tolse di nuovo gli occhiali e li stropicciò ancora a lungo. “Vanno benissimo adesso” disse guardando le lenti in controluce. Offrì una caramella alla signora, che accennò appena un rifiuto. Lo stesso gesto, rivolto alla moglie, fu del tutto ignorato, in effetti questa stava dicendo qualcosa che dimostrava compiacimento e curiosità per l’involucro delle cartine.
“Chissà da quando erano qui, nella borsa” commentò pensierosa la donna anziana. “Erano di mio marito. Lui le usava sempre” disse. “Quando era vivo” precisò.
Tacque qualche secondo. “Era maniaco della pulizia degli occhiali. Era capace di stare lì, a strofinarli, per cinque minuti di seguito, forse anche dieci. Non la finiva più”.
“È importante che gli occhiali siano ben puliti” concordò la donna più giovane. “È molto fastidioso avere gli occhiali appannati”. Aggiunse qualcosa sul fatto che lei non li usava, ma suo marito sì, li aveva sempre adoperati, perché era molto miope.
La donna con i capelli grigi non dimostrò interesse a quella che evidentemente considerava una digressione.
“Quando puliva gli occhiali era come ipnotizzato, guardava fisso davanti a sé come se fosse in un altro mondo… Cambiava anche l’espressione della sua faccia, sembrava inebetito. Mi chiedevo dove fosse. Qualche volta glielo chiedevo: non capiva neppure la mia irritazione, mi domandava cosa c’era di strano, e continuava”.
“Lei questo non riusciva a sopportarlo” disse la ragazza sorridendo con aria complice.
L’altra non sorrise.
“Lo dico solo per spiegare perché ho le cartine” disse “io non porto occhiali”.
“Quindi suo marito se le portava sempre dietro” assecondò docilmente la ragazza. “Già”.
“Era un uomo previdente”.
“Anche le scarpe” disse la donna anziana. “Era capace di lucidarsi le scarpe per un tempo infinito. Non erano mai abbastanza lucide per lui”.
“Lui invece non se le pulisce mai” non poté fare a meno di deviare ancora la giovane accennando al marito. “Devo farlo io anche per lui”.
L’uomo alzò lo sguardo dal giornale, elaborò accuratamente un’espressione di meraviglia e scetticismo, la trasferì dalla moglie alla signora di fronte, la riportò sulla moglie e tornò alla lettura, dopo essersi messo in bocca un’altra caramella, che masticò prima vigorosamente, poi minuziosamente, a lungo, nei dettagli.
“Mio marito lucidava anche le mie” disse la donna dai capelli grigi.
“Veramente? Doveva essere un uomo molto gentile, premuroso” disse la ragazza.
“Questo non è il punto” disse l’altra. “Quello che contava per lui era che anche le mie fossero pulite. Non poteva sopportare che io non fossi accurata, che avessi qualcosa fuori posto. Criticava il disordine della mia borsa. Come tenevo i soldi. Quando poteva metteva in ordine le carte nel mio portafoglio, le lisciava, le ripiegava accuratamente”.
“Certo era un uomo meticoloso” commentò la giovane.
“Non sopportava che avessi vestiti spiegazzati, scarpe consumate, calze smagliate. Me lo faceva notare, anche in pubblico”.
“Questo non è bello” disse la ragazza severamente. “lo non sopporto che mio marito mi critichi in pubblico”.
“Perché?” si informò la signora anziana, come se l’altra avesse espresso un pensiero bizzarro.
“A lei faceva piacere?” disse la giovane con aria leggermente provocatoria.
“Dipende”.
“Del resto lei è molto ordinata, voglio dire, elegante. Cosa aveva da rimproverarle?”.
La donna anziana fece scorrere lo sguardo su di sé, dall’alto verso il basso, con aria scettica come a mettere in evidenza l’infondatezza del complimento.
“Non si trattava di rimproveri” disse in tono impaziente. “Mi prendeva in giro, si divertiva”.
“Lo diceva per scherzare insomma” semplificò la ragazza.
“Non esattamente. Non è questo quello che volevo dire”. Sembrò rinunciare a quello che voleva dire, e disse un’altra cosa, su come lei non tenesse conto delle critiche del marito.
“Del resto lo sapeva, lo doveva sapere, che più lui mi faceva le prediche e più io insistevo nel fare a modo mio”.
“E lui se la prendeva, se lei non gli dava retta?” domandò la ragazza.
“No, assolutamente”.
“Doveva essere un uomo comprensivo, tollerante” disse la giovane.
“Tollerante?” rinviò con un sorriso ironico la donna anziana.
La giovane tacque perplessa. Poi domandò: “Lo era lei allora?”.
“Certo questo lui non l’avrebbe detto di me” rispose l’altra ridendo, e adesso il suo tono era disteso.
Il giovane si mise in bocca un’altra caramella. Questa volta era molle, una liquirizia; il movimento delle mandibole era più lento e meditativo.
Il treno stava uscendo da una galleria e l’uomo disse qualcosa sulla bellezza di quelle colline con gli alberi appena in fiore. Era piacevole, viaggiare in quella stagione.
“Viaggia spesso?” chiese la donna giovane.
L’altra tacque a lungo. “A mio marito non piaceva viaggiare” disse.
“Doveva essere un uomo sedentario, abitudinario” commentò la ragazza.
“Come fa a dirlo?” domandò la donna anziana.
“Mi era parso. Da quello che ha detto lei” disse la giovane accettando questa volta di apparire sconcertata, e anche leggermente irritata da quella pervicace mancanza di collaborazione. “Io invece adoravo viaggiare. Lo facevo spesso, anche da sola. Quando tornavo gli raccontavo. Voleva sapere tutto, della gente, del clima, voleva che gli descrivessi la pianta della città, i cibi, pretendeva che gli raccontassi anche i sapori”.
La giovane rise, l’altra la guardò perplessa, come se non si aspettasse quella reazione, e continuò. “lo gli dicevo che se gli interessava tanto sapere poteva andarsele a vedere da sé, quelle cose; poteva viaggiare anche lui. Lui alzava le spalle e io mi arrabbiavo”.
Fece una pausa, e riprese. “Non viaggiava, ma era come se lo facesse perché ne sapeva più di me di tutti i posti del mondo. Studiava le enciclopedie, e le guide. E parlava della Turchia, o del Giappone come se ci fosse stato. Ricordava tutte le tappe dell’Orient Express. Descriveva gli effetti del sole a mezzanotte, a Capo Nord, e tutti i particolari rappresentati nelle storie dei mosaici di Piazza Armerina. Raccontava dei tram che si inerpicano e precipitano per le strade di San Francisco e come la baia comparisse e scomparisse improvvisamente. Parlava di un certo caffè nella piazza di Bruxelles, evocava a una a una le facciate piatte delle case che si affacciano sui canali di Bruges… E non era mai stato né in Belgio, né in America, né in Sicilia e quasi in nessun posto del mondo, ma era come se ci fosse stato. Ne parlava per ore, e non si accorgeva che sbadigliavo, non si fermava nemmeno quando gli facevo capire chiaramente che mi annoiava”.
Il giovane estrasse un’altra caramella.
Come mossa da un’associazione mentale che non aveva fatto in tempo a controllare la ragazza chiese: “Quando ha cominciato a infastidirla quello che lui faceva?”. Sembrò pentirsi di ciò che le era sfuggito, e intimorita da quanto poteva far trapelare. Ma lui stava scartando la caramella e l’altra non sembrò risentirsi per la domanda. Restò però silenziosa.
Cautamente la ragazza avanzò un’ipotesi: “Adesso lei lo farà spesso”.
“Che cosa?”. Sembrava lontana, distratta da una ricerca.
“Viaggiare. Farà dei viaggi, adesso che è sola”.
“Mai, non mi sono mai mossa, da allora. Salvo per necessità come in questo caso”.
“Spesso le donne rimaste sole viaggiano” disse la giovane. “Magari in compagnia di altre donne”.
“lo no. Non sopporto viaggiare, né sola né in compagnia”.
Entrò il controllore per verificare i biglietti. La signora dai capelli grigi informò che doveva pagare il supplemento rapido. Estrasse dal portafoglio una carta ben piegata. Prese il resto. Mise le monete in un borsellino a parte, con cura minuziosa ripiegò le carte, le collocò in scomparti diversi, a seconda del valore: in uno le diecimila, nell’altro le mille. Ripose portafoglio e borsellino in una borsa perfettamente ordinata, dove evidentemente ogni scomparto prevedeva e accoglieva sempre gli stessi oggetti. Collocò al suo posto, in una tasca interna della borsa, il cartoncino con le veline. […]
Il lavoro si è svolto in 3 fasi:
I fase: Ho dato da leggere a casa il brano. Il giorno seguente mi sono state fatte poche domande sul vocabolario.
II fase: Ho chiesto agli studenti di individuare nel testo i momenti in cui, a loro avviso, non c’era collaborazione tra i partner e quindi la negoziazione conversativa falliva. Il lavoro è stato svolto individualmente per circa 15 minuti. Poi gli studenti hanno, in coppie, confrontato i loro lavori ancora per 10 minuti.
III fase: Ho distribuito alla classe un estratto dell’articolo di R. Piazza a pagina 40 di Lend (op. cit.). Questa pagina comprendeva nella prima metà i momenti di non collaborazione fra i personaggi del brano, quindi era utile per controllare il lavoro già fatto, e nella seconda metà brevi considerazioni su “che cos’è la conversazione?” con sintetici rimandi all’opera su citata di Remo Zuccherini. La pagina viene qui riprodotta:
Questo breve racconto di Marina Mizzau intitolato “Dopo” (da I bambini non volano, Bompiani, Milano, 1992) potrebbe chiamarsi “Una collaborazione mancata: la conversazione di due donne su un treno”. La decisione di riportarne qui alcuni stralci è stata dettata dal fatto che il racconto illustra, con cura sottile, i passaggi di una conversazione che non è fluida, che non scorre, tra due interlocutori, uno dei quali ha deciso di non concedersi all’altro e di non collaborare. Lo scambio conversativo che la scrittrice crea nella finzione letteraria utilizza le tecniche della conversazione reale e ricorre alle deviazioni dal tema prescelto (“È importante che gli occhiali siano ben puliti. […] È molto fastidioso avere gli occhiali appannati”.), alle correzioni dirette di un messaggio (“Questo non è il punto. l…] Quello che contava per lui era che anche le mie fossero pulite”.), alle richieste di chiarimento che esprimono distacco ed estraneità (“Doveva essere un uomo comprensivo, tollerante” disse la giovane. “Tollerante?” rinviò con un sorriso ironica la donna anziana”.; e più avanti: “Cautamente la ragazza avanzò un’ipotesi “Adesso lei lo farà spesso”. “Che cosa?” Sembrava lontana, distratta da una ricerca”.) e infine alle precisazioni pedanti e alle contraddizioni scoperte (“Doveva essere un uomo sedentario, abitudinario” commentò la ragazza. “Come fa a dirlo?” domandò la donna anziana. “Mi era parso. Da quello che ha detto lei” disse la giovane accettando questa volta di apparire sconcertata, e anche leggermente irritata da quella pervicace mancanza di collaborazione”.)
Lo scambio conversativo riprodotto nella finzione del racconto della Mizzau servì a introdurre e quasi a definire, al negativo, il tema delle pagine che seguono, cioè la ” negoziazione”.
Attraverso alcuni campioni della recente produzione nel settore della linguistica applicata e della sociolinguistica, si vedrà come, se si assume la prospettiva della negoziazione, si possa guardare agli scambi conversativi e alle regole cui questi si attengono da un’ottica particolare e non solo genericamente conversazionale. In secondo luogo, l’insegnante che leggerà queste pagine potrà trovare dei suggerimenti di letture non ostiche né accademiche ma in genere piacevoli e abbordabili per documentarsi nel settore. Da queste potrà trarre vari spunti per condurre poi con gli studenti una riflessione sui meccanismi che strutturano la conversazione in italiano e in lingua straniera.
La conversazione che cos’è?
Il piacevolissimo volume di Remo Zuccherini Conversazione e interazione si pone l’obiettivo di evidenziare le difficoltà del tirocinio conversazionale del bambino e sottolineare che ogni apprendimento è basato, prima ancora che sui contenuti, sulla relazione tra chi insegna e chi apprende. Nella sezione che sintetizza le regole del parlato “interazionale”, in cui, più che sul passaggio delle informazioni (parlato con funzione “transazionale”), si pone l’accento sul rapporto interpersonale, il discorrere viene definito come “il più semplice e il più comune degli scambi comunicativi” (p. 39).
Malgrado questa natura di informalità e disimpegno, comunque, ogni conversazione deve sottostare a regole precise e rigorose, la cui esistenza è spesso ignorata dai parlanti e che vengono messe in atto solo grazie ad automatismi inconsapevoli. Regole, peraltro, che il più delle volte saltano all’occhio solo quando vengono infrante e violate.
Finita questa breve lettura si è aperta una simpatica discussione che ha coinvolto tutta la classe (20 minuti). Al di là della legittima soddisfazione di ognuno nel riscontrare l’esattezza di molti punti di non collaborazione individuati nella II fase, c’è stata una buona presa di coscienza del fatto che riflettere sul comportamento dei parlanti, su certe modalità di interazione, è molto utile, è anche “fare grammatica”. Non solo: è anche una forma di apprendimento.
Dico qui, per inciso, che l’esercitazione, durata due giorni, è stata svolta da un gruppo di 10 studenti del V livello, vale a dire dopo circa 350 ore di lezione. Ciò non significa che non si possa provare anche un tantino prima.
Un paio di riflessioni prima di chiudere. La prima è questa: i discenti si sentono molto gratificati quando gli viene affidato un tipo di lavoro, diciamo così, più concettuale, con attenzione per le modalità di interazione, i ruoli, le funzioni comunicative, tutto ciò che, insomma, costituisce la griglia sociolinguistica o psicolinguistica di un testo. Mentre vedevo lavorare i miei allievi capivo che si sentivano “importanti” nell’affrontare l’esercitazione assegnata. La seconda riflessione è piuttosto un mio recente convincimento: io penso che per uno straniero, affrontare lo studio dell’italiano senza mai toccare analiticamente l’area delle modalità dell’interazione, e la negoziazione conversativa è solo una delle tante, significa fermarsi all’anticamera della lingua, ammirare un mondo poliedrico, riccamente innervato dal punto di vista socioculturale, senza potervi veramente penetrare. Vuol dire, in sostanza, svolgere nei confronti della lingua un’attività di acquisizione contemplativa, senza “far parte”.
Chiudo questo mio intervento scusandomi di non poter sviluppare un discorso approfondito, casomai suffragato anche da apposita esercitazione, sull’altro tema, affrontato da Deborah Tannen nel suo lavoro del 1990 You Just Don’t Understand(op. cit.). Molto brevemente posso dire che il modo femminile e quello maschile di affrontare una conversazione vengono messi a confronto. Pare che le donne siano più abili nella negoziazione conversativa. Un altro punto trattato da Roberta Piazza nel suo articolo può essere così sintetizzato: un buon conversatore cerca sempre di non “perdere la faccia”, cioè di comportarsi in modo da non essere rifiutato dall’interlocutore. Ma vorrei affrontare in una delle prossime volte gli spunti offerti da queste letture. A presto!