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Perché è stato scelto il tema “la complessità” per questo convegno?

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Tempo fa… molto tempo fa, insegnavo inglese alla FAO, la Food and Agriculture Organization dell’ONU, qui a Roma. Alla fine di un corso “intensivo” (3 ore al giorno) di 4 settimane ho sottoposto la classe ad un test, una prova, come da programma. Un test normale, di profitto – conoscete il genere – del tipo “vediamo quanto di ciò che ti ho insegnato riesci a dimostrare di ricordare”, un test obiettivo: cioè il punteggio risultante non poteva essere condizionato dalla mia soggettività, dai miei pregiudizi; cioè il punteggio risultante era condizionato unicamente dalla soggettività, dai pregiudizi di chi ha scritto il test.

Fatto il test, mi recai all’aula insegnanti, contai le risposte giuste e calcolai il punteggio per ciascuno studente. Tutto a posto. Cominciai a scrivere i risultati nella colonna apposita nel registro di classe quando mi accorsi che, rispetto ai risultati del test somministrato a metà corso, i valori erano più bassi. Oddio! Come facevo a spiegare alla classe che, nonostante due settimane di esemplare impegno ed assiduità, erano andati indietro? Feci un rapido calcolo: se applicavo un aumento del 10% a ciascun punteggio il problema era risolto: cioè rimanevano delle differenze attendibili di merito fra uno studente e l’altro e, nello stesso tempo, nessuno risultava meno bravo di quant’era due settimane prima.

Cercai immediatamente la direttrice degli studi per spiegare il problema e per chiedere il suo permesso per l’applicazione dell’aumento del 10%. Avevo anche fatto un’analisi dei risultati per capire dove avevano sbagliato di più: avevano fatto confusione fra l’uso dei tempi Present Perfect (“I have written a letter”) e Past Simple.(“I wrote a letter”). La direttrice degli studi, con l’alta qualifica e competenza confacente alla sua posizione in tale istituzione, reagì alla mia proposta con una rettitudine morale che avrebbe fatto gioire la Regina Victoria stessa: “Non si manipolano i risultati dei test. Mai. Per nessun motivo.” Mi pareva sentire una banda militare suonare Rule Brittannia, Brittannia Rule the Waves. “Più sudditi come lei e non avremmo mai perso l’impero” pensai. “Sì, ma hanno fatto confusione fra l’uso del Present Perfect e il Past, questo problema non c’era nel primo test. Tu sai quanto me che anche studenti ad un livello altissimo fanno confusione con l’uso del Present Perfect.” Lei esitò un attimo guardandomi direttamente negli occhi: sapeva che era vero ciò che avevo appena detto. Un attimo soltanto. E poi la verità cedette alla Scienza. “L’uso del Present Perfect lo devono sapere.” e se ne andò.

In fondo anch’io sapevo che – scientificamente – il Present Perfect andava imparato al livello intermedio basso: cioè il livello della classe in questione. E scienza è scienza. È vero che in qualche dibattito all’epoca ci si domandava “L’insegnamento è arte o scienza?” e spesso la conclusione era “arte”, ma per insegnamento si intendeva il “come”, mai il “che cosa”. L’insegnante non scriveva programmi… o sillabi come qualcuno in Italia oggi insiste a chiamarli; essi venivano scritti invece da persone con sicuramente una buona preparazione scientifica. L’individuazione degli elementi e la loro messa in ordine dovevano rispondere a principi scientifici. Tutto questo lo sapevo.

Mi toccò lasciare inalterati i punteggi e me la cavai in classe con il vecchio trucco di scaricare la responsabilità sugli studenti: “la prossima volta dovete studiare di più”. “Eh, sì. Hai ragione: dovevamo studiare di più.” Nessuno mi criticò. La Scienza vinse di nuovo! Poveri studenti!

La Scienza, la Scienza: Che concetto rassicurante! Non siamo come i popoli primitivi: non siamo in balia della superstizione. All’epoca si poteva zittire l’avversario in una lite con quelle potentissime parole: “È scientificamente dimostrato che…” L’altro o gettava le armi o doveva cambiare radicalmente rotta e parlava per esempio del tuo carattere, tipo “Vedi come sei?” “Quanto sei inflessibile!”

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Mi ricordo un altro fatto che mi ha segnato, sempre negli anni settanta. Stavo a Torino dove insegnavo inglese all’International House. Arrivai in ritardo per una lezione e non l’avevo nemmeno preparata. Niente paura; basta consultare due cose: il registro di classe per vedere che cosa ho fatto la lezione precedente e il programma (l’elenco delle strutture sintattiche in ordine di crescente complessità) appeso alla parete come in ogni aula insegnanti che si rispettava all’epoca, per vedere quale struttura dovevo insegnare. Ecco fatto: devo insegnare il “conditional” (ossia il periodo ipotetico). Andai in classe e presentai la situazione di un incidente in macchina con i signori Brown che litigano su di chi è la colpa. Tipo:
Mrs. Brown: Se tu ti fossi fermato al semaforo rosso non saremmo andati addosso a quella macchina.
Mr. Brown: E se tu non mi avessi chiesto di indicare il negozio dove ho comprato la carne avrei visto il semaforo rosso.
Mrs. Brown: Beh, se avessi comprato la carne dal nostro solito macellaio non ti avrei chiesto di indicare il negozio dove l’hai comprata. ecc.

Insomma, la classe si divertì e, a forza di ripetere decine e decine di volte, imparò il periodo ipotetico.

Tornato nell’aula insegnanti per scrivere nel registro di classe il contenuto della lezione, mi accorsi, stupefatto, che avevo sbagliato struttura. Avrei dovuto insegnare il cosiddetto secondo conditional, tipo: “se vincessi la lotteria comprerei una Ferrari” e non il cosiddetto terzo conditional (ossia il periodo ipotetico passato). La classe, di livello basso intermedio, era pronta per imparare la struttura numero 150 dell’elenco delle strutture da insegnare. Invece le avevo insegnato la struttura numero 500. Tutti sapevano che il terzo conditional si doveva imparare ad un livello avanzato, non a un livello basso intermedio. La “scienza” ci aveva detto che l’ordine di apprendimento delle strutture sintattiche di una lingua va necessariamente dalla più semplice alla più complessa. La classe aveva fatto una cosa “scientificamente” impossibile: aveva partecipato alla lezione con il consueto entusiasmo e fiducia nell’operato dell’insegnante e, alla fine, aveva dato prova, come al solito, di saper ripetere senza sbagliare le frasi proposte, pur contenenti una struttura di una complessità enorme rispetto al livello in cui si trovava. Quella notte non dormii bene! Come poteva sbagliare così tanto la scienza?

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Non sapevo all’epoca che questa stessa visione della scienza, visione di una disciplina in cui regnava l’assoluta certezza, non era affatto condivisa da tutti coloro che stavano al suo interno. Non sapevo che noi eravamo reduci di una scolarizzazione in cui, per dirla con il sociolinguista Basil Berstein, il “mistero ultimo” di una materia viene tenuto nascosto al discente fino a quando non arrivi ai più alti livelli nella disciplina. Con “mistero ultimo” di una materia Bernstein intende la potenzialità di tale materia di creare nuove realtà. Secondo Bernstein il mistero ultimo è costituito non tanto dalla coerenza, ma piuttosto dall’incoerenza; non tanto dall’ordine, ma piuttosto dal disordine; non tanto dal noto, ma piuttosto dall’ignoto. Dice Bernstein: “Pochi arrivano ad essere consapevoli che il sapere è permeabile, che i suoi ordinamenti sono provvisori, che la dialettica del sapere è chiusura e apertura.”

Dieci anni dopo l’incidente alla FAO, mi trovavo alla casa di un amico a Roma e, mentre lui stava in cucina a preparare un caffè, ho visto su una sedia un libro intitolato “Chaos”. (Eccolo qui: l’amico me l’ha tirato fuori di nuovo in questi giorni.) Sapevo che il mio amico aveva qualche simpatia per gli anarchici ma non pensavo che avrebbe addirittura comprato un loro manifesto. Aprendo il libro, però, ho scoperto che, in realtà, non parlava di anarchia: si trattava, invece, di nientedimeno che la Scienza. Il libro raccontava che un numero sempre più grande di matematici, di fisici, di biologi, di chimici, già nei primi anni ’70, erano insoddisfatti della prassi, in uso nel ambito scientifico, di affermare delle Verità Scientifiche trascurando tutto quello che in natura non era ordinato (e non era poco!).

Io non ho la competenza per spiegarvi come lo studio del comportamento di un pendolo consentiva ai fisici di capire meglio la turbolenza, né come i frattali di Mandelbrot consentiva ai sismologi di capire meglio la struttura delle rocce. Ma ciò che mi colpiva leggendo questo libro è che la scienza non era quell’animale assolutista che ci avevano raccontato a scuola.

Oggi direi “Meno male”, altrimenti gli insegnanti di lingua prima o poi avrebbero voltato le spalle alla scienza, visto che l’evidente disordine della lingua e l’evidente disordine dell’apprendimento sembravano non riguardarla. Insomma, forse il colpevole non è la scienza in sé, bensì una certa idea di scienza, quella che la scuola diffondeva (e diffonde ancora?).

***

Tornando alle mie esperienze degli anni settanta, qualcuno mi dirà “va bene, ma le cose non sono più così; sono cambiate, da tempo ormai. L’editoria è piena di offerte di una varietà infinita. Nessuno crede più nel programma del tipo binario unico, uguale per tutti. Ormai si è capito che l’importante è garantire agli studenti una esperienza linguistica ricca: la possibilità di interagire con una ampia gamma di generi testuali, sia scritti che orali, mettere alla prova la propria interlingua in tutte le salse, e analizzare un’ampia gamma di fenomeni formali.”

Può darsi. Speriamo che sia così. Permettetemi però di avere qualche sospetto, almeno per quanto riguarda l’intellighenzia italiana. Al penultimo convegno ILSA, per esempio, è stato presentato il Sillabo di italiano L2. La professoressa Lo Duca inizia il suo intervento riconoscendo correttamente la necessità di spiegare che cosa intende lei per sillabo. Per fare capire a voi ciò che intende basterà qualche esempio:

  • il passato prossimo dei verbi regolari, dei verbi irregolari ad alta frequenza, dei verbi pronominali: forma, usi, funzioni.
  • la scelta dell’ausiliare nei tempi composti: forma del participio passato nei tempi composti
  • usi e funzioni dell’imperfetto indicativo: per descrivere il passato.

Tutto qui. Curiosa la mancanza di aggettivo attaccato alla parola sillabo. Conosciamo Situational Syllabuses, (uso il termine inglese visto che la parola sillabo viene da lì) Task-based Syllabuses, Notional-Functional Syllabuses, Procedural Syllabuses, Communicative Syllabuses, Content-based Syllabuses, e tanti altri. Ognuno di questi termini ci consente di conoscere il principio organizzativo del corso. Cioè io studente sarò accompagnato lungo un percorso riconoscibile: so che oggi stiamo lavorando su una certa procedura, per esempio, e domani lavoreremo su un’altra. Insomma il syllabus è la mappa delle esperienze che vivrò in classe.

È vero che Lo Duca contempla che in un programma ci possono essere cose di altra natura che non appaiono nel sillabo. Proviamo a dirne alcune, in ordine sparso. Alcune che vengono, oggi come oggi, per fortuna, prese sul serio da un certo numero di insegnanti:

  • lo sviluppo della facoltà di inferenza,
  • la capacità di negoziare significati ambigui,
  • la capacità di superare momenti di incomprensione nella conversazione,
  • la capacità di usare nella conversazione circonlocuzioni quando ci si trova a corto di parole, ·
  • la capacità di rivedere i propri scritti per migliorarli,
  • la capacità di trarre significati da un testo a prima vista incomprensibile,
  • lo sviluppo di una sensibilità osservatrice e analitica di fronte a un testo scritto.

Potrei continuare l’elenco ma dovrebbe essere sufficiente per dare l’idea di ciò che costituisce il sillabo, non sempre scritto, di un certo numero di corsi di oggi, per fortuna. Gli elementi qui del sillabo sono capacità comunicative e metalinguistiche. Quelli della Lo Duca sono punti grammaticali, come si usava durante l’approccio strutturale degli anni 50, 60 e primi anni settanta. Quando appunto si credeva che per far imparare un punto grammaticale bastava insegnarlo.

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Come è possibile che le cose stiano tornando indietro in Italia? Sarà perché le formule semplicistiche di Krashen esercitano paradossalmente un fascino sugli intellettuali italiani stanchi degli eccessivi astrazionismi alla italiana? Krashen sostiene che per garantire allo studente il progresso più rapido possibile basta esporlo ad i+1, dove i è il livello attuale dello studente ed i+1 è il passo successivo. Anche se raramente Krashen esplicita bene i termini di i ed i + 1, esaminando i pochi esempi che dà nei suoi libri ci si può rendere conto che ha in mente un sillabo di tipo grammaticale (per intenderci come nei miei due racconti alla FAO e a Torino e come quello alla Lo Duca). Secondo Krashen, se lo studente ha imparato l’elemento grammaticale numero 20, la condizione ideale per lui è ascoltare lingua contenente soltanto gli elementi grammaticali che conosce (qualsiasi combinazione degli elementi grammaticali dal numero 1 al numero 20) più alcuni esempi dell’elemento grammaticale numero 21. Certo, Krashen ammette che nell’applicazione pratica del principio non occorre un’eccessiva pignoleria (egli parla di “rough tuning” che in termini pratici significa che andrebbe bene qualche esempio di elementi grammaticali al di là del numero 21: non so, i numeri 22, 23, forse un esempio del numero 30), ma egli sostiene che comunque questo principio sia imprescindibile.

Se dovessimo prendere sul serio ciò che sostiene Krashen, priveremmo lo studente di quella esposizione linguistica ricca che un certo numero di insegnanti oggi garantiscono. E lo priveremmo inoltre della possibilità di affinare le sue capacità di percepire ordine in un campo disordinato.

Bisogna riconoscere che per Krashen l’ordine corretto degli elementi grammaticali non corrisponde all’ordine che si seguiva nel periodo dei miei racconti. Ha dichiarato con forza – e, a mio avviso, ha anche dimostrato – che l’ordine di acquisizione non corrisponde all’ordine dell’insegnamento. Se si fosse fermato lì dovremmo riconoscergli il merito di averci fatto aprire gli occhi e ammettere una grande verità. Cioè che insegnare una cosa non determina il suo apprendimento.

Forse alcuni insegnanti giovani in platea stanno pensando “Ma come? Dovevate aspettare che un esperto ve lo dicesse prima di accorgervi che insegnare una cosa non determina che venga imparata? Ma, è talmente ovvio a chiunque tenga aperti gli occhi!” Eh, avete ragione. Eravamo una generazione di insegnanti ben addestrati: la scienza, la psicologia ci diceva che se le cose erano state insegnate in ordine lo studente non doveva sbagliare. Se uno studente sbagliava una struttura era perché non era stata insegnata bene, cioè non l’avevamo fatta ripetere un numero sufficiente di volte. E quindi per sradicare lo sbaglio si ripartiva con le ripetizioni.

Krashen, invece, non si è fermato lì. Purtroppo si è messo in testa che esiste un ordine corretto: l’ordine naturale. Unico, e uguale per tutti. E qui cominciano i guai!

Se Krashen si fosse accontentato del concetto proposto da un altro studioso pochi anni prima, forse oggi ci troveremmo davanti un’altra situazione. Quest’altro studioso si chiama Corder. Il termine che conia lui è il “programma interno allo studente”, concetto a mio avviso di una importanza notevole, che lascia aperta la questione di eventuali similitudini fra uno studente ed un altro.

Devo parlare invece di Krashen perché sembra che sia la sua idea (che ci sia un ordine naturale, probabilmente uguale per tutti) e il desiderio di scoprire quale sia quest’ordine che hanno animato buona parte della ricerca sull’acquisizione della lingua seconda. O forse è più nei discorsi di chi commenta la ricerca che nei ricercatori stessi. Nel noto libro sull’acquisizione dell’italiano, Verso l’italiano, a cura di Anna Giacalone Ramat e pubblicato da Carocci, è vero che si trovano ricercatori desiderosi di indagare le relazioni intratestuali (esaminando per esempio l’uso delle ellissi e la deissi testuale), le relazioni fra testo e con-testo (esaminando per esempio le regole di appropriatezza pragmatica), i nessi fra le unità di contenuto degli enunciati del testo (distribuzione dell’informazione, progressione tematica, strutturazione in paragrafi, ecc), l’organizzazione del discorso dal punto di vista comunicativo (differenziazione in tipi e generi testuali).

Diverso, però, il sapore di chi scrive nella sezione “Applicazioni glottodidattiche” dello stesso libro: “faremo in modo da predisporre un input – vale a dire dati linguistici – adeguato all’obiettivo di volta in volta selezionato. (…) forse saremo costretti ad alterare i materiali autentici manipolando i dati in modo da rendere i tratti prescelti deliberatamente frequenti e salienti nell’input.” Sì, è la stessa Lo Duca, autrice del Sillabo di italiano L2, questa volta versione 2003. All’epoca attenuava le sue idee con un “forse”. Ora non è più necessario: il Sillabo è pubblicato.

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Insomma io dovevo dirvi perché ho scelto il tema della teoria della complessità per il convegno. Perché questo tema mi interessa? Io sono un insegnante di lingua. Sono quasi 40 anni che faccio l’insegnante di lingua. E sono convinto che l’apprendimento linguistico avvenga abbastanza rapidamente quando in classe c’è una ricca e abbondante quantità e varietà di lingua a disposizione degli studenti e gli stimoli per interagire con essa sono tanti e vari. Sono convinto, inoltre, che ogni studente sia unico. Uno degli aspetti di questa unicità ci interessa particolarmente in quanto insegnanti: il perché lo studente presta attenzione.

Le ragioni che lo inducono a tornare ad ascoltare una conversazione registrata per l’ennesima volta sono innumerevoli. Può essere sufficiente il tono di voce di uno dei parlanti nella registrazione. O lo può essere una risata inspiegabile. O un silenzio. O un ritmo ricorrente delle voci che gli fa pensare ad una fuga di Bach. O l’improvviso cambio di velocità delle voci. O una sillaba ricorrente. O l’argomento. O l’opinione di uno dei parlanti. O la simpatia del compagno con cui deve scambiare impressioni fra un ascolto della conversazione e il successivo. O la supponenza del compagno. O la pena del compagno. O la soddisfazione di sentire un aumento della propria comprensione. O il benessere fisico proveniente dalla penombra, la musica sottofondo e l’esercizio di rilassamento organizzati dall’insegnante per questa attività. O la cotta che ha per l’insegnante. O la voglia di vincere un punto contro la squadra avversaria. A mio avviso un fatto è certo: se lo studente ha voglia di tornare ad ascoltare la registrazione per l’ennesima volta, qualsiasi ne sia la causa, facendolo farà progressi notevoli. E questi progressi saranno di natura diversa da quella dei progressi dei suoi compagni.

Della teoria della complessità non so molto. È per questo che ho invitato degli esperti, tutti esperti del mondo dell’insegnamento, non necessariamente linguistico, peraltro, e ognuno tratterà la questione da un punto di vista ben diverso dagli altri. La mia speranza è che ognuno di noi, mettendo insieme i vari tasselli rappresentati da ciascun intervento possa crearsi una tela sufficientemente completa del concetto della Teoria della complessità per valutare se è sufficientemente robusta, se è sufficientemente pertinente, se è sufficientemente applicabile per fermare eventuali tendenze (reali o soltanto nella mia testa?) di tornare ad aule di lingua linguisticamente impoverite come erano tutte negli anni sessanta.

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In conclusione prendo in considerazione il principio espresso dalla curatrice del volume “Verso l’italiano”, Giacalone Ramat.

È ragionevole concludere che l’insegnamento di una lingua in ambito istituzionale avrà tante più possibilità di aver successo quanto più seguirà il processo naturale di acquisizione e non si porrà in conflitto con esso.

Chi potrebbe contestare un’affermazione del genere? Parole sacrosante. Una verità. Direi pure una verità lapalissiana. Non la si può contestare.

Lascia aperte, però, due questioni. La prima spero di averla in qualche modo trattata: quanti aspetti di questo processo sono io, in quanto insegnante o in quanto studioso, in grado di percepire? E l’altra è: il processo naturale di acquisizione è uguale per tutti? La risposta mia da semplice insegnante di inglese con quasi 40 anni di esperienza in classe è che il programma interno di ogni studente non può che essere diverso da ogni altro.

Ogni studente è alle prese con l’esprimere la sua unicità attraverso la nuova lingua. Il suo programma interno è suo. Non può essere confuso con quello di un altro. Mi ricordo un mio studente dopo che ha incontrato per la quinta volta la parola “actually”, consapevole del fatto che non avesse niente a che fare con “attualmente”, si è arrabbiato e mi ha dichiarato solennemente che non intendeva mai imparare questa parola. Anch’io sono studente di lingue (non particolarmente dotato mi dicono i miei colleghi alla Dilit) e alle prese con la lingua italiana mi faceva rabbia il passato remoto, un tempo assurdamente complicato che necessitava uno sforzo di memorizzazione che io, più o meno coscientemente, decisi di non intraprendere. In qualche modo avevo capito che potevo realizzarmi piacevolmente in Italia senza impararlo. E così è stato. Un’altra cosa: avrete notato che io la concordanza maschile femminile non la curo. Dopo trenta anni in Italia non riesco a prendere sul serio che i sostantivi di concetti inanimati devono essere considerati sessuati. Un altro al posto mio avrebbe definitivamente sistemato la faccenda nei primi mesi di studio.

Insomma un sillabo di punti discreti come quello proposto dalla Lo Duca, in nome del principio esplicitato dalla Giacalone Ramat e largamente accettato negli atenei italiani, potrebbe essere considerato semplicemente illusorio perché basato sul concetto contestabile che l’insegnamento causi l’apprendimento. La questione però, a mio avviso, non finisce qui. La diffusione di un sillabo del genere influenza le nostre percezioni. Il messaggio forte è: le cose che si trovano nel sillabo devono essere insegnate. Da qui il passo è breve: devono quindi essere imparate e tale apprendimento deve essere verificato. Eventuali altri aspetti delle competenze comunicative e metalinguistiche perdono visibilità, perdono prestigio, diventano puramente facoltative.

La mia speranza è che questo convegno possa contribuire a darci una visione delle cose tale da rendere difficile un ritorno ai tempi in cui i nostri direttori di studio potevano tagliare corto riflessioni non semplicistiche sulla competenza degli studenti con un “L’uso del present perfect lo devono sapere”.

Bibliografia

Bernstein, B. 1975 “On the Classification and Framing of Educational Knowledge” in Class, Codes and Control: Volume 3, Towards a Theory of Educational Transmissions, London e Boston, Routledge and Kegan Paul.
Corder, S. Pit, 1967 “The significance of learners’ errors” in International Review of Applied Linguistics, Volume V N° 4, e riprodotto in Corder S. Pit 1981.
Corder, S. Pit, 1981 Error Analysis and Interlanguage, Oxford: Oxford University Press. p. 9.
Krashen, S. 1985, The Input Hypothesis, New York: Longman.
Lo Duca, M. G. 2006 Sillabo di italiano L2, Roma: Carocci.
Giacalone Ramat, Anna, (a cura di) 2003, Verso l’italiano, Roma: Carocci.