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Una pratica coerente

Una pratica coerente. Coerente con che cosa? Con la teoria, naturalmente. Ma come esplicitare la teoria? Una teoria non è mai descrivibile in termini assoluti. Una teoria nasce per correggere la teoria precedente, la quale non soddisfa più. Precedente in assoluto? No, precedente per chi cerca e/o sviluppa una nuova teoria. Ciò che è precedente per me non lo è per un altro. Passiamo ad un esempio.

Mi trovo in vacanza a Cuba, ospite di una famiglia molto disponibile. Quando il padrone di casa viene a sapere che sto cercando un corso di spagnolo mi parla di sua sorella laureata in lettere. L’indomani fa sì che io possa parlare con lei. Scopro che lei lavora come caporedattrice di un piccolo periodico distribuito tra gli addetti al lavoro del settore turismo e ha qualche carica di insegnamento inerente al turismo in una scuola alberghiera. Non ha mai insegnato lo spagnolo ma, se io voglio, vorrebbe provare.

Abbiamo parlato per un paio di ore di come sarebbero state queste lezioni. Un incontro fra due storie diverse. Lei capiva che doveva trovare modi efficaci per insegnarmi i verbi irregolari – avrebbe chiesto aiuto ad una sua amica che insegna spagnolo. Già si prometteva di scrivere un elenco di frasi in cui mancava il verbo e io avrei dovuto completare le frasi. Per essere più efficace i verbi trattati in questo modo sarebbero stati quelli più difficili.

Questa persona mi era molto simpatica ed era evidentemente diligente ed entusiasta di intraprendere questa esperienza di insegnamento con me. Solo che io non volevo assolutamente il tipo di lezione che lei aveva in testa. Ma come potevo spiegarle ciò che avevo in testa io, ciò di cui si può avere un’idea approssimativa partecipando per 150 ore ad un corso di formazione nella nostra scuola e leggendo tutti i cento articoli che ho scritto, nonché i dieci libri che ho firmato. (Naturalmente di tutto ciò non ho detto niente alla mia futura insegnante: ero ben consapevole che si sarebbe spaventata ed avrebbe rifiutato l’incarico. Lei sapeva che ero un semplice insegnante di inglese e basta.)

Insomma, nel reciproco sforzo di capirci siamo arrivati alla seguente formulazione programmatica – semplice ma perfettamente efficace: “molta pratica e poco insegnamento”. All’inizio non le era facile accettarla – le sembrava di rubare soldi – ma dopo un po’ di giorni (facevamo 2 ore al giorno) ci prendeva gusto perché vedeva risultati per lei sorprendenti. Alla fine ne era diventata molto entusiasta e voleva cercare quanto prima altre occasioni per insegnare lo spagnolo. Per la cronaca devo dire che per me è stato il migliore corso di lingua che ho mai frequentato!

Però la cosa più interessante dal punto di vista del tema di questo articolo è che la mia maestra mi ha detto – poi l’ha ribadito in una lettera di fine corso – che la vera rivoluzione per lei è stata che io avevo proposto all’inizio di darci del tu. Lei, a quel tempo, aveva accettato la proposta non completamente convinta, ma ora sostiene che è stato proprio il darci del tu che ha profondamente influito sulla qualità della comunicazione fra di noi e quindi sul successo del corso.

Vediamo un altro esempio completamente diverso. Il mio primo corso di spagnolo è stato in una prestigiosa scuola privata di lingua in Spagna. Veniva adottato un cosiddetto approccio “comunicativo”. L’insegnante era simpatica e diligente. Andavamo volentieri in classe – tutti sempre puntuali. L’atmosfera era calorosa e il lavoro era vario. Ho certamente imparato molto spagnolo in questo periodo, ma anche e soprattutto grazie ai “correttivi” che facevo nel mio tempo libero. Un gruppo di noi, per esempio, si autoimponeva l’uso esclusivo dello spagnolo fra di noi durante le pause e i pranzi. Io, poi, mi organizzavo frequenti scambi di conversazioni inglese-spagnolo con diverse persone spagnole, leggevo il giornale ogni giorno, registravo le notizie dalla televisione e poi le riascoltavo tante volte di seguito. Tutte attività che dovrebbero appartenere ad un approccio comunicativo, diranno molti lettori.

Che cosa succedeva in classe, allora? Il programma – mascherato – era in realtà basato su una sequenza di strutture sintattiche. La principale differenza con un approccio esplicitamente “strutturale” era il trattamento degli errori. Venivano corretti solo qualche volta, in un modo, direi oggi, puramente arbitrario. Ho l’impressione che per l’insegnante (come d’altronde per non pochi altri) adottare un approccio comunicativo significava semplicemente creare un’atmosfera simpatica e essere “tollerante” verso gli errori. C’erano momenti in cui dovevamo parlare in coppie o in piccoli gruppi; a volte ci è stato richiesto di discutere con tutta la classe le nostre idee, sull’immigrazione per esempio; qualche volta dovevamo alzarci e muoverci nell’aula alla ricerca di “qualcuno che…” . Ma tutte queste cose mi avevano insegnato a organizzarle in classe nel lontano 1970 in piena epoca “strutturale”, quando cioè ogni lezione consisteva nella presentazione, l’esercitazione controllata e la pratica più libera di una particolare struttura sintattica.

Ho omesso di menzionare un aspetto importante presente nelle lezioni “comunicative” che certamente mancava alle mie vecchie lezioni “strutturali”: il divario di informazione. Nell’epoca “strutturale” quando uno studente faceva una domanda o già sapeva la risposta o/e non gli importava di saperla: si facevano domande per esercitarle e basta. Mi ricordo, invece, un momento in classe in Spagna che mi è piaciuto molto. Per introdurre l’attività l’insegnante, con la nostra collaborazione (tecnica che qualche collega, avendo seguito uno stage di aggiornamento in Inghilterra, chiama pedissequamente “elicitazione”), ha scritto alla lavagna una serie di domande utili per conoscere una persona, quali “Di dove sei?”, “Quanti anni hai?”, “Che lavoro fai?” ecc.. Poi ci ha invitato a conoscere la persona accanto. Con la mia compagna ho preso l’iniziativa e ho detto “Chi sei?”. Lei, divertita dalla domanda, ha cominciato a raccontarsi e ho cominciato a scoprire che era una olandese con una storia personale interessantissima. Dopo solo dieci minuti l’insegnante ci ha interrotto tutti e ha chiesto ad ognuno di riferirle ciò che aveva scoperto del compagno. Ognuno ha rivelato i dati anagrafici del compagno e abbiamo tutti ascoltato educatamente. Quando toccava a me ho lottato con il mio limitato spagnolo per spiegare il mio entusiasmo circa l’unicità della mia compagna. Certe cose sono riuscito a dirle ed ero nel pieno del racconto quando l’insegnante mi ha garbatamente tolto la parola perché – democraticamente – voleva che ognuno avesse pari tempo per parlare. La parola è passata alla mia compagna, la quale ha confessato che di me non sapeva niente. È stata simpaticamente rimproverata e la parola è passata al prossimo.

Insomma, qual è il problema? Semplicemente che nella formazione di questa insegnante – e di tantissimi altri formati negli ultimi anni – mancavano due cose: la consapevolezza che lingua è “negoziazione di significati” e che ogni persona è unica. Con queste consapevolezze l’organizzazione del tempo sarebbe stata diversa. L’insegnante avrebbe previsto non 10 minuti per conoscere il compagno, bensì almeno tre quarti d’ora. Chi aveva cominciato con le domande “anagrafiche”, vedendo che l’insegnante non intendeva riprendere le redini, avrebbe provato ad andare oltre e avrebbe cominciato a scoprire aspetti meno banali della persona accanto e avrebbe cominciato a lottare con il proprio limitato spagnolo per scoprirne altri. Forse l’insegnante non l’ha fatto perché ci sarebbe voluto troppo tempo per poi chiedere a tutti di riferire così tante informazioni all’insegnante. Questa prassi – l’obbligo del cosiddetto “feedback” – è un altro aspetto della formazione di tanti insegnanti odierni che andrebbe visto per quello che è: una semplice perdita di tempo!

Passiamo ad un altro esempio. Sto parlando con una ventina di aspiranti professori di inglese nell’ambito di un corso post-laurea di scienze della formazione a Pisa. Il tema che stiamo trattando è l’Analisi degli errori. Hanno studiato e sono ansiosi di dimostrare di sapere che gli errori non vanno più considerati, come una volta, una cosa negativa, bensì come un fenomeno molto interessante che possa aiutare l’insegnante a capire come è fatta l’interlingua di uno studente. Parole audaci. Molti sostenevano che in un corso di inglese alla scuola pubblica ci devono essere molte occasioni in cui gli studenti parlino liberamente. Parole audaci. Ma in pratica, chiedevo, che cosa bisogna fare? Tutti d’accordo che interrompere uno studente per correggerlo mentre sta parlando può inibirlo. La tecnica che hanno proposto era di appuntare gli errori in silenzio e discuterli con la classe in seguito. Nessuno ha notato la contraddizione con ciò che avevano affermato prima. Prima avevano detto che gli errori non erano negativi e ora rivelavano invece che li consideravano negativi; l’unica novità si risiedeva in una tattica di correzione meno inibente. Ma comunque andavano corretti. Per fortuna avevo già dimostrato che l’effetto della presenza di una persona che si occupava degli errori era un radicale abbassamento della qualità e della quantità del parlato. (Mentre stavano discutendo animatamente in gruppi, in inglese, su che cos’è l’Analisi degli errori, avevo mandato un osservatore in ogni gruppo con il compito di scrivere tutti gli errori d’inglese che sentiva. Il risultato era chiarissimo: il volume di voci si è abbassato fortemente, poche persone continuavano a parlare, un gruppo ha addirittura dichiarato di aver già finito!)

Conclusioni

Quand’è, allora, che un corso di lingua andrebbe modificato? Rivediamo i vari esempi dati. Prima di tutto bisognerebbe cambiare i corsi in cui l’insegnante non si fa dare del tu. Darsi del tu non è una questione semplicemente formale: segnala l’intenzione di un certo tipo di rapporto; segnala un certo tipo di consapevolezza. Il buon insegnamento va fino in fondo: si basa sulla consapevolezza del fatto che “tu mio studente sei intelligente quanto me insegnante”. Quanti insegnanti inconsapevolmente considerano gli studenti meno capaci di loro di usare il cervello? Quanti insegnanti confondono una bassa competenza nella lingua straniera (o nella materia che viene studiata) con una bassa intelligenza? Il buon insegnante è un ricercatore (non smette di cercare modi migliori di operare in classe e informazioni migliori sulla lingua che insegna) e vede lo studente come un suo simile, un ricercatore (che non smette di cercare modi migliori per esprimere i suoi pensieri e per capire quelli degli altri). Darsi del tu significa non porsi in un rapporto gerarchico. In altri termini un buon insegnante non corregge quando lo studente si sta esprimendo. Correggere è darsi del lei (anche se formalmente viene dato del tu!). Correggere significa che decido io insegnante, quando voglio io, di dire a te studente dove hai sbagliato (e solo quegli sbagli che decido io sono importanti in questo momento). Quanta energia sarebbe liberata nelle classi di lingua se tutti gli insegnanti capissero questo semplice principio!

Secondo principio: “molta pratica e poco insegnamento”. Nella maggior parte delle classi ci sono dei momenti in cui si fa grammatica e ci sono altri momenti in cui si parla, si ascolta, si legge e si scrive liberamente. Se il tempo dedicato al primo è maggiore del tempo dedicato alla “pratica” è inevitabile che lo studente debba ricorrere alla sola memoria mnemonica per cercare di dimostrare all’insegnante e a se stesso che ha imparato qualcosa. La vera acquisizione linguistica avviene invece mentre l’attenzione del discente è focalizzata sui significati, mentre cioè sta parlando o scrivendo liberamente e mentre sta leggendo o ascoltando lingua autentica, cercando di capire qualcosa. Per valutare un corso da questo punto di vista basta vedere il registro delle lezioni fatte e contare i minuti. Se il tempo dedicato ad attività che favoriscono l’acquisizione non è almeno il 50% il corso è sicuramente poco efficace.

Terzo principio: quanto più devo negoziare significati tanto più sviluppo la mia interlingua. A parità di altre cose più tempo passa in comunicazione con un altro più aumenta la probabilità di voler, e quindi dover, negoziare significati sottili. Due studenti che si devono confrontare su ciò che hanno capito da una registrazione audio, per esempio, si trovano d’accordo molto facilmente. E tanti insegnanti sono contenti. Tanti insegnanti addirittura promuovono l’illusione in classe che “siamo tutti d’accordo su tutto”. È bandita la dissidenza: esistono valori universali con le quali dobbiamo essere tutti d’accordo. La classe di lingua è come gran parte della televisione: largo spazio ai luoghi comuni, al buonismo, alla superficialità. Un buon insegnamento secondo me, invece, parte dall’idea che se ci sono 15 studenti e un insegnante in classe, ci sono 16 percezioni del mondo diverse. Questa diversità va considerata positiva; non va nascosta, anzi, bisogna sfruttare ogni occasione per far sì che venga sentita. È proprio quando io studente sento che una cosa che per me è ovvia non lo è per un altro che sono motivato a parlare e a cercare di farmi capire dall’altro. Il fattore che influisce più di qualunque altro su questo aspetto è il tempo. Se le comunicazioni con un altro studente sono brevi la probabilità che io vengo a sapere che lui vede cose diverse da ciò che vedo io è bassissima. Più tempo parliamo di qualcosa più probabilità c’è che ci accorgiamo delle nostre differenze. Un buon insegnamento prevede almeno 45 minuti per ogni produzione libera orale in coppie.

Quarto principio: correggere in un modo “soft”, “democratico”, “umanistico” è un modo subdolo di tenere subordinato il discente al docente. Meglio l’insegnante tradizionale: almeno c’è trasparenza, si sa che lui è il giudice cattivo, si sa che è il nemico e come difendersi da lui. Con quell’altro insegnante, invece, quello che magari si considera moderno, non si sa quando arriverà la censura, si vive nell’insicurezza permanente. Magari lui non corregge per niente per un bel po’ di tempo e, proprio quando lo studente pensa che non ci siano più pericoli, e quindi si lancia con maggior coraggio, l’insegnante lo riprende davanti a tutti! Insomma un insegnamento corretto, secondo me, deve tenere totalmente separati i momenti in cui l’attenzione è focalizzata sulle forme dai momenti in cui l’attenzione è focalizzata sui significati.