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Il corpo parlante

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Credo che una delle affermazioni più frequenti che sentiamo fare agli stranieri che visitano il nostro paese, è quella per cui gli italiani “parlano con le mani e con il corpo” e immagino che nessuna delle persone che ha partecipato all’ultimo Seminario Internazionale si sentirebbe di contraddire questa affermazione – pur con tutte le precisazioni del caso sulle differenze tra nord e sud, tra nuove e vecchie generazioni e via discorrendo. Eppure non pochi sono stati i dubbi, le obiezioni, in un caso la quasi ostilità, di fronte alla proposta avanzata nel laboratorio tenuto da Luisa, Letizia e da me che cercava di mettere l’attenzione su tutta quella parte della comunicazione che non passa attraverso parole, frasi, fonologia  e su quella che  ci sembrava e ancora oggi ci sembra essere una ben strana contraddizione per insegnanti che, come noi, hanno la pretesa di utilizzare un “approccio comunicativo”: l’esclusione della comunicazione non verbale dalle nostre lezioni (a parte qualche passaggio a volo di uccello su quella manciata di gesti che, alla fine, rischiano di essere il momento rilassante e amenamente folcloristico) e il sempre troppo limitato spazio dedicato al paraverbale, che è qualcosa di più della fonologia.

Nonostante quello che qualcuno/a dei/delle partecipanti al seminario può aver pensato, le mie due colleghe ed io non abbiamo affatto inteso dare soluzioni alla contraddizione che ci ha portato in un campo così poco sperimentato e così difficile da affrontare, e la mia scelta di provare a dare una risposta alle critiche, alle obiezioni, ai dubbi (ovviamente per quello che io ricordo) viene dalla consapevolezza che, affrontarli significa, prima di tutto, riflettere e provare a chiarire le mie di idee.

Tra nord e sud d’Italia ci sono già delle differenze forti nella comunicazione corporea e nella gestualità. Su quale ci dovremmo basare?

Incontestabile l’affermazione. Un po’ meno il dubbio.

Intanto, nonostante le differenze, direi che dall’Unità d’Italia ad oggi, nessuno possa contestare che fenomeni migratori, scuola dell’obbligo, mezzi di comunicazione di massa abbiano avvicinato – per non dire in qualche caso omologato – aree distanti tra loro per spazio e per cultura.

Inoltre questo tipo di problema si pone per la gestualità come per qualsiasi materiale autentico: non esiste nessuna registrazione per l’Ascolto autentico in cui le persone che parlano – pur in italiano correttissimo – non abbiano pronunce, intonazioni, ritmi, a volte modi di dire che ne denunciano l’area di provenienza. E noi non solo li proponiamo come lavoro sulla comprensione, ma facciamo anche analizzare quando non ricostruire pezzi di questi testi. Un esempio per tutti. In “Comunicare meglio” c’è questo dialogo che gli studenti, con l’aiuto dell’insegnante, devono ricostruire:

T:  Io, quando la conobbi, credevo che avesse diciott’anni, e invece poi scoprii… scoprii! Poi, quando glielo chiesi, mi disse che ne aveva quattordici. Io già avevo ventiquattro anni.

L:  Ci sono dieci anni di differenza.

T:  Sì. Ma… Siccome effettivamente mi piaceva; perché in effetti non… Io non credo affatto che possa nascere l’amore, così, improvviso. Cioè, mi piaceva: mi piaceva, logicamente, l’aspetto fisico. Non poteva piacermi altro, perché non la conoscevo. Penso che per lei era la stessa cosa.

Ora, credo che sia assolutamente incontestabile che sarebbe quantomeno poco probabile questa sovrabbondanza di passati remoti da parte di un milanese. E, infatti la persona che parla è siciliana e, nel suo italiano si riversa una caratteristica tipica dei dialetti meridionali. C’è qualcuno disposto ad affermare che questo testo non vada analizzato e ricostruito perché la frequenza d’uso di questo tempo verbale non è generalizzabile a tutto il nostro paese dalle Alpi a Capo Passero?

Non vogliamo fare degli studenti delle scimmie ammaestrate

Assolutamente d’accordo. Ma perché lo stesso dubbio non ci viene quando imponiamo loro di ripetere le parole che qualcun altro ha detto, curando che la pronuncia, il ritmo, l’intonazione siano quelli che il testo impone? Forse perché la parola è comunque umana, mentre il movimento corporeo, l’espressione facciale, la distanza con l’altro ci sembrano appartenere di più alla nostra parte “animale”?

Scusate la piccola provocazione, ma io ho la sensazione che, ogni volta che si spazia in un campo da noi poco conosciuto, in cui ci sentiamo meno sicuri e la cui gestione richiede di metterci in gioco ad un livello diverso da quello a cui siamo abituati come insegnanti, improvvisamente ci si scatena dentro un rispetto per la cultura e la personalità e le crisi possibili che possiamo provocare nei nostri studenti, che è quantomeno sospetto.

Cerchiamo di capirci. Non è mia intenzione acchiappare una persona che viene dall’altra parte del mondo, che ha la sua storia personale e la sua cultura e obbligarla a modellarsi su una ipotetica e paradigmatica italianità, operando una specie di accanimento terapeutico che dovrebbe farla diventare una fotocopia di non si sa bene cosa. Però è anche vero che imparare una nuova lingua significa in qualche modo, uscire dai modelli a cui siamo abituati e confrontarsi con altre possibilità di esprimersi, di pensare e di comunicare e “… il fatto che l’uomo tenda ad affrontare le nuove situazioni basandosi su esperienze pregresse e che, di conseguenza, utilizzi modalità altrettanto pregresse e radicate, non significa che non possa sperimentarne di nuove.”. Allora il vero problema, per me almeno, è creare una situazione di fiducia con gli studenti, tale da permettermi, con la più grande delicatezza possibile, di richiedere loro di intraprendere una strada che porta alla consapevolezza che nella cultura di cui studiano la lingua, esiste un linguaggio corporeo culturalmente codificato, che non è scindibile non solo dalle parole e dai toni e dal ritmo, ma che esercita un’influenza decisiva nella possibilità di stabilire il rapporto con l’altro. Qualcuno dei miei colleghi ha affermato: …”io sono contento se un giapponese (al primo livello, immagino) sa chiedere in modo corretto “vorrei un caffè”.” Anch’io sono contenta. Sarei però ancora più contenta se in un bar italiano riuscisse anche a prenderlo prima delle altre sei persone che sono dietro di lui e prima della sua decadenza fisica, per cui dovrebbe esserci una situazione in cui va sperimentato un certo volume della voce a cui forse non è abituato, una certa modalità posturale maggiormente efficace di quella da lui o da lei tenuta (e che in Giappone funziona alla perfezione).

Una delle mie colleghe ha fatto ad un certo punto questo esempio: qualche giorno prima un suo studente – non so di quale nazionalità – le ha detto di aver visto un italiano fare il gesto tipico di chi sta comunicando: “Me ne vado” o “Ce ne andiamo?”, ma il modo in cui lo studente ha ripetuto il gesto – ce lo ha fatto vedere provocando una certa ilarità tra presenti – era assolutamente improprio. Commento della collega: “Figlio mio se lo devi fare così, è meglio che non lo fai!”. Confesso che la cosa mi ha lasciata assolutamente stupefatta. Dunque, cerchiamo di analizzare la situazione: c’è una persona che sta apprendendo l’italiano, che non gira per Roma solo fotografando i monumenti, ma osserva la gente che lo circonda e cerca di fare tesoro di quello che vede, deducendo intelligentemente che il gesto che gli è capitato sotto gli occhi deve avere un significato specifico. Arricchisce la nostra lezione con la sua domanda, ma fa l'”errore” di ripetere goffamente ciò che ha visto. Se a me, insegnante, passa per la testa il commento della mia collega, con quale serietà risponderò alla sua domanda? E se invece di un gesto fossero state parole che lui ha sentito e che riporta “storpiandole”? Quali sono le possibili conseguenze di un atteggiamento del genere se lo estendo a tutte quelle situazioni in cui lo studente è impreciso?

Allora, noi ci preoccupiamo, giustamente, di non farli diventare scimmie ammaestrate, ma, scusate la cattiveria, siamo i primi che rischiamo di vederli come piccoli e buffi animaletti incolti da ridicolizzare, più o meno esplicitamente, quando ci capita.

Quando andiamo in un campo come quello del movimento rischiamo di entrare in una sfera emozionale, e quindi molto personale, in cui il rischio di violentare la personalità dello studente è molto alto

Credo che questa sia, almeno per me lo è, l’obiezione ed il dubbio più serio perché è assolutamente vero, e la mia esperienza più che decennale di lavoro corporeo me lo conferma, che attivare parti del corpo ha come conseguenza la possibilità di far venire fuori percezioni ed emozioni che possono essere fortissime. Dunque è necessario fare grande attenzione quando si entra in questo campo, bisogna avere grande rispetto per le difficoltà che praticamente tutti abbiamo ad entrare in un territorio che la nostra cultura e la nostra storia personale determina in modo così profondo. Credo che, ancora una volta alla base di qualsiasi possibilità di affrontare in classe un lavoro in questo campo, ci debba essere la nostra capacità come docenti di creare un clima di fiducia che permetta allo studente di sentirsi “protetto” e tranquillo tanto da poter pian piano, entrare nella giungla di una comunicazione più difficile, ma sicuramente più profonda e più efficace.

Non a caso ho utilizzato la parola docente perché penso che noi siamo una sorta di “guida” che possa permettere di affrontare, in modo più sicuro, l’entrata in un mondo talmente diverso da quello da cui uno studente viene, da risultare, in molti casi alieno. Credo anche però che chiunque attraversi un pezzetto di mondo per imparare una nuova lingua sia, almeno in parte, una persona curiosa e che faccia parte del nostro lavoro il renderla consapevole che la scelta che ha fatto implica l’uscire dai propri modelli e confrontarsi con altre possibilità di comunicare e di esprimere se stessi, lasciando naturalmente ad ognuno la libertà di decidere in che modo rapportarsi a tutto questo, ma non illudendoli che questa nuova esperienza non necessiti di una esplorazione che va ben al di là di articoli, ipotetiche, concordanze e buona pronuncia.

Il nodo del problema

Dunque, a questo punto, per me siamo arrivati un po’ al vero nodo del problema che non è il “se” ma il “come” fare questo tipo di lavoro.

Mi sembra di ricordare che tutti fossimo più o meno d’accordo sulla possibilità di fare una analisi della comunicazione non verbale attraverso l’uso del video. E qui il vero cruccio è il materiale autentico che anche noi non abbiamo trovato, vedendoci costrette ad affidarci ad un film. Una proposta possibile, tanto per cominciare, potrebbe essere quella di piazzare una telecamera durante una cena tra amici, o di bighellonare per la città riprendendo la gente. Crearci insomma un po’ di materiale che non sia solo televisivo, anche se ci sono trasmissioni che, pur nella loro infinita idiozia, potrebbero esserci utili.

Dal punto di vista dell’analisi potremmo partire dalla riflessione su che cosa comunica ad i nostri studenti quella certa gestualità e se sembra loro abbastanza efficace rispetto al tipo di relazione che c’è tra le persone coinvolte nel dialogo e all’obiettivo che loro – gli studenti – pensano abbiano le persone che agiscono nella conversazione.

Un livello più raffinato di analisi potrebbe essere quello di stabilire cosa significano i gesti che vengono utilizzati e se il messaggio non verbale è uguale a quello espresso con le parole dando agli studenti una sorta di scheda, nella quale abbinare il gesto alla funzione comunicativa descritta nella scheda.

Ma io sono assolutamente convinta che anche moltissime attività che riguardano la grammatica della lingua parlata (Ricostruzione di conversazioneCostruzione di conversazione, ad esempio), debbano essere accompagnate da una maggiore attenzione alla modalità corporea, ai toni di voce, alla distanza fisica che si mette fra se stessi e l’interlocutore.

Se comunicare bene significa sviluppare relazioni efficaci e positive, allora fare analisi della lingua significa, inevitabilmente fare analisi della comunicazione e, purtroppo per noi insegnanti, ci sono delle piccole cose che non possono essere dimenticate (almeno seguendo Watzlavick):

1)    che in ogni scambio comunicativo si evidenziano due aspetti: il primo è l’aspetto del contenuto (notizia), ovvero il “che cosa” viene detto, l’informazione trasmessa; il secondo è l’aspetto di relazione (comando), ovvero il “come” viene detto. Quest’ultimo si riferisce all’insieme dei segnali non verbali che indicano all’altra parte (il ricevente) come interpretare il contenuto trasmesso (notizia).

2)    Che la semplice notizia, la mera informazione, se non è supportata dall’incisività dei messaggi metacomunicazionali (paraverbale e non verbale), ha di per sé un basso potere di influenzamento all’interno della relazione: solo il 7%. Mentre il canale paraverbale la influenza per il 38% e quello non verbale addirittura per il 55%.

3)    Che leggere ed utilizzare in modo appropriato i segnali extraverbali consente dunque, di riuscire a cogliere ed a trasmettere più sfumature, permettendo una più adeguata risposta e dandoci la possibilità di comunicare efficacemente ciò che realmente vogliamo.

Certo, non ci sono sicurezze assolute in questo campo, non avremo il supporto di autorità riconosciute che ci indicano la risposta esatta, con facili schemi entro cui ingabbiare la comunicazione, come spesso avviene con la lingua pura e semplice nelle grammatiche. Forse avremo più bisogno di confrontarci con i nostri colleghi per dare ad i nostri studenti risposte che non siano solo soggettive. All’inizio saremo insicuri, imprecisi e dovremo accettare di non elargire quelle verità assolute che spesso i nostri studenti bramano e che ci tranquillizzano.

Pensiamo però a quanto mondo ci si apre, pensiamo a quanto più ricche, interessanti, divertenti – anche per noi – possono essere le nostre lezioni ed a quante nuove attività si potrebbero inventare, capaci di farci uscire dalla routine quotidiana tanto rassicurante per tutti ma altrettanto distruttiva.

Un collega, alla fine del laboratorio, ci ha detto, con aria rassegnata e divertita: “Grazie per avermi messo in testa un altro dubbio ed un altro problema!”. Era, in fondo, quello che volevamo: non rimanere sole nei nostri dubbi e nei nostri interrogativi. Sappiamo almeno di essere, ora, in buona compagnia. Perciò, il grazie è a voi.