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Quale centralità?

Vorrei cominciare ponendo delle domande. Al fine di realizzare l’apprendimento di una lingua, chi è che, in una classe, decide le strategie di studio? Chi è che programma le attività di un corso? Chi sa cosa è meglio fare in un dato momento? Chi decide se c’è bisogno di una lettura, di un ascolto, di vedere un film, di parlare, fare grammatica o andare a far spese al mercato? Chi decide quale brano si debba ascoltare, per quante volte, con quale modalità, con che frequenza?

Fino ad oggi la risposta è sempre stata: “l’insegnante”. Questa certezza tuttavia nel corso dei lavori dell’ultimo Seminario Internazionale è entrata in discussione di fronte alla domanda:

Chi, in una classe, deve essere al centro del processo di apprendimento?

Fin da quando è stato deciso il tema per il seminario di quest’anno ci siamo a lungo interrogati su cosa indicasse la parola “centralità”, argomento su cui è risultato veramente problematico reperire una seppur minima storia bibliografica. Nei nostri stessi scambi di idee ci siamo più volte resi conto che davamo per scontata un’opinione comune sul suo significato ma quando abbiamo provato a esplicitare quello che era nelle nostre menti ci siamo accorti che avevamo idee differenti, a volte contrastanti.

Durante i laboratori pratici poi le discussioni con colleghi provenienti da tutto il mondo hanno confermato in me quel senso di leggero disagio che avevo provato durante la preparazione, al punto che ho avuto a volte l’impressione che si stessero considerando due cose diverse pur sembrando che si parlasse della stessa.

Proverò a dire la mia idea mettendo le mani avanti, perché non sento la competenza di spiegare a colleghi più illustri di me in maniera obbiettiva cosa si debba intendere per centralità. Queste riflessioni vengono da una sorta di stato confusionale, per cui invito chiunque a contraddirmi per aprire magari un dibattito che mi sembra quanto mai auspicabile per problematizzare l’argomento.

Per tutto il Seminario ho avuto l’impressione che si siano fatte largo non una ma due opinioni, entrambe riconducibili al termine “centralità”:

Si raggiunge la centralità del discente quando quest’ultimo è messo nelle condizioni di essere responsabile in prima persona di quello che accade in classe e gli vengono forniti gli strumenti per divenire in grado di scegliere le strategie di apprendimento a lui più consone.

Si raggiunge la centralità del discente quando le attività proposte in classe lo mettono nella condizione di ricercare le strutture della lingua in prima persona e utilizzando le proprie abilità, di essere il più possibile elemento attivo nel processo di apprendimento.

Il terreno che trovo comune alle due idee riguarda l’attenzione dell’insegnante, che deve essere sempre rivolta a ciò di cui abbisognano gli studenti, ad una conoscenza approfondita delle loro esigenze, quasi ad una intimità.

Mi sembra inoltre che entrambe auspichino un ritirarsi dell’insegnante nell’angolo, tuttavia in modi molto diversi. Nel primo caso infatti l’insegnante è invitato a confrontarsi sulla didattica, sul modo migliore di condurre la lezione, diviene uno strumento nelle mani degli studenti, che acquisiscono il diritto di provare le loro idee e quindi ad esempio di esigere una spiegazione esauriente del congiuntivo o dei diversi usi della preposizione “da”; di interrompere un’attività di ascolto dopo aver ascoltato due volte, o tre, o una; di parlare nella loro lingua madre; di risolvere tutti i problemi lessicali di una lettura o di farne una traduzione; di leggere il testo sbobinato di una conversazione; ecc.

Mi si ribatterà che questo non potrebbe succedere se abbiamo “insegnato ad imparare ad imparare” ai nostri studenti, ed è vero, ma se abbiamo di fronte una classe con una competenza in merito alla didattica così sviluppata allora significa che è arrivato il momento di andarcene completamente, perché l’insegnante non ha più ragione di essere. Discenti che hanno imparato ad imparare cioè non hanno bisogno di altro che di autonomia. Sono in accordo con chi mi dice che ci dobbiamo adoperare per questo, per trasformare i nostri studenti in studiosi della lingua, ma non possiamo pensare di poter raggiungere lo scopo semplicisticamente dicendo agli studenti “fai come ti pare, sei responsabile in quanto ti ho messo al centro della lezione”. Perché è vero, il fine ultimo è creare degli studiosi che abbiano imparato ad imparare, ma teniamo presente che questo può essere considerato come l’obbiettivo (secondo me utopico e un po’ favolistico) di un percorso di insegnamento/apprendimento, qualcosa a cui (forse) arrivare, ed allora il problema torna ad essere il come arrivarci.

Per quel che riguarda la seconda idea che ho avuto modo di sentire durante il seminario, l’insegnante ha il pieno controllo del modo in cui si deve svolgere un lavoro, decide quale attività e prepara ogni aspetto della lezione per far sì che in ogni momento lo studente si trovi solo con i mezzi che gli sono propri, con solo il proprio “sé” (con tutto ciò che lo compone) in contatto con un altro “sé”: la lingua straniera. Per riprendere ancora dalla conferenza di Martin Dodman, questi due “sé” si muovono l’uno verso l’altro, cercano di comunicare, e si modificano. In questa relazione diretta lo studente è obbligato ad attivare tutti i canali possibili al fine di mettersi in contatto con quello che gli viene comunicato nell’altra lingua. Possiamo dire che questo legame è autentico perché si svolge senza mediazioni, senza coinvolgimenti di terzi ad alterarne la sincerità.

Col passare delle ore, dei laboratori e dei giorni del seminario l’idea che i due concetti che ho cercato di esporre non fossero esattamente la stessa cosa vista da due prospettive differenti si è andata sempre più consolidando. Ho provato a schematizzarle il più possibile e alla fine ho ribattezzato (per mio comodo) la prima idea con il termine autonomia. Non che abbia niente contro questo concetto, ma il terreno mi sembra parecchio impervio. Credo infatti che l’autonomia la si raggiunga a piccoli passi e non sia che un obbiettivo di un lungo lavoro in cui l’insegnante ha il ruolo di preparatore, di pedagogo, di maestro. Di insegnante. Un ruolo quindi specifico, fatto di competenze che nella maggior parte dei casi gli studenti non hanno, di competenze sì da far capire, da rendere trasparenti, da spiegare, se vogliamo anche da insegnare, ma che spesso si scontrano con idee dell’insegnamento e dell’apprendimento contro cui lottiamo perché il più delle volte i nostri allievi hanno esperienze scolastiche lontane dal nostro modo di lavorare.

Il rischio che io vedo in un passaggio maldestro all’autonomia è la perdita di controllo di ciò che avviene in classe da parte dell’insegnante. Mi metto nei guai, perché così sembro voler dare valore ad un modello di professore autoritario che la maggior parte di noi non condivide, ma cercherò di spiegarmi.

Ci sono idee didattiche che perseguo, che ho studiato e ho sperimentato, ho modificato nel corso del tempo e continuano a subire correzioni di rotta. In ogni momento penso che quello che faccio sia il modo migliore di lavorare, salvo poi ricredermi un istante dopo. Allora la mia domanda è questa: vale la pena utilizzare la lezione per dar campo libero alle convinzioni sulla didattica degli studenti? I miei allievi sono abituati che all’inizio della lezione possono farmi qualsiasi domanda. Questo mi sembra un’apertura verso l’autonomia, perché è dalla “platea” e non dal “palco” che viene indirizzata la discussione. Tuttavia manca un tassello per chiudere l’argomento. Il come do le risposte. Ecco che quando parliamo di “insegnare ad imparare ad imparare” non possiamo esimerci dal discutere su come farlo nel migliore dei modi. Se  alla domanda “ci spieghi come si usano le preposizioni?” mi lanciassi in una spiegazione con lauti e numerosi esempi avrei forse fatto un passo verso quella autonomia di cui si parlava, ma sarò del tutto venuto meno al concetto di centralità che vuole che lo studente sia messo nelle condizioni di essere un ricercatore della lingua e non un ricevente di regole, un elemento passivo nel processo insegnamento/apprendimento.

Se d’altra parte prendo un’altra strada mi rimangio la promessa di dare risposte e non rispetto le loro esigenze, il loro impulso verso l’autonomia.

Ecco che le due idee mi sembrano non più diverse ma addirittura incompatibili.

È cioè arrivato il momento di prendere una decisione. E a questo punto io, come insegnante, non ho dubbi e scelgo di condurre io la lezione, di invitare gli studenti a lavorare nel modo che ritengo più proficuo, di disporre quando, come e perché fare opere di mediazione tra le mie convinzioni e le loro aspettative, e in generale di non accettare provocazioni che mi porterebbero a rispondere “L’insegnante” all’ultima domanda che avevo posto in avvio: “Chi, in una classe, deve essere al centro del processo di apprendimento?”.

Così alla domanda sulle preposizioni rispondo proponendo un lavoro analitico sull’argomento. È questo che intendo quando parlo del rischio della perdita di controllo di ciò che avviene in classe. La mia idea è che quello che si impara si può discutere ma sul come sono io il responsabile. Se da una parte voglio insegnare l’autonomia per un futuro, d’altro canto penso di farlo nel migliore dei modi dando alla mia classe la possibilità di lavorare sempre con la propria testa e con le proprie competenze ed abilità, cercando di stimolarli e di obbligarli ad usare tutti gli strumenti per mettere insieme le energie che posseggono, ma sempre le loro energie di esseri pensanti.

È da questo concetto, che io chiamo centralità, che secondo me un insegnante non dovrebbe prescindere.