La consapevolezza corporea dell’insegnante
Come al solito, la vastità del foglio bianco, la necessità di dover trasformare in parole un’esperienza, per di più quasi tutta giocata e vissuta con il corpo, mi ripropongono il problema del cominciare. Ma forse è mal posta la domanda che mi frulla nella testa – da dove inizio?- perché sono io il punto da cui partire, quindi è il “da chi?” che diventa importante.
Sono molti anni che, attraverso il Movimento Creativo, cerco non solo di mettere pace tra il mio corpo e il mio intelletto ma soprattutto di sperimentare, attraverso la fisicità, le strade che portano alla creatività e ad una presa di consapevolezza del mio essere nel mondo: “…Il mio corpo è il luogo del mio essere nel mondo … è punto di incontro e convergenza … tramite tra me e l’altro.” (P. Valery) semplicemente il sostentamento materiale per sopravvivere economicamente, il travaso, la sintesi, lo scambio tra questa ricerca personale ed il mio lavoro è stata una scelta naturale.
Il punto da cui sono partita per impostare il laboratorio che avrei dovuto condurre è stato chiedermi quali fossero, per me, le qualità con cui un insegnante che voglia ritenersi accettabile deve confrontarsi e le prime parole che sono affiorate nella mente sono state: stabilità, condurre, dare e prendere. Da qui sono partita per sperimentare su di me varie possibilità per esplorare le risposte fisiche, le sensazioni, le immagini che il corpo mi mandava lavorando su questi temi.
Credo che nessuna persona di buon senso potrebbe affermare che la stabilità non sia una qualità fondamentale per chi si propone di essere un/una educatore/educatrice, ma l’acquisizione intellettuale di questo assunto rischia di diventare un parametro etico che, non solo non mi aiuta nel mio lavoro quotidiano, ma per di più rischia di farmi sentire inadeguata in tutte quelle situazioni in cui avverto che chi mi sta di fronte (gli studenti, nello specifico) mi sta destabilizzando. E le risposte possibili a questi momenti della relazione sono il giudizio negativo sull’altro o il senso di colpa per non essere stata all’altezza della situazione. Ma come faccio a percepire le mie possibilità di mantenimento della mia stabilità se non sperimento dove è il centro da cui parto? quali sensazioni mi dà l’esperienza consapevole della perdita del mio equilibrio? come il mio fisico vive e riflette questa “perdita”? quali emozioni tocco nel momento in cui il mio corpo può, in una situazione protetta, permettersi di vivere, non pensare o subire, varie modalità di lasciare il proprio centro e di farvi ritorno? È indifferente il fatto che sia il peso delle mie ginocchia, o del mio bacino, o della mia testa a farmi perdere l’equilibrio, o le sensazioni cambiano?
Partenze sicure
La richiesta iniziale che è stata rivolta a tutte le persone che hanno partecipato al mio laboratorio è stata quella di trovare un posto in cui si sentissero a proprio agio: un posto buono per loro da cui partire per un viaggio. Le scelte sono state le più varie: ci sono stati gruppi che sono tornati a riproporre il cerchio da cui siamo partiti, ci sono state persone che hanno deciso di partire avendo la parete alle spalle, qualcuno si è avvicinato alla finestra posando una mano sul davanzale. Quante modalità diverse! E tutte importanti per permettere ad ognuno di noi di toccare con mano (e con il corpo nella sua totalità) come ci poniamo di fronte ad una esperienza che non ci aspettiamo, di quale sia la nostra modalità di affrontare un “viaggio” di cui non conosciamo il percorso. E tutto questo non è qualcosa che può aiutarci ad essere un po’ più empatici con i nostri studenti quando gli proponiamo vie per loro poco conosciute? Quanto e come è possibile permettere ad i nostri allievi di scegliersi un posto da cui partire? Quanto noi siamo disponibili ad accettare che loro partano da dove si sentono più tranquilli per seguirci nella giungla dell’apprendimento di una lingua? E quanto quello che mi infastidisce del tradizionalismo che vive nei miei studenti non è semplicemente la loro necessità di partire da un mondo conosciuto, quindi sicuro, per avventurarsi in un nuovo mondo?
Non è che io ritenga di star dicendo cose particolarmente originali. Poco consueta è semmai la strada attraverso cui ci sono arrivata e che ho proposto. Un percorso che cerca di riattivare una intelligenza messa da parte dalla nostra cultura cartesiana del corpo-macchina, del corpo come puro attrezzo del fare; un’intelligenza che parla con una voce che, se ascoltata, mi racconta una realtà ed una qualità del mio stare nel mondo come corpo psichico che nessun libro, nessun argomentare, nessun pensare come momento scisso da ciò che sono, come essere intero, mi può dare.
Il colosso dai piedi d’argilla
“Ora vorrei che ognuno di voi assumesse la postura che corrisponde a quello che io dirò: sono stabile come una roccia”. Ed ecco che i corpi delle persone che sono di fronte a me tendono ad irrigidirsi: le ginocchia sono ferme e rigide, la schiena si inarca un po’ all’altezza della vita oppure il collo è proteso in avanti o ancora le spalle sono “fuori” rispetto al baricentro. Ognuno di noi ha una sua idea su che cosa significhi essere stabili, ma sono bastate due dita della mano destra e due della sinistra per far perdere l’illusione di “essere una roccia”. Chi di noi non sa, a livello mentale, che la rigidità certo non aiuta la stabilità di una persona? Eppure il corpo parla di un nostro quasi automatico irrigidimento ogni volta che riteniamo di dover essere o apparire stabili: perché?
Alla domanda: “L’esperienza di oggi ti ha fatto scoprire qualcosa di nuovo?” T. mi scrive che “… la nostra forza come insegnanti sta nella flessibilità, nell’abbandonare le nostre posizioni rigide e precostituite e nel cercare un’intesa con l’altro (…) È una convinzione che, grazie al tuo seminario, mi sono accorta di avere e di cui ora mi rendo pienamente conto.”. Ecco, io credo che ci sia un diverso vivere le nostre stesse convinzioni se le sperimentiamo “sulla pelle”, nel senso più letterale del termine e che questa modalità ci permetta di sentirle più appartenenti al nostro essere più profondo.
E infine, non illudiamoci che i nostri studenti non “vedano”, come quasi tutti hanno visto durante i laboratori, il nostro “punto debole”: non che sia una operazione cosciente, ma sono sicura che i nostri allievi sanno con una certa precisione dove toccare per farci perdere il nostro equilibrio personale. In questo sono assolutamente esperti: non fosse altro che per il fatto di aver dovuto “sopravvivere” ad anni ed anni di rapporto con insegnanti che, troppo spesso, hanno anche loro esclusivamente operato in modo da sbilanciare chi gli stava di fronte. Non è un problema di cattiveria: è la lotta per la sopravvivenza che frequentemente accompagna la relazione tra discenti e docenti. E nessuno, in questa lotta diventa più forte e più stabile.
Centro personale e baricentro
Sono bastati alcuni aggiustamenti della postura per ritrovare il proprio centro. Un centro che noi umani adulti facciamo ormai fatica a rintracciare “deformati” da una educazione che mira a farci diventare obbedienti a norme che non prevedono affatto la ricerca e la scoperta di sé come persona totale, a regole che non permettono una evoluzione sana, a parametri che non danno spazio alla strutturazione di una grammatica delle emozioni e dei sentimenti che ci dia la possibilità di crescere come individui sani, armoniosi, creativi. La nostra tendenza a muoverci sempre all’interno degli stessi schemi mentali e fisici, per paura, per autodifesa, per mancanza di coraggio, riduce le nostre possibilità di ricerca di noi stessi e delle nostre potenzialità umane.
“…L’individuo dovrebbe gradualmente imparare a trovare il movimento più adatto ad ogni occasione interrompendo e scardinando, se necessario, il vecchio schema di abitudine motoria appreso e riuscendo invece coscientemente a scegliere il modo in cui muoversi. L’essere umano è ricchissimo di movimenti che deve solo “riscoprire” così da avere a sua disposizione un linguaggio corporeo e motorio più perfezionato e quindi più adeguato a manifestare la propria totalità.” (P.de Vera D’Aragona)
E ancora, contro una cultura che prevede per il corpo solo possibilità estetiche ed efficientiste che riducono la nostra pelle ad essere l’involucro di un pacchetto regalo da offrire al nostro narcisismo ed alle nostre insicurezze, sono convinta che, come diceva Moshe Feldenkreis:
“Se noi indirizziamo il corpo a perfezionare tutte le forme e le configurazioni possibili… non cambiamo solo la forza e la possibilità del corpo ma c’è anche un cambiamento profondo nell’immagine di noi stessi e nella qualità della direzione del nostro Sé”.
Sarebbe bello ed utile se qualcuno provasse, in classe, ad assumere quella postura morbida, flessibile, con la schiena in asse come se un filo tirasse dalla testa, in un momento in cui la situazione richiede una particolare “stabilità” e ci raccontasse se quella modalità di porsi fisicamente ha avuto effetti anche sul piano della relazione con gli allievi.
E se questo vale per gli insegnanti vale anche per gli studenti: credo che non si possa pensare di porre il discente al centro del suo apprendimento se non gli si fa percepire, in qualche modo, quale sia il suo centro. Trovarlo non è un modo per “combattere” meglio le difficoltà della vita (in questo caso l’apprendere una nuova lingua, magari in un paese completamente diverso dal loro e possibilmente con un insegnante che gli propone strade di apprendimento per lui assolutamente stravaganti), è un modo per vivere l’entrata in mondi nuovi con la stessa disponibilità, con la stessa curiosità e con la stessa flessibilità di bambini piccoli che vivono in un ambiente “…capace di facilitare lo sviluppo dell’individuo in conformità alle sue molteplici tendenze innate.”. (Winnicott)
Energie per danzare la vita
Una delle caratteristiche della nostra epoca che mi indispettisce di più è il fatto che gli uomini, nel senso di maschi, non sappiano più “portare” durante una danza e che le donne, forse troppo occupate ad entrare nel mondo dell’economia e della competizione, abbiano perso la abilità di “farsi condurre”. Qualcuno può interpretare questa mia affermazione come una deprecabile caduta maschilista, ma credo che si sbagli. Io credo che ogni persona sappia fare benissimo entrambe le cose e che l’alchimia delle energie maschili e femminili che è dentro di noi, ci permetterebbe di passare fluidamente da una abilità all’altra. Ho usato non casualmente il condizionale: troppo spesso restiamo prigionieri di ruoli fissi e troppo spesso pensiamo che un ruolo ci si addica o ci piaccia più di un altro senza darci la possibilità di vivere ciò che riteniamo non appropriato per noi stessi o, peggio, opposto alle caratteristiche personali che ci attribuiamo. Per questo ho scelto di proporre la possibilità di sperimentare, durante il laboratorio come il corpo ci permette, saltando a pie’ pari le radicate convinzioni che ci portiamo dentro, di vivere fisicamente ed emozionalmente, in una dimensione giocosa e creativa, il gusto o la spiacevolezza, la abilità o la difficoltà, la capacità o la resistenza a passare dal ruolo del condurre a quello dell’essere condotto/a.
“…Fiducia non vuol dire passività totale perché c’è un rapporto, c’è un dire: “Voglio vedere dove mi porti” poi posso dire la mia. In realtà c’è una recezione attiva, c’è una fiducia attiva.”. Con queste parole M. ha messo in evidenza, durante la verbalizzazione che chiudeva uno dei laboratori, con molta chiarezza due elementi per me significativi: 1) quanto, vivendo in una cultura che aborrisce la passività, abbiamo bisogno di precisare la distanza tra fiducia e, appunto, passività; 2) utilizzando la definizione “recezione attiva “ ha definito in un modo quasi perfetto la sensazione fisica di chi deve farsi portare in una danza.
Vorrei spendere qualche parola su questi due punti. Per anni, in competizione col mondo maschile, ho, in realtà, condiviso con il mio “antagonista” una visione negativa della passività sperticandomi a dimostrare la capacità delle donne di essere molto più attive degli uomini. Che grande fregatura l’emancipazione! Così io devo dimostrare di essere brava quanto te, se non di più, su un terreno e secondo parametri che non sono stati strutturati sulle qualità degli esseri umani femmine e degli esseri umani maschi, che non tengono conto che in ogni essere umano ci sono qualità maschili e femminili; parametri che mi propongono un modello unidirezionale, e quindi castrante per tutti, maschi o femmine che siano. Parametri che fanno dell’esistenza una perenne “riunione di bilancio”: consuntivo, preventivo, eliminazione dei rami secchi e improduttivi da sé, valutazione ed eliminazione delle voci “passive” dal bilancio stesso, “licenziamento” di tutte quelle parti di noi che non rendono il nostro corpo “aziendale” sufficientemente competitivo sul mercato della vita. Massimo dell’efficienza, minimo dello spreco. Magnifico.
Ma in tutto questo che posto ha la terra che con la sua passività accoglie i semi e permette la vita? Che posto ha il corpo femminile con i suoi cicli fisici che tanto disturbano l’economia perché troppo spesso lo rendono poco efficiente? Che posto ha la passività dell’utero femminile che genera gli umani? Che posto ha, infine il caos (altra qualità del femminile) elemento indispensabile ad ogni forma di creatività?
Credo che dovremmo smetterla di essere terrorizzati dalla passività, credo che dovremmo cominciare a ribellarci a quelle situazioni che ci obbligano a giudicare implacabilmente come negative tutte quelle qualità indispensabili alla vita. Penso che dovremmo riflettere molto di più sul fatto che la nostra cultura efficientista è, in realtà, un costante allenamento alla subalternità e che quest’ultima non è affatto legata a quella che M. ha definito acutamente, con quello che per me è un ossimoro, “recezione attiva”.
Penso che tutti i lavori, e tanti altri se ne potrebbero fare, che ho proposto durante il laboratorio su questo tema, possano essere un modo per esplorare le nostre parti attive come quelle passive arricchendo lo spazio di conoscenza interiore di noi stessi. Sono convinta anche che questo possa essere una strada per confrontarsi con il proprio ruolo di insegnante in un modo non solo più personale e quindi profondo ma anche più leggero e fantasioso e che ci permetta una maggiore empatia con le difficoltà che possono avere i nostri studenti nello sperimentare una conduzione troppo veloce o troppo lenta, una conduzione dove la tensione che unisce le persone in contatto tra loro sia eccessiva o inesistente. Spero che l’aver giocato con tutto questo abbia permesso ai miei colleghi di toccare nuove possibilità, o abbia fatto vivere le possibilità già conosciute in modo diverso, che abbia insomma arricchito un poco, la propria esperienza di sé e del proprio essere nel mondo.
Per concludere
“Lo riterresti un tipo di lavoro utile nella formazione degli insegnanti?”. A questa, che era l’ultima delle domande a cui abbiamo chiesto di rispondere a coloro che hanno partecipato al laboratorio, tutti (tra quelli che ci hanno restituito il questionario) dico tutti hanno risposto di sì, tranne un collega che lo ritiene importante nell’aggiornamento professionale ma che ha più dubbi a vederlo inserito nella formazione di persone che, magari non hanno esperienza in classe.
Questa accoglienza praticamente unanime mi rende felice di lavorare in un mondo composto di persone che, pur partendo da molte convinzioni e da qualche sicurezza, non vivono, almeno questo mi è arrivato,
“l’insegnamento e l’apprendimento … [come qualcosa che si realizza] tanto sull’immensa rotta dei programmi e delle programmazioni, ma fra le pieghe di ciò che già si sta facendo, anche in quegli intervalli e in quei vuoti apparentemente meno appropriati, in grado di rigiocare la reciprocità di una relazione continuando a stupirsi di ciò che accade. Ovviamente lo stupore non è l’unica dimensione della reciprocità; poi viene la responsabilità, e con essa la necessità di aprirsi al futuro attraverso il richiamo dell’altro” (P. Perticari)
Riferimenti bibliografici
Valery, P., 1978, Poesie, Milano, Feltrinelli.
Perticari, P.,1997, Attesi imprevisti. Torino, Bollati Boringhieri.
de Vera D’Aragona, P., 1996 “Introduzione” in Riza Scienze, Ottobre 1996, Edizioni Riza.
Feldenkreis M., 1978, Conoscersi attraverso il movimento, Milano, Celuc.