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Abbattiamo i muri

Ai tempi della scuola superiore vivevo un notevole disagio, sostanzialmente a causa della delusione che l’Istituto Magistrale, che pure avevo scelto, mi aveva provocato. Venivo dalla scuola media appena riformata dove era stato possibile, quanto meno, fare lavori di gruppo, ricerche e dove ero riuscita a trovare uno spazio in cui mi sentivo “agente”. Pensavo che nella scuola superiore avrei trovato una situazione simile con in più delle materie di maggiore interesse; non vedevo l’ora di affrontare la filosofia, la pedagogia, certa letteratura.

Ben presto mi sono accorta che potevo identificarmi con la sedia dove sedevo durante le lezioni, pensavo che per i professori la sedia e io eravamo la stessa cosa. Poi ho scoperto di peggio. Andata volontaria ad una prima interrogazione di filosofia (lo dicevo, non vedevo l’ora) la prof. si mostrò sorpresa che sapessi bene la lezione perché a lei risultava che io avessi un “4”. Non erano tempi in cui si poteva dire “Ma scusi, com’è possibile che io abbia un “4” se questa è la mia prima interrogazione e non mi è stata mai rivolta nessuna domanda, neanche “dal posto”? Né ero educata a mettere in dubbio l’infallibilità dei professori, né avrei avuto il coraggio di espormi, data la mia timidezza che mi faceva diventare viola ogni volta che aprivo bocca davanti a tutti (pardon, tutte, era una classe solo femminile, figuriamoci!). Nella testa della prof. sono sempre rimasta una da “4” perché non sono mai riuscita a superare il “6” anche quando pensavo di aver sostenuto una bella interrogazione. Tutto ciò non incoraggiava allo studio un’adolescente. Infatti studiavo sempre meno e durante l’ora di filosofia scrivevo panegirici in latino maccheronico sulla mia compagna di classe, Peroni, “bravissima” in filosofia perché riusciva sempre a trovare (e, cosa per me più difficile, ad esplicitare, bloccando l’insegnante) una contraddizione nel pensiero di qualunque filosofo la prof. stesse spiegando: “De Peroni et de suae contradditioni”.

Con gli altri professori la situazione non era dissimile, con il risultato che non avevo più nessuna voglia di studiare. Ma mi sentivo fortemente in colpa per i pomeriggi passati in camera con il libro aperto sempre alle stesse pagine, anche cambiando libro. Con la testa vagavo dappertutto anche se fisicamente restavo molto tempo “sui libri”: della prima cosa nessuno era al corrente, della seconda tutti, poiché mia madre di fronte ai professori che la informavano del mio profitto piuttosto mediocre opponeva “Eppure studia tanto!”. Conclusione: ero stupida. Il che aveva il merito di tacitare parecchie coscienze, inclusa la mia.

Un giorno, alla fine di un’interrogazione di fisica col solito risultato scadente, mentre la classe si preparava ad andarsene la prof. mi trattiene alla cattedra e mi fa: “Luzi, tu non sei stupida. Perché non studi?” poi raccoglie le sue cose e se ne va.

Da allora sono diventata “brava” in fisica, anzi, sono diventata “l’unica che ci capiva di fisica” e anche le “secchione” si confrontavano con me, anche quelle per le quali prima non esistevo.

Che cosa era successo?

Perdonatemi l’introduzione autobiografica con finale da libro “Cuore”, ma questa mia esperienza è stata fondamentale sia per superare un momento difficile a scuola, sia per maturare un’idea diversa di rapporto tra l’insegnante e lo studente, un’idea diversa, inoltre, del ruolo che i due potrebbero avere.

Che cosa era successo?

  1. La prof. si era rivolta direttamente a me, non venivo quindi confusa con la classe o, peggio, con la sedia: esistevo ai suoi occhi come persona, come singola persona distinta delle altre della classe.
  2. Avevo chiaro nella testa: “Lei pensa che io non sia stupida. Meglio: lei dice che io non sono stupida. Potrebbe avere ragione”.
  3. Non mi ero minimamente sognata di rispondere alla sua domanda. Mi aveva già dedicato attenzione. E poi non era una domanda: significava “Studia”. E per me implicitamente voleva dire “Mi aspetto che tu lo faccia”.

In altre parole…

  1. Mi aveva dedicato attenzione.
  2. Aveva disegnato un profilo diverso da quello in cui mi sentivo prigioniera.
  3. Mi aveva esortata ad agire di conseguenza.

Ha avuto successo.
Ho avuto successo.
Non era ancora il sessantotto.

Ancora oggi

Poi è esploso il sessantotto.
Tante cose sono cambiate, tante altre sono venute cambiando in questi anni e ad opera di molti.

Devo però registrare ancora oggi, nelle scuole (sono madre di due liceali e rappresentante di classe), comportamenti alquanto diffusi, ritenuti come la norma, che mi lasciano senza parole. Faccio alcuni esempi:

Prof. a genitore: “Dica a suo figlio che sono contento di lui” (Ma perché glielo devo dire io? Mio figlio sarebbe felicissimo di sentirselo dire dal suo professore, che stima; si sentirebbe stimato a sua volta)

oppure “Dica a sua figlia che deve studiare di più” (Ma perché, mi scusi, non glielo dice lei? Ha idea di quante volte gliel’abbia detto, io, come genitore? Non posso dirglielo come professore! La prego, lo faccia lei! Entri in contatto con mia figlia! Funzionerebbe di più!)

oppure “Vorrei capire di più suo figlio”(Evviva! C’è qualcuno che si pone il problema di capire! Mi chieda tutto! ) “Che cosa gli piace…? ” ( Però per mio figlio cambierebbe qualcosa se sapesse che a scuola qualcuno sta cercando di capirlo e poi… sì, io so abbastanza che cosa gli piace, ma lui lo sa meglio di me)

Prof. a rappresentanti di classe: “È una buona classe, ma vorrei che partecipassero di più, che fossero più attivi” (Legittimo desiderio, legittima richiesta. … Ma…. gliel’avrà chiesto? Perché che lo dica a noi è importante ai fini dell’informazione ma non risolve il problema)

Ci sono intermediari, ci sono muri, ci sono barriere. Perché non parlare direttamente con gli studenti? Perché non parlare direttamente con il singolo studente?

Più precisamente: perché non entrare in comunicazione con lui ?

Lancio la sfida

Mi rendo conto di essermi spinta piuttosto lontano, in un certo senso, (è lì che mi porta il cuore) perché se partiamo da queste situazioni per arrivare a quello che vogliamo proporre per la centralità dello studente c’è molta strada da fare. Lancio la sfida.

Quello che propongo, infatti, è di prevedere, all’interno di un qualsiasi corso di studi (non soltanto nei corsi di lingua straniera, che è il nostro campo specifico),degli spazi programmati in cui l’insegnante ha un colloquio individuale con lo studente.

In tale colloquio l’insegnante deve provare ad uscire fuori dal ruolo che gli è stato cucito addosso, ossia: l’insegnante è colui che sa, che dà direttive, che fornisce la ricetta metodologica ed è soprattutto colui che esprime giudizi sullo studente. Uscire da questo ruolo significa sceglierne un altro, per esempio: l’insegnante è colui che entra in comunicazione con il suo studente, che cerca di capire a che punto si sente, quest’ultimo, nel percorso didattico che stanno seguendo, che cerca di capire se il percorso scelto è adatto a quello studente, che si pone in ascolto, osserva, raccoglie elementi che gli serviranno per prendere delle decisioni finalizzate a facilitare l’apprendimento di quel determinato studente. Quest’insegnante è colui che riesce a comunicare quest’immagine di sé allo studente e lo fa uscire fuori dal ruolo che comunemente gli si attribuisce: non più persona che si limita a ricevere dall’insegnante, ma che insieme a lui trova la via migliore per aumentare la conoscenza della lingua o della materia che sta studiando.

Durante il colloquio la persona insegnante dovrebbe comunicare alla persona studente (non necessariamente a parole, ma con la coerenza del suo comportamento) che stanno lavorando insieme ad un comune obiettivo che è quello di imparare per entrambi: lo studente impara ad imparare, l’insegnante impara ad insegnare. Con questo voglio dire che la pur grande competenza di chi insegna non può che uscire arricchita da un colloquio condotto bene e, ugualmente, la visione che lo studente ha delle proprie capacità e possibilità sarà necessariamente modificata.

Questi colloqui devono essere pianificati dall’insegnante che li inserirà nel programma del corso che si appresta a tenere: sia che abbia programmi prestabiliti da seguire, sia che abbia libera scelta sul contenuto del corso, sia che disponga di tempi larghi, sia che disponga di tempi appena sufficienti, non può impostare un insegnamento di qualità senza prevedere momenti di contatto, di conoscenza, di condivisione, di ascolto di ciascun singolo studente e quindi altri da quelli che le dinamiche di classe permettono.

Attuare questa proposta vuol dire prendere sul serio il concetto di “centralità del discente”.

Allegato

Schema riassuntivo di ciò che ha animato il nostro laboratorio

Obiettivo: Mettere al centro lo studente attraverso il colloquio

Perché:

  • fa entrare in rapporto diretto queste due persone dette insegnante e studente;
  • la persona che in quel momento ha la posizione di studente ha un suo spazio individuale e privilegiato con la persona insegnante;
  • per l’insegnante aumentano le conoscenze di cui tenere conto per facilitare il percorso e lo sviluppo linguistico di quel particolare studente;
  • Lo studente, chiarendo innanzitutto a sé i suoi pensieri ed i suoi obiettivi, si incammina sulla strada dell’autonomia.

Come:

disciplina dell’ascolto

  • creare spazi e tempi consoni al colloquio;
  • riformulare i concetti espressi dallo studente a) per frenare la nostra propensione a giudicare e ad essere direttivi e b) per essere sicuri di aver capito, dando allo studente la possibilità di riconoscersi in ciò che ha detto o precisare il proprio pensieri;
  • tollerare i silenzi

indicazioni che liberano energie e mobilitano risorse

  • dare altre possibili visioni della situazione prospettata dallo studente
  • chiedere allo studente se ha pensato a strategie o soluzioni per le difficoltà esposte
  • fa uscire lo studente dai confini di quello che pensa di sé qualora fossero troppo angusti