Immagini: mondi già esistenti o da scoprire?
o Il collegamento dell’immagine all’immaginario
Lavorando in classe con testi cinematografici o semplicemente utilizzando i fotogrammi di un film, come anche è stato proposto al seminario internazionale di quest’anno, mi sono posta le seguenti domande:
- A quale fonte attinge la mente umana per decodificare ed elaborare le immagini?
- Quale rapporto c’è tra parola e immagine?
Cercherò quindi di trovare un nesso tra immagine ed immaginario.
Che cos’è l’immagine?
È la rappresentazione “somigliante” di un oggetto, di una persona o di una figura su un supporto che la fissa. In questa accezione l’immagine equivale all’oggetto o alla persona. Davanti ad una cartolina che raffigura il David di Michelangelo, si dice: “È il David di Michelangelo”, così come si dice: “È la mia casa in Sardegna”, o “È la navicella spaziale americana”. Davanti alla fotografia di una persona o di un personaggio, si dirà: “È mia zia Maria”, “È Paolo quando era piccolo”, o: “È il presidente degli Stati Uniti”. Tuttavia possiamo dire che la “somiglianza” non viene stabilita allo stesso modo se si tratta di “Paolo piccolo” o del “presidente degli Stati Uniti”, o se invece si mostra il David di Michelangelo, la propria casa in Sardegna o la Casa Bianca. La questione non dipende dalla natura dell’oggetto rappresentato, ma piuttosto dall’esperienza che gli interlocutori hanno dell’oggetto relativo all’immagine, e da ciò che esso rappresenta.
Io conosco la zia Maria ed anche la mia casa; sono stata a Firenze ed ho visto il David di Michelangelo, perciò lo “riconosco” nell’immagine (la fotografia, il disegno, ecc.) che mi si presenta. Per ovvie ragioni, però, non ho mai incontrato personalmente il presidente degli Stati Uniti, né visto la navicella spaziale americana. Come posso quindi affermare o ritenere che l’immagine che mi viene mostrata, o che io mostro, gli somigli? O che si tratta proprio del presidente degli Stati Uniti e della navicella spaziale americana, e non si tratta invece del segretario del Ppi e della stazione Mir?
Nel primo caso forse si potrebbe affermare che esiste una somiglianza. Negli altri invece posso soltanto stabilire, in base al mio grado di cultura, la somiglianza con altre immagini già note del presidente degli Stati Uniti e con altre fotografie della navicella. Del resto probabilmente la prima volta che ho visto il David di Michelangelo è accaduto un fenomeno dello stesso genere: avevo già visto sui libri d’arte o sulle cartoline il famoso David, e quando mi ci sono trovata davanti l’ho riconosciuto. Ma se non c’è nulla che mi indichi a che cosa somiglia l’immagine, “immaginerò” ugualmente che somiglia a qualcosa che esiste, che non fa ancora parte della mia esperienza, ma potrebbe farne. Potremmo quindi dire che l’immagine porta con sé una presunzione di somiglianza ed una deduzione: che l’oggetto a cui somiglia esista davvero, o sia esistito, o che almeno potrebbe esistere. Ed è proprio questa la via che segue un bambino: prima impara a nominare gli oggetti su un libro illustrato, poi senza difficoltà li riconosce nel loro ambiente, anche se le loro dimensioni nel libro non corrispondono affatto alle dimensioni reali. Ed è anche la via che seguiamo quando studiamo su libri scolastici, testi universitari, e quando guardiamo sullo schermo televisivo l’immagine del paesaggio lunare. È anche la via del disegnatore che elabora sullo schermo del suo computer gli elementi dell’oggetto da costruire, che ancora non esiste, ma esisterà un giorno; o di un architetto che progetta una casa che somiglierà alla sua immagine. Qui si sfiora il virtuale, non solo nel modo di produrre l’immagine, ma anche nel modo di leggerla. Il rapporto tra immagine e oggetto che essa vuole rappresentare non è di fatto un rapporto di riproduzione: nella pratica dell’utilizzazione l’immagine solo raramente è seconda all’oggetto rappresentato. Per chi fa la foto di un Moai di un’isola del Pacifico, il Moai è il primo oggetto e la fotografia viene per seconda. Ma se il turista ha già visto la riproduzione di un Moai, nella sua esperienza il Moai fotografato durante il viaggio viene per secondo. Se al ritorno mostra la foto del Moai ad un amico che non ne ha mai visto uno, allora viene per prima la foto; se invece l’amico ha già visto qualche riproduzione la foto sarà identificata come rappresentante un Moai, perché “somiglia” alle riproduzioni viste in precedenza, mentre per il Moai fotografato (quello vero dell’isola) non è possibile stabilire un rapporto di somiglianza.
Dunque, non sarebbe dal suo rapporto con l’oggetto che l’immagine trae la propria legittimità di oggetto “somigliante” o di “analogo”, e ci sarebbe soltanto immagine virtuale. Ma allora, da che cosa riconosco che si tratta di un’immagine? Qual è il principio secondo il quale riconosco un’immagine, indipendentemente da ciò cui rassomiglia?
L’esperienza del mondo (ho visto, sono testimone oculare, ho constatato) non è la fonte principale delle nostre conoscenze. Il nostro discorso sul mondo si costruisce in massima parte sul discorso di altri: la famiglia, l’ambiente sociale, gli insegnanti, i media. Quello che gli altri hanno fatto e mi comunicano costituisce la nostra esperienza “vicaria” o vice-esperienza. A volte una lunga catena di informazioni mi ricollega a chi ha formulato per primo un discorso teorico (la teorie della relatività di Einstein, il teorema di Pitagora ad esempio), altre volte la catena è più corta (la stampa, la televisione, ecc.). Se vedo “in tempo reale” in televisione il primo uomo della storia arrivare sulla luna e sento un discorso elaborato da altri su quell’avvenimento è solo perché posso credere a ciò che ho visto sullo schermo. La nostra cultura si basa in gran parte su esperienze “autentiche” e su quelle “vicarie”, senza tuttavia poter affermare la pura autenticità dell’esperienza. Quando infatti leggiamo nel giornale (la Repubblica, 23.VI.99): “Il principino non sorride? il computer ritocca la foto” riferendosi alle immagini del principe William al matrimonio di Edoardo e Sophie, l’immagine è frutto di un tecnologico fotomontaggio. Lo rivela l’autorevole Times che in questa foto il sorriso ufficiale del principino è finto, suo, ma di un’altra foto. In un’intervista riguardo questa rivelazione Oliviero Toscani alla domanda: “Cosa conta di più: la verità o il risultato finale?” sostiene che l’immagine non ha bisogno della verità, che l’immagine è ciò che si vuole trasmettere, spesso attraverso l’artificio. Che sia allungata, tagliata, montata, truccata, colorata o corretta non ha nessuna importanza.
E chi non si ricorda il film in cui l’immagine presa dal reale non rappresenta il reale! Quando per esempio in Forrest Gump un attore, Tom Hanks, stringe la mano di un uomo politico defunto, J.F. Kennedy, questo avviene grazie alla magia degli effetti speciali. Possiamo comunque credo affermare che qualsiasi immagine in un certo senso è virtuale, in quanto la differenza tra un cane e la foto di un cane è che l’animale della foto non morde. Ma le parole hanno altre regole di quelle dell’uso.
Per quanto riguarda la strutturazione mediante il linguaggio, Christian Metz sostiene che il solo fatto di parlare di immagini porta a strutturarne il significato partendo dal linguaggio: si “parlano” le immagini più di quanto non si parli di immagini. “La lingua fa molto di più che transcodificare la visione… L’accompagna in permanenza, ne è la glossa continua, la spiega, la esplicita, al limite la realizza. Parlare dell’immagine in realtà è parlare l’immagine; non solo una transcodificazione, ma una comprensione, una risocializzazione, di cui la transcodifica è l’occasione. Il nominare completa il percepire mentre lo traduce”. Dunque alla parola è sempre associata quanto meno un’immagine mentale: l’immagine mentale della parola stessa, e l’immagine mentale di ciò che la parola rappresenta. Quindi parola e immagine sono totalmente inseparabili. Se ammettiamo che quando una persona parla ha una rappresentazione del mondo (anche se non sempre solamente visuale, ma pure acustica, tattile, ecc.) veniamo a concludere che parola e immagine sono entrambe costitutive del concetto, e che è possibile andare da una all’altra e viceversa.
Ma sarà proprio vero (come sostengono comunemente in molti) che l’immagine rispetto alle parole è riduttiva, in quanto escluderebbe l’immaginazione e una parte di riflessione? Conosciamo tutti il senso di delusione davanti ad un film, del quale in precedenza abbiamo letto il libro. Descrizioni di paesaggi o di personaggi che leggendo abbiamo potuto immaginare, vengono sostituite da immagini scelte da altri e fissate nella pellicola.
Se siamo del parere che l’immagine è un “analogo” del reale o una simulazione del reale, allora è vero che l’immagine ci costringe tanto quanto il reale che viviamo. Ma se pensiamo che l’immagine sia più del reale perché è il reale assunto in modo semantico, allora ci muoviamo verso l’astrazione. Un’immagine non rappresenta soltanto il reale, ma ha una sua demarcazione di significato, che può riferirsi anche ad altro. E quindi la limitazione è superata.
Nella pratica didattica, di fronte alla stessa immagine le interpretazioni verbali possono essere differenti, la costrizione non è rigida. Se gli studenti danno significati diversi è perché il senso richiama esperienze precedenti.
L’immagine presenta l’occasione di suscitare l’evocazione di una “rete” di immagini mentali. Possiamo quindi dire che l’immagine non si impone, ma propone in quanto richiama molte parti del nostro immaginario.