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Estetica e insegnamento

Quest’anno nel corso del seminario internazionale si è parlato dell’uso didattico di testi letterari e cinematografici. La scelta di occuparsi di testi letterari è stata dettata dalla proposta di una collega che insegna nelle scuole medie e si trova, a volte, di fronte a platee di studenti che non mostrano interesse verso la lettura di testi letterari e dei classici.

Tema attuale quello del crescente disinteresse verso i libri spesso argomento di discussione in trasmissioni radiofoniche, televisive e sui giornali. Da diverso tempo, prima che si iniziasse a lavorare a questo seminario, avevo iniziato ad interessarmi al fenomeno del calo dei lettori in Italia e avevo raccolto alcuni articoli di giornale in cui si parlava di questo argomento. Nel preparare questo articolo per gli atti, ho riletto questi ritagli e sono arrivata alla conclusione che è difficile farsi un’idea precisa di come stiano realmente le cose. Per cui, quello che tenterò di fare in questo scritto, sarà cercare di spiegare a me stessa, prima che agli altri, il mio pensiero sul presunto disinteresse dei giovani e dei meno giovani per la letteratura e la lettura, vedere se esiste una soluzione, dove deve essere ricercata e quanto possono fare gli insegnanti per arginare questo fenomeno.

Parto da un aneddoto familiare. All’università ho frequentato il corso di laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne, il programma dell’ultimo anno di Letteratura inglese prevede la lettura di una lunga lista di romanzi e poesie inglesi dell’Ottocento e primo Novecento. In questa lunga lista di testi da leggere e studiare mi sono imbattuta nel romanzo che senza esitazione posso definire il romanzo della mia vita: si tratta di un lungo romanzo di George Eliot Middlemarch. Ho amato questo libro dalla prima all’ultima pagina: l’ho letto in poco meno di due settimane, ho seguito con grande passione le vicende dei vari personaggi condividendone le avventure, le gioie, i dolori e le debolezze. Che grande dispiacere mi ha dato mio marito, quando dopo aver ricevuto in dono questo libro che io ritenevo meraviglioso, l’ha cominciato a leggere e mi ha subito detto che lo trovava noioso e sorpassato. Ne abbiamo discusso, ho cercato di convincerlo delle mie ragioni, ma non c’è stato niente da fare. Un giorno, però, nel corso di una conversazione con amici con mia grande sorpresa l’ho sentito citare un passo del libro nel tentativo di spiegare meglio i comportamenti di una persona di cui si stava parlando. La morale della deliziosa storiella domestica è che la passione per un romanzo non si trasmette come un virus e che non è detto che ciò che non piace in un primo momento non possa poi riuscire gradito nel tempo. Ciò va tenuto presente quando si insegna letteratura.

Nell’iniziare la mia riflessione sulla lettura e di riflesso sull’insegnamento della letteratura e sull’impiego di testi letterari in classe, innanzitutto, è bene cercare di capire cosa si intende per “letteratura”. Se si prende in mano un testo di storia della letteratura e lo si sfoglia, si capisce che esistono diversi generi letterari (prosa, poesia, teatro) e che gli autori vengono inseriti in questi testi perché la loro opera viene ritenuta significativa e rappresentativa di un determinato momento storico nonché espressione di certi principi estetici. Il dizionario della lingua italiana definisce la letteratura:

“Attività indirizzata alla produzione sistematica di testi scritti con finalità prevalentemente estetica e nei quali spesso l’invenzione predomina sulla descrizione della realtà. L’insieme della produzione prosastica e poetica di una determinata civiltà”.[1]

La finalità estetica implica un giudizio di valore non solo formale ma anche morale e culturale e infatti gli autori e le loro opere entrano a far parte dell’universo letterario perché come si legge sul dizionario della lingua inglese alla voce letteratura, si tratta di:

“Writings in prose or verse esp. writings having excellence of form or style and expressing ideas of permanent or universal interest”.[2]

Lo stile impersonale dei dizionari non focalizza l’attenzione su quelli che decidono quale autore elevare alla gloria degli altari e quale no e cioè i critici letterari. Ma costoro rivestono un ruolo molto importante perché nel bene e nel male indirizzano le nostre scelte e influenzano i nostri umori verso ciò che leggiamo. Sono persone autorevoli, esperte ma pur sempre esseri umani e come tali fallibili anche se competenti. In breve, anche se le regole e i principi esistono non devono essere considerati punti d’arrivo bensì di partenza.

Le storie della letteratura, i giudizi estetici, la critica letteraria e con loro gli uomini e le donne che ne sono gli artefici sono una realtà. La loro opera è sicuramente utile: ci informa, ci indica le strade da seguire, ci dà consigli, ma perché il loro lavoro acquisti un valore autentico, è necessario che non si guardi a loro con soggezione, ma che anzi si instauri con costoro un rapporto critico. È proprio da questi spazi apparentemente chiusi, territorio del già visto, fatto e detto che ogni uomo e ogni donna deve partire per il suo viaggio alla ricerca di soluzioni personali e quindi nuove.[3]

Inoltre, occorre tener presente che vengono prima gli autori di testi letterari e dopo vengono le teorie e le classificazioni. A questo proposito mi sembra illuminante una riflessione di Pavese proveniente da un quaderno che contiene la traduzione di un’opera di Shelley:

“L’arte italiana è quasi sempre partita dall’imitazione ora dell’arte classica, ora di correnti più moderne straniere. Ed è raro riuscire poeti nell’imitazione (si può, sì, riuscirvi, ma solo quando l’imitatore si sia impregnato dello spirito dell’imitato, ne abbia fatto spirito suo. Poiché l’ispirazione artistica nasce soltanto da sentimenti profondamente sentiti). Rendere il più sinceramente i propri stati affettivi interni, ecco quello che hanno fatto gli artisti più grandi, che noi chiamiamo creativi. E non teorizzando creeremo un’arte nuova, ma semplicemente facendo come quei grandi, cioè esprimendo noi stessi, esprimendo ciò che vi ha di più sentito in noi”. [4]

In queste righe Pavese riesce a individuare il principio che non solo dovrebbe essere il cardine della didattica della letteratura, ma anche del giudizio estetico.

Non ho intenzione di imbarcarmi in una disquisizione filosofica su forma e contenuto, su quanto l’una influenzi l’altra, ma ritengo importante sottolineare che quando si parla di letteratura la si deve pensare come l’espressione sincera e autentica dei sentimenti, delle idee, delle immagini interiori di una persona che diventa artista nel momento in cui dà vita ed espressione ai moti del suo animo che sono poi i moti di ogni uomo.

Dunque, sia come persone che come insegnanti dobbiamo tener presente che stiamo trattando un bene prezioso.

Dalla letteratura, passiamo a considerare l’universo dei lettori.

Stando a quanto si legge sui giornali e a quanto dicono gli esperti, il popolo dei lettori è in progressiva diminuzione, almeno in Italia. Le cause della disaffezione alla lettura vengono addebitate alle esperienze scolastiche e alla famiglia: la scuola annoia per eccesso di accademia, i genitori, non lettori, trasmettono il disinteresse per la lettura ai loro figli.

Una delle più belle immagini di iniziazione alla lettura l’ho trovata in un romanzo americano To Kill a Mocking Bird di Harper Lee. La piccola Scout, voce narrante del romanzo, in braccio al padre impara a leggere. Questa abilità acquisita in modo molto naturale, le costa una lavata di capo da parte della maestra il primo giorno di scuola. Ecco i pensieri della bambina dopo aver ricevuto il rimprovero dell’insegnante:

“I mumbled I was sorry and retired meditating upon my crime. I never deliberately learned to read, but somehow I had been wallowing illicitly in the daily papers. In the long hours of church – was it then I learned? I could not remember not being able to read Hymns. Now that I was compelled to think about it, reading was something that just came to me, as learning to fasten the seat of my union suit without looking around, or achieving two bows from a snarl of shoelaces. I could not remember when the lines above Atticus’ moving finger separated into words, but I stared at them all the evening in my memory, listening to the news of the day, bills To Be Enacted into Laws, the diaries of Lorenzo Dow – anything Atticus happened to be reading when I crawled into his lap every night. Until I feared I would lose it, I never loved to read. One does not love breathing”. [5]

Non tutti i genitori sono come quello di Scout: Atticus è un avvocato che esercita la sua professione in una piccola cittadina di uno stato americano del Sud, nei primi anni Trenta, è un uomo illuminato, è un bianco, difensore dei neri, è un uomo e un padre eccezionale con del tempo a disposizione. Non dimentichiamo, però, che stiamo parlando di un personaggio di un romanzo; la realtà, oggi, è ben diversa. Non tutti i genitori hanno il tempo e la voglia di leggere libri o giornali ai loro figli, e così lasciano e sperano che siano la scuola e la televisione ad occuparsene.

La scuola si trova di fronte ad un compito difficile da eseguire perché leggere, come dice Scout, è qualcosa che viene naturale, è come respirare.

Come posso imparare a respirare in un ambiente chiuso, dove non mi sento libero, a mio agio? Quanti insegnanti decidono, in barba ai programmi e alle valutazioni, di comportarsi come il professore del libro di Daniel Pennac Come un romanzo? Dice il professore ai suoi studenti che non amano leggere:

“Bene” dice il prof, “visto che non vi piace leggere….sarò io a leggervi dei libri”. [6]

I brani citati dai due libri sono diversi. Si tratta di due contesti diversi: nel primo siamo in famiglia, nel secondo a scuola. La differenza è solo apparente poiché, in realtà, i due brani condividono lo stesso spirito: sia Atticus che il prof non si aspettano niente in cambio, offrono l’uno alla figlia, l’altro ai suoi allievi la possibilità di fare un’esperienza senza preoccuparsi di sentirsi dire: “Bravo” o “Grazie”. Non forzano, accompagnano.

Troppo spesso, sia come insegnante che come genitore, l’essere umano ha la tendenza a dire all’altro cosa deve fare e come farla. Quando l’altro reagisce negativamente alla pressione o non mostra interesse, si è portati a vivere questa reazione come un rifiuto verso la propria persona. In realtà le cose non stanno così. Leggere è molto importante per la crescita spirituale e culturale di una persona, ma perché la lettura abbia effetto bisogna che la persona si senta libera di esprimersi, di decidere se vuole leggere oppure no.

Tanti insegnanti ed educatori avvertono l’urgenza di interessare gli studenti alla lettura di testi letterari perché nei libri c’è un tesoro d’esperienza che va conosciuto ed esplorato. Si è sempre alla ricerca di soluzioni originali che invoglino lo studente a leggere affinché questi non perda l’occasione di crescere, di allargare i suoi orizzonti.

Per un attimo occorre fermarsi e chiedersi in tutta franchezza: lo facciamo per noi o per lo studente? Deliberatamente lascio la domanda senza risposta.

Bisogna evitare che la spasmodica ricerca del modo di interessare lo studente alla lettura banalizzi il rapporto lettore-testo.

In un articolo di Nadia Fusini apparso su la Repubblica si legge:

“… il libro ci offre la compagnia di un rapporto silenzioso e intimo, di cui saremo noi a scegliere i modi e i tempi perché avvenga”. [7]

e ancora:

“La cerimonia [di un lettore]… esige comunque un ritiro solitario nella propria interiorità, per fare spazio alla parola che un altro ci offre, perché dimentichi di noi stessi possiamo ritrovare sentimenti, emozioni, pensieri che sono anche nostri”. [8]

È chiaro che le riflessioni di Nadia Fusini non si possono applicare alla pratica didattica, ma ritengo che comunque dovrebbe esserne tenuto presente lo spirito.

Dopo aver parlato di letteratura, lettura, lettori, è arrivato il momento di parlare di insegnamento, di didattica e del lavoro che è stato proposto al laboratorio che ho condotto con Letizia D’Amico e Luigi Micarelli. Due parole sull’attività didattica presentata: l’abbiamo chiamata “storia per immagini” o “fotoracconto” visto che gli studenti dopo la lettura di un racconto di Italo Calvino ( per la cronaca L’avventura di due sposi ) lo hanno trasposto in immagini servendosi di fotografie, collage e fumetti.

Devo confessare che nel corso della preparazione del laboratorio ho convissuto con una sensazione di disagio dovuta al fatto che trovavo difficile accettare che uno scritto di Italo Calvino (che, tra l’altro, non è uno dei miei autori preferiti) venisse in qualche modo associato al fotoromanzo che è, a torto o a ragione, ritenuto un genere testuale di basso livello. La sensazione di disagio è proseguita quando ho letto i commenti di alcuni studenti sull’attività svolta in classe. Leggendoli, non si trova nessun riferimento al testo letto; qua e là si dice che si tratta di un lavoro diverso dal solito, che si è imparata qualche parola di italiano in più, ma sul testo poco o niente; solo uno o due studenti hanno trovato il racconto di Calvino “troppo buono” per farne un fotoracconto. È pur vero che a loro era stato chiesto un commento su ciò che avevano fatto e a domanda hanno risposto, però se teniamo presente che la finalità era quella di invogliarli a leggere un testo letterario, l’impressione che si ricava dalle loro considerazioni è che il lavoro è stato molto faticoso e che il gioco non è valso la candela.

Il prodotto finito cioè la realizzazione di quella che abbiamo chiamato “storia per immagini” è pregevole dal punto di vista estetico, ma questo non è sufficiente. Nell’insegnamento, si dice sempre che il processo è quasi più importante del prodotto; qui, però, trovo una profonda frattura fra processo e prodotto: lascia sorpresi vedere un prodotto bello esteticamente e un processo tutto sommato povero e portato a termine con molta fatica.

Ritengo che la ragione di questa dicotomia risiede nel fatto che questa attività, pur avendo tantissimi pregi, non ha favorito un rapporto privato con il testo, ha semplicemente messo in grado gli studenti di parafrasare il testo. In pratica, gli studenti hanno ricreato e non creato; si sono anche divertiti alla fine, hanno lavorato bene, ma il tutto è accaduto al di fuori della loro interiorità.

Ritengo comunque che l’attività abbia validità didattica, ma è importante avere coscienza che non si è favorito un rapporto di dialogo sincero e intimo con il racconto.

Ho riflettuto a lungo sulla sensazione di disagio che ho provato nel corso della preparazione di questo lavoro e alla fine ho capito il perché di tutto ciò: il problema va rintracciato nella finalità che ci eravamo posti e cioè trovare una modalità che invogliasse gli studenti a leggere un testo letterario. Ma che significa leggere e, per uno studente di lingua straniera, capire un testo letterario?

Uno dei personaggi più tristi e patetici di Middlemarch è Casaubon; un uomo che trascorre tutto il suo tempo a leggere e studiare nella sua biblioteca, impegnato in una ricerca assolutamente senza senso. I suoi studi, le sue letture lo allontanano progressivamente dalla realtà (o forse sono una difesa?) rivelandosi del tutto inutili dal momento che non lo rendono capace di coniugare vita e studio. Alla fine muore miseramente così come è vissuto lasciando una giovane moglie insoddisfatta affettivamente e sessualmente.

Stimolare il desiderio di leggere nelle persone/negli studenti non deve significare accumulare nozioni su nozioni, storie su storie, parole su parole; non siamo agenti delle case editrici che devono incrementare il numero dei libri venduti. Se ciò che una persona legge non lascia un segno nel suo spirito, se non lo aiuta a diventare un essere pensante e critico, il nostro lavoro diventa mera accademia.

In Musica ed ecologia in prospettiva estetica Giulio Sforza afferma che:

“L’uomo qualunque cosa faccia, è chiamato a farla esteticamente, cioè a dilatare la sua sensibilità interna ed esterna”. [9]

È strano parlare di estetica parlando di insegnamento, ma ritengo che questa sia l’obiettivo che ci dobbiamo prefiggere non solo nella vita ma anche nell’insegnamento. Le idee di Sforza sono del lontano 1975, ribadite di recente alla fine degli anni ’80, ritengo che questa sia la sfida che la formazione degli insegnanti e la didattica, anche della letteratura, dovrebbero raccogliere per il 2000, se si ha ancora fiducia nel valore delle persone e si desidera che queste diventino esseri pensanti.

Mi rendo conto che tutto ciò che ho esposto è molto teorico. Molti penseranno che si tratta di idee astratte, magari belle, ma astratte. Ebbene ammetto che è vero. Sono del parere, però, che le astrazioni e le utopie servano per dare un’anima a ciò che facciamo perché:

“Le utopie sono il foraggio dello spirito. […] Nella tensione all’impossibile l’uomo realizza il meglio delle sue possibilità”. [10]

Vorrei chiudere questa mia riflessione sull’insegnamento della letteratura con le parole tratte da una recensione di Sandra Petrignani ad una raccolta di saggi di Virginia Woolf intitolata Il lettore comune:

“‘Ora che la critica è in declino…’ scrive Virginia Woolf (ed era il ’32), bisognerebbe che tanti ‘lettori comuni’ imparassero ad amare e a leggere i libri, a giudicare con simpatia seppure con grande severità, perché solo il loro amore e la loro passione, la loro competenza, aiutano davvero gli scrittori. Perché per scrivere un grande romanzo uno scrittore deve avvertire nell’aria questo amore e questa comprensione, questa passione comune e questa possibilità di essere capito. ‘E se grazie a noi (lettori comuni) i libri potessero acquistare forza, intensità e varietà, sarebbe un risultato di grande valore'”. [11]

[1] Zingarelli, Nicola, 1996 Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli.

[2] Dictionary of the English Language, London, Longman, 1984. “Scritti in prosa o in poesia, specialmente scritti di stile e forma pregevole che contengono idee di interesse universale e duraturo”.

[3] Chiavegato, Claudio, “Memoria, errore, fossilizzazione” in Christopher Humphris (a cura di), 1998 Insegnare una lingua: riflessioni e proposte. Atti del 10° seminario internazionale, Edizioni Dilit, p. 147 e altri scritti.

[4] Pietralunga, Mark Introduzione a Shelley, Percy Bisshe, 1997 Prometeo Slegato, Torino, Einuadi, p. XV.

[5] Lee, Harper, 1994 To Kill a Mocking Bird, Mandarin, pp. 19-20. “Mormorai che ero dispiaciuta e mi ritirai a meditare sul mio crimine. Non avevo imparato a leggere di proposito, ma in qualche modo mi ero pasciuta del fango dei giornali quotidiani. Nelle lunghe ore passate in chiesa – è stato allora che ho imparato? Non riuscivo a ricordare di non essere stata capace a leggere gli inni. Ora che ero costretta a pensarci, leggere era qualcosa che mi era venuta naturalmente, come imparare ad abbottonare la tuta da ginnastica senza guardare, o fare il doppio nodo delle scarpe, districando due lacci aggrovigliati. Non riuscivo a ricordare quando le righe sopra al dito in movimento di Atticus si erano separate in parole, ma le fissavo ogni sera, mentre ascoltavo le notizie di cronaca, i disegni di legge che diventavano leggi, i diari di Lorenzo Dow, qualsiasi cosa Atticus leggesse quando mi arrampicavo sulle sue ginocchia la sera. Finché non ebbi paura di non poter leggere più, non avevo mai amato leggere. Uno ama forse respirare?”.

[6] Pennac, Daniel, 1998 Come un romanzo, Milano, Feltrinelli, p. 88.

[7] Fusini, Nadia, “La cerimonia del lettore”, La Repubblica, 20 agosto 1996.

8 Ibid.

9 Sforza, Giulio, “Intuizione lirica della natura in Sforza, Giulio (a cura di), 1997 Musica ed ecologia in prospettiva estetica, Roma, Edizioni SEAM, p. 128.

10 Sforza, Giulio, 1976 La funzione didattica, Roma, Bulzoni, p. 112.

11 Petrignani, Sandra, “Come si legge un libro” in Diario della settimana, Edizione l’Unità.