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Visione analitica cinesica: qualche riflessione

“Sapete come si fa a far stare zitto un italiano? Basta legargli le mani dietro la schiena!”.

Questa barzelletta inglese è solo un esempio dei numerosi luoghi comuni sull’argomento: gli italiani usano le mani e le braccia per comunicare. Sarà vero?

Vi siete mai soffermati a osservare una conversazione tra due persone? La testa, gli occhi, le mani, le spalle dei parlanti si muovono, si fermano e si muovono ancora, in continuazione. Ma si tratta di un uso esclusivo e tipico degli abitanti del nostro paese?

Poyatos, studioso del settore, in uno scritto del 1983 afferma che la struttura comunicativa si compone di tre elementi strettamente correlati: linguaggio (verbale), paralinguaggio (altezza, volume, tono delle sillabe pronunciate) e cinesica (movimenti e posizioni del corpo) e che gli elementi paralinguistici e cinesici stanno al linguaggio verbale come la punteggiatura sta a quello scritto. Egli nota inoltre che in una situazione comunicativa reale, una frase pronunciata con una certa intonazione si ‘colora’ – grazie agli elementi paralinguistici e cinesici – di sfumature e cambiamenti semantici altrimenti impossibili da esprimere.

Secondo Poyatos è possibile ‘parlare una lingua’ ma anche ‘muovere una lingua’ e “la cinesica (…) è ciò che distingue la specie umana dagli altri animali (…)”. In tal modo ci conferma che l’uso del corpo – in particolare del viso e degli arti superiori – come mezzo di comunicazione non è solo italiano, ma universale.

Ecco un episodio che mi è stato raccontato da un inglese. Negli autobus di Roma c’era ancora il bigliettaio seduto in fondo alla vettura, all’estremità opposta rispetto al conducente, e le ‘conversazioni’ tra i due erano spesso fatte di gesti e ammiccamenti di vario genere. Sale sull’autobus una donna particolarmente rumorosa che urla e strepita e loro, quando questa scende, si ‘dicono’: “Che voleva quella?” “Ma che ne so! Secondo me era un po’ matta”, ma non pronunciano neanche una parola.

Una scena del genere per uno straniero è inconsueta e rimane nella memoria come un aneddoto da raccontare.

Esiste un intero sistema di segnali gestuali affiancato a quello verbale, e già da tempo è oggetto di studio e di ricerca. Già dal 1952 Birdwhistell affermava che l’insieme dei nostri gesti può considerarsi un vero e proprio linguaggio.

Lo straniero che arriva in Italia e desidera ottenere una certa competenza linguistica nella nostra lingua ha come obiettivo il raggiungimento di un’abilità comunicativa: vuole far arrivare all’altro i suoi significati e vuole che arrivino a lui i significati espressi dall’altro. Se il linguaggio gestuale rimane fuori dalla sua portata egli avrà perso una parte dell’insieme.

Nell’ambito della semiotica esistono molteplici campi di ricerca, uno di questi è la paralinguistica, che “studia, con la stessa precisione con cui un tempo si studiavano le differenze tra fonemi, le varie forme di intonazione, la rottura del ritmo d’eloquio, il singhiozzo, il sospiro, le interiezioni vocali, i mormorii e i mugolii interlocutori (…)” (U. Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 1975, pp. 21/22); altri due campi di ricerca, la cinesica e la prossemica sono “tra le discipline assestatesi più recentemente, nate in ambiente antropologico ma rapidamente affermatesi come discipline del comportamento simbolico: i gesti, le posture del corpo, la posizione reciproca dei corpi nello spazio (così come gli spazi architettonici che impongono o presuppongono determinate posizioni reciproche dei corpi umani), diventano elementi di un sistema di significazioni che la società non di rado istituzionalizza al massimo grado” (ivi, pp. 21/22).

Con un solo gesto è possibile esprimere un’idea che verbalizzata richiederebbe molte parole. In Italia siamo maestri in quest’arte, che però rimane quasi sempre fuori dalla portata dello straniero anche più volenteroso e intraprendente. Un conto è chiedere “come scusa?” quando non si capisce una parola o un’espressione, un altro conto è fare la stessa domanda perché non si è capito il significato di un gesto. Un amico straniero mi ha raccontato che una volta in treno ascoltava la conversazione tra un uomo e una donna di una certa età (italiani), a un certo punto lei ha detto qualcosa tipo “quanti problemi mi danno questi figli!” e lui, invece di rispondere, ha fatto un gesto semplicissimo ma difficile da descrivere, una specie di semicerchio con la mano destra accompagnato da un movimento della testa e da un “Eeeh!”. Tutto l’insieme voleva dire: “Non lo dica a me… anche io avrei da raccontarne delle belle!”, ma il mio amico non riusciva proprio a capire se quel movimento volesse significare solidarietà o dissenso rispetto a quanto la signora aveva detto.

Non si può negare che l’Italia abbia un vocabolario gestuale particolarmente ricco e vario: da noi è possibile intavolare dialoghi anche di 3 o 4 battute senza proferire parola, e non so se questo accade anche altrove. Perché non permettere agli studenti di sviluppare l’abilità di comprendere anche questo tipo di linguaggio parallelo, coesistente con quello verbale?

Esiste un vero e proprio codice, che appartiene al processo comunicativo non verbale; tale codice è ricco quanto quello morfosintattico, ma più difficilmente codificabile, forse perché più sfuggente e aereo, forse perché non scritto, non riproducibile, né documentabile se non con i moderni mezzi di registrazione audiovisiva.

Le finestre di casa mia affacciano su un largo marciapiede occupato quasi interamente dai tavoli di un ristorante che d’estate è sempre molto affollato; dall’alto del mio terzo piano riesco a vedere solo i tavoli non nascosti dal fitto pergolato. Non sento le parole delle persone, non ne vedo bene i visi, ma ho una perfetta visuale delle loro braccia e mani e spalle e della loro posizione sulla sedia (per non parlare della calotta cranica e dei nasi). Mi affaccio e osservo per un po’. Famigliola con papà grassoccio e baffuto seduto di fronte ai due figli adolescenti, l’uomo risponde improvvisamente al telefonino che sta lì sul tavolo e comincia a gesticolare, le mani aperte. Intuisco che sta spiegando qualcosa a qualcuno che fatica a capirlo, sembra concitato ma non arrabbiato, quando ha finito si rivolge alla moglie, dai gesti so che le racconta la telefonata, elenca i punti che l’interlocutore non capiva, il tutto inframmezzato da commenti sul cibo, rimproveri ai figli seduti scomposti… Non ho ascoltato neanche una parola eppure ho ricevuto moltissime informazioni.

Forse c’è il modo di mettere lo studente in condizione di fare lo stesso. Perché limitarsi ad affidare l’acquisizione di questa abilità solo al caso, per poi magari scoprire, come hanno riferito diversi insegnanti durante il nostro laboratorio, che gli studenti utilizzano i nostri gesti, quelli italiani, in modo inappropriato, fuori tempo e luogo, in modo inefficace dal punto di vista comunicativo?

Anche la testimonianza degli insegnanti intervenuti al seminario, che hanno raccontato la difficoltà degli studenti di fare propri i gesti della nostra lingua, ci conforta nell’idea di rendere la cinesica oggetto di studio e approfondimento. L’unico modo per consentire allo studente di ‘muovere’ l’italiano oltre che parlarlo, è proprio quello di sottoporre alla sua attenzione un campionario il più vasto possibile di gesti e chiedergli di operare una sorta di lettura analitica per decodificarli e comprendere i significati, ma anche le sfumature, che questi veicolano. Lo stesso gesto ha infatti diversi significati a seconda del contesto, ma non è così anche per il linguaggio verbale? Non è per questo che facciamo la lettura analitica?

Certo, offrire agli studenti un campionario ricco e vario di gesti autentici non è impresa facile. Anche noi, durante la preparazione del laboratorio, abbiamo dovuto affrontare numerose difficoltà di ordine più o meno pratico. Dove cercare il materiale: l’esclusione del film perché non autentico ma recitato, la scelta del talk-show e la preferenza data a una puntata in cui si affrontava un argomento scottante, che ha infiammato gli animi, provocando una gestualità più accentuata. In che modo isolare ciascun gesto per sottoporlo all’attenzione e all’analisi degli studenti: questa è stata la difficoltà maggiore; dopo vari tentativi (foto, fermo immagine, ecc.) abbiamo messo a punto la modalità descritta dettagliatamente nell’articolo di Susanna Andrei.

L’obiettivo che ci eravamo prefissate era suscitare interesse, attenzione e curiosità per un argomento che troppo spesso è stato trascurato dai corsi di lingua e che invece, a nostro parere, non dovrebbe esserne escluso, specialmente da un corso di italiano.

Quando abbiamo chiesto agli insegnanti presenti al laboratorio se avrebbero voluto svolgere quest’attività nelle loro classi non abbiamo avuto neanche una risposta negativa. Tuttavia, per quanto ci riguarda, non sappiamo ancora quantificare la percentuale che la visione analitica cinesica potrebbe occupare all’interno di un corso di lingua e siamo certe che la modalità di esecuzione dell’attività da noi presentata si possa ancora modificare e migliorare.

Inoltre, la lettura analitica è solo una delle numerose attività possibili suggerite dalla cinesica; di certo il ventaglio di possibilità a nostra disposizione per migliorare la capacità dello studente di comprendere e usare i gesti italiani è molto ampio e ancora tutto da esplorare e sperimentare. Aspettiamo con fiducia i pareri e i consigli dei colleghi.