Enter your keyword

Ti vedo come tu ti vedi?

Una delle osservazioni che non pochi partecipanti all’ultimo seminario internazionale ci hanno fatto, è stata quella di aver dedicato poco spazio alla possibilità di discutere, di fare domande, forse di esprimere critiche, alla fine di ogni laboratorio a cui hanno partecipato. Ebbene, mi rendo conto, ora che è venuto il momento di scrivere l’articolo per gli Atti, che questa parte manca anche a me, che corro il rischio di non riuscire a scrivere niente di più che una banale cronaca, fatta più di frasi afferrate al volo, mentre le mie colleghe ed i miei colleghi discutevano tra loro, che di discussioni che avrebbero sicuramente arricchito anche me e che mi avrebbero dato motivi di riflessione più profonda rispetto al tema scelto insieme a Luisa e da noi proposto.

“La percezione che l’insegnante ha dello studente” era una parte di ciò che abbiamo sottoposto all’attenzione di chi è intervenuto al seminario, e partiva dalla quotidiana sensazione di essere, troppo spesso, prigioniere di una trappola che rischia di sbilanciarci costantemente nella nostra relazione con i singoli studenti e con la classe, questo “superindividuo” che non è mai la somma delle singole personalità. Nell’usare il termine “sbilanciarci” ho in testa qualcosa di molto preciso: perdere il nostro centro interiore, perdere quella sorta di baricentro psichico che ci permette, a mio parere, di rimanere noi stessi, con la consapevolezza e la responsabilità di ciò che stiamo facendo, mantenendo, nello stesso momento, la capacità di rimanere in ascolto, per percepire cosa succede a chi ci sta intorno, nello specifico ai nostri studenti. Purtroppo per noi, però, temo che la strada sia più complicata di quello che sembra, in primo luogo perché ognuno di noi dovrebbe, per percepire l’altro “Prender coscienza di un fatto esterno attraverso una sensazione” (Devoto-Oli, Dizionario della Lingua italiana), quindi percepire prima di tutto se stesso/a e le emozioni che ci provocano le parole ed i gesti dell’altra persona mentre, normalmente, quello che avviene è che attribuiamo all’altro/a pensieri, emozioni che non riusciamo ad accettare dentro di noi, che ci creano un problema. In secondo luogo perché la nostra tendenza è, io credo, più quella di interpretare ciò che l’alto dice o fa che quella di provare a percepire. Ma anche interpretare, cioè “Tradurre in termini razionali accessibili l’essenza di un testo oscuro, simbolico o eccessivamente personale…” (cito sempre dal Devoto-Oli) è qualcosa che rischiamo di fare sempre a metà o, peggio è una operazione funzionale ad inserire la persona-studente che ci sta di fronte in una categoria conosciuta per noi e quindi rassicurante.

C’è un punto della registrazione relativa all’intervista da noi fatta all’insegnante dopo il colloquio che l’insegnante stessa aveva avuto con la studentessa del suo corso in cui il dubbio di avere troppo interpretato si fa strada nella testa della collega.

Domanda: E senti un po’, ma quando lei ha parlato di metodo accademico, che vuol dire per lei accademico?
Risposta:  Forse io ho interpretato e non l’ho fatta… non le ho detto di precisare meglio, io ho inteso con accademico tradizionale. Può essere che forse intendesse qualche altra cosa. Ma per me, insomma…
Domanda: Quindi tu non le hai fatto delle domande particolari su, accademico in che modo, in che senso.
Risposta:  No. No. Perché ho ipo… Io pensavo di aver capito. Pensavo. Forse ho presupposto male.
Domanda: No, e perché hai presupposto male?
Risposta:  Può essere che , magari, per accademico lei intendesse un’altra cosa. Io l’ho interpretata così e non mi sono dilungata.

Ascoltando questo pezzo mi sono chiesta quante volte io ho fatto la stessa cosa, quante volte mi sono fermata alle parole che l’altro/a mi stava dicendo, quante volte ho dato per scontato che la definizione non solo abbracciasse per entrambi/e lo stesso campo di significati ma, cosa ben più grave, corrispondesse allo stesso tipo di esperienze esistenziali. Quello che voglio dire è che il limite del non aver chiesto, da parte dell’insegnante, non è quello di rischiare di avere una definizione diversa dallo studentessa di ciò che significa il termine “accademico”, ma quello di non sapere cosa rappresenti nella vita di quella persona, nel suo campo di valori e nella sua esperienza emozionale. In compenso, è possibile che quella persona sia stata repentinamente inserita in una precisa categoria, cosa che, altrettanto probabilmente, potrebbe aver determinato, da parte dell’insegnante, tutta una serie di scelte didattiche e di comportamenti nella classe. Non posso dimostrarlo per quanto riguarda la situazione specifica, ma posso affermarlo con estrema sicurezza per quanto riguarda me e le infinite volte in cui ho percepito il mio disappunto verso me stessa nell’accorgermi di miei comportamenti alterati da ciò che presupponevo di aver capito dai messaggi più o meno espliciti dei miei studenti che, in qualche modo mi avevano condizionato magari in una direzione che non ritenevo didatticamente coerente ma che avevo scelto ritenendola più soddisfacente ed accettabile per il/la mio/a studente/ssa. Intendiamoci, non vi sto proponendo di entrare tutti in analisi (cosa che, peraltro, non farebbe male a nessuno, men che meno a chi, come noi, ha scelto un lavoro in cui non ha davanti oggetti, ma materiale umano con cui condivide un’esperienza intensa e profonda sia intellettualmente che emozionalmente), sto solo cercando di riflettere insieme su fatti, azioni, giudizi, relazioni che quotidianamente influiscono sul nostro lavoro.

Dunque, quello che vi propongo e mi propongo come prima cosa è di cominciare a “leggere” gli studenti come “testi oscuri, simbolici ed eccessivamente personali”. Con una sostanziale differenza: che mentre un testo ci darà solo le risposte che noi vogliamo, una persona ci darà le sue risposte attraverso cui avremo molte più possibilità di verificare se ciò che noi intendiamo o pensiamo di aver capito si avvicina, coincide o diverge completamente da quello che l’altro/a intende. Come ho già detto, inserire una persona in una categoria a noi conosciuta è una operazione rassicurante che ci permette di muoverci in un ambito conosciuto e che permette al nostro “giudicare” di avere sempre, o quasi, ragione: eppure, spesso, quando modifichiamo i nostri comportamenti in classe è anche perché ci sentiamo analizzati, giudicati, a volte vivisezionati dai nostri studenti. E può darsi che sia davvero così, visto che anche loro hanno la nostra stessa esigenza di incasellare e giudicare. Ma per avere un minimo di certezza che ciò che pensiamo corrisponde alla realtà, dovremmo almeno avere il coraggio di verificare attraverso domande dirette, esplicite, coraggiose, cosa che non credo facciamo spesso. Se così non è dobbiamo almeno accettare il dubbio che il “giudicare” che noi vediamo in loro è il nostro giudicare.

Nella stessa intervista la collega afferma, ad un certo punto, con assoluta certezza che la sua studentessa insegna all’università e che per questo motivo sa che usando l’ironia le lezioni sono più efficaci nel senso che gli studenti imparano meglio. Bene, in nessun punto del colloquio tra loro due (colloquio che è stato videoregistrato, per cui chiunque volesse verificare può farlo) la studentessa fa una affermazione del genere e, quando nella successiva intervista le chiedo quale sia il suo lavoro mi risponde che lavora nel cinema, che fa la produttrice. E quando ho chiesto alla mia collega di dirmi da dove avesse preso quell’informazione, mi ha onestamente detto che non lo sapeva.

Il fatto più incredibile è però che qualcuna delle persone che ha partecipato al laboratorio ha ipotizzato che la studentessa avesse detto una bugia a me. Ora, io non so per quale motivo questa persona avrebbe dovuto fare una cosa simile, ma devo confessare che quando il collega ha detto questo ho riflettuto su quanto per lui fosse quasi inaccettabile che l’insegnante, per chi sa quale motivo, avesse “creato” un’informazione assolutamente inesistente mentre era assolutamente credibile che la studentessa dicesse il falso. Spero, francamente che quel collega si fidi di se stesso un po’ più di quanto si fida dei suoi studenti!

Il punto su cui mi sono soffermata a riflettere è stato però un altro: se io fossi stata al posto dell’insegnante quanto mi sarei sentita, nella mia attività quotidiana in classe, controllata e giudicata da una “accademica”? Quanto, questo avrebbe influito sulla mia autonomia didattica? Quanto avrei cercato di adeguare il mio insegnamento al modello che ipotizzavo la studentessa mi stesse proponendo? Non ho una risposta certa a questa domanda, ma di una cosa sono sicura: che la mia attenzione sarebbe, più o meno coscientemente, stata polarizzata su di lei, e che magari avrei dato meno attenzione ad altri studenti, li avrei guardati di meno, avrei forse dato loro un po’ meno spazio durante alcune attività, avrei parlato meno con loro durante la pausa.

Percepirsi e percepire, interpretarsi ed interpretare l’altro, giudicarsi e giudicare, proiettare propri vissuti ed accettare di essere lo specchio dei vissuti altrui è l’eterno gioco delle relazioni umane: provare ad uscire da questo meccanismo è, per me, il lavoro di chiunque si proponga di diventare adulto/a. Riuscirci completamente è forse impossibile e, comunque fa parte di una scelta personale a cui nessuno può essere obbligato. Essere però consapevoli che nel nostro lavoro si giocano relazioni primarie e per questo delicatissime è qualcosa che, io credo, fa parte della nostra professionalità e della nostra eterna formazione: “È stato solo nei miei ultimi anni di insegnamento che stendendo il programma annuale mi sono trovata a riflettere che il mio obiettivo principale nel corso degli anni si era spostato sempre più dalla semplice materia che insegnavo alla qualità della relazione che instauravo con gli studenti per insegnarla. E, paradossal­mente, credo di essere stata un’insegnante migliore negli ultimi anni, quando mi consideravo un’insegnante “sufficientemente buona” (o decente, come mi veniva spesso da dire!) piuttosto che nei primi anni quando al contrario mi consideravo un’ottima insegnante. Allora ero tutta presa dalle frenesie degli aggiornamenti d’ogni genere che però raramente avevano come oggetto di conoscenza il bagaglio personale con cui ognuna di noi affronta la relazione e che la condiziona esattamente come il ragazzo dall’alta parte.

Perché anche l’insegnamento avviene all’interno di una relazione che si interiorizza e che può contribuire, insieme a tante altre (…), a valorizzare oppure mortificare, a stimolare la fiducia in sé oppure a svalutarla. E in una relazione rientrano prima o poi anche tutte le caratteristiche mentali della persona che noi siamo in quel momento della vita, compresa la violenza delle rabbie nostre e altrui che spesso ci spaventano tanto.” (Il bambino arrabbiato. Alba Marcoli. Oscar Saggi Mondadori 1996).