Quanto un principiante parla nella lingua bersaglio
ovvero… c’è un Michelangelo in ognuno di noi
Questo capitolo è dedicato agli insegnanti di lingua straniera che almeno una volta nel corso della carriera hanno provato il desiderio, come Michelangelo con il suo Mosè apparentemente perfetto, di colpire il ginocchio di un loro allievo con un immaginario martello, pronunciando la leggendaria frase: “Perché non parli?”
Una tale, sana frustrazione può averci assaliti a patto che fossero presenti due condizioni ben precise: innanzitutto la consapevolezza che per imparare a nuotare è indispensabile familiarizzarsi con i movimenti e le reazioni del nostro corpo a contatto con l’acqua. Basta pensare agli innumerevoli tentativi di Roberto ne “L’isola del giorno prima” di Umberto Eco. In altre parole non ci si può affidare unicamente alla teoria; e ciò è valido non soltanto nello sport, ma anche nello studio di una lingua viva. Una persona che conosce perfettamente la tecnica del nuoto senza averla mai sperimentata, ha forti probabilità di annegare se all’improvviso si vedesse costretto a tuffarsi in mare.
Mi scuso per le banalità. Molti dei lettori, non tutti, sono già convinti della necessità di spingere i loro studenti a far pratica il più presto possibile, in modo ovviamente graduale, nella lingua bersaglio. È sempre bene comunque sottolineare l’importanza di questo obbiettivo perché, forse per la difficoltà e il dispendio di energie che l’impresa di far parlare i principianti in una lingua straniera a volte comporta, si ha tendenza a dimenticarlo o ad accantonarlo.
La seconda condizione è di aver fatto quanto possibile per mettere in atto il programma che deriva dalle considerazioni precedenti. Eppure non è insolito che, nonostante tutti gli sforzi, il risultato, se c’è, sia invisibile.
Il laboratorio
Il laboratorio si è proposto di offrire uno spunto di riflessione su questo argomento, che del resto viene raramente trattato, senza pretendere di elargire una ricetta miracolosa.
Un breve questionario ha introdotto il tema:
È utile parlare nella lingua bersaglio in una classe di principianti? (il soggetto del parlare sono ovviamente gli studenti).
Se sì, quanto, quando e perché?
Se no, perché?
Sono seguiti 8 minuti di riprese filmate selezionate da una lezione d’italiano in un livello di principianti con 60 ore di studio alle spalle. La telecamera era stata puntata in particolar modo su Kevin, studente che mi ha poi accordato un’intervista, colto in 4 momenti diversi.
Il video
La prima sequenza del video riprende Kevin affiancato da Anders. Hanno l’incarico di organizzare insieme una festa per la classe. L’intento dovrebbe essere quello di dargli l’occasione di usare liberamente il loro italiano, anche se precario. In realtà la scelta dell’accoppiata è volutamente sbagliata, perché so che la tentazione di parlare in inglese sarà troppo grande. Lo scopo vero è invece di provocare qualche reazione nei partecipanti al seminario.
In realtà Kevin, consapevole di essere registrato, ma non di essere ripreso con la videocamera, ogni tanto fa qualche raro sforzo traducendo in italiano delle frasi espresse prima nella lingua madre, ma la conversazione, molto lenta, si svolge prevalentemente in inglese.
Nella seconda sequenza K. ha uno scambio spontaneo con la classe sempre riguardo ad alcuni dettagli della festa. Non tutti gli studenti capiscono l’inglese e quindi per farsi capire utilizza l’italiano. Poi, però, per accelerare la comunicazione traduce in inglese per quelli che lo possono capire.
Durante una Ricostruzione di conversazione, attività controllata, K. si impegna con successo e aiuta un’amica a pronunciare correttamente una frase.
Si ritorna alla conversazione libera. Questa volta K. è circondato da orientali che non hanno altra lingua in comune con lui se non l’italiano. Lo scambio di idee è vivace ed abbastanza efficace e soprattutto si svolge quasi esclusivamente nella lingua studiata.
Il comportamento di K. non è emblematico
Il motivo per cui ho valutato Kevin più interessante di altri era che sapevo con certezza che il suo non parlare nella lingua bersaglio non era tanto legato a difficoltà d’ordine linguistico, ma piuttosto a un atteggiamento o addirittura a una decisione consapevole.
Questo è quanto si può dedurre, almeno, dall’intervista che segue, preceduta da un identikit.
L’intervista a Kevin
(L’intervista si è svolta per metà in italiano e per metà in inglese, ma ne riporto la traduzione).
Età: 18 anni
Nazionalità: australiano.
Studio dell’italiano: alla scuola pubblica per 3 anni, 4 ore alla settimana. Aveva occasione di parlare soltanto durante esercizi strutturali che, secondo la sua definizione, erano noiosi. Ha studiato un po’ anche qui a Roma per conto suo. Guarda la televisione italiana per circa un’ora e mezza al giorno. È un appassionato di Ambra.
Ore di studio alla Dilit: 60.
Cosa vuol fare da grande: regista e produttore cinematografico.
Altro: Si trova a Roma da 3 mesi e mezzo per seguire il padre che lavora alla F.A.O.
Motivazioni: studio, famiglia, affetti.
D: Perché studi l’italiano in questa scuola?
R: Perché mi ci ha mandato mio padre! (ride) No, no. Sto scherzando. Voglio studiare a Cinecittà e quindi dovrò parlare molto bene in italiano. Credi che per agosto il mio italiano sarà abbastanza buono per frequentare l’università?
D: Dipende. Hai amici italiani?
R: A Melbourne abitavo in un quartiere molto misto e il 40% circa degli studenti della mia scuola erano figli di immigrati italiani. Molti di loro sono miei amici.
D: Parlano l’italiano?
R: Con me no, ma tra di loro parlano un misto di inglese e di dialetto italiano. Per esempio dicono frasi come: “I don’t want to mange“. In più una zia di mia madre è italiana, ma parla solo dialetto.
D: E a Roma conosci qualcuno?
R: Sì, Mirko, il figlio del portinaio del condominio dove abito. È molto simpatico, ha la mia stessa età. Io sto al 5° piano e lui al 1°. Ci vediamo quasi tutti i giorni. Lui mi insegna il romano, è molto divertente.
D: Conosce l’inglese?
R: No.
La sua produzione orale in italiano
Fuori dalla scuola
D: Come pensi che sia il tuo italiano orale?
R: Abbastanza buono.
D: Ti capita spesso di parlare in italiano?
R: Sì. Cerco di parlare con il maggior numero di italiani possibile, perché è un sistema ottimo per migliorare la lingua. Per me non è un problema parlare con la gente e non ho paura di fare errori. (Quasi sicuramente questa risposta è condizionata da un lungo chiarimento che avevo dato qualche giorno prima in classe sul metodo di apprendimento delle lingue straniere).
D: Parli sempre in italiano?
R: No, solo se mi trovo con qualcuno che non capisce l’inglese. Insomma, dev’essere una situazione obbligata.
In classe
D: Qual è secondo te la percentuale di tempo che trascorri in classe parlando in inglese?
R: 30-40%.
D: Quali sono i momenti in cui parli in inglese invece che in italiano?
R: Quando non so come si dice.
D: Hai notato che tu ti rivolgi sempre a me in inglese e dopo che ti chiedo “Come, scusa?” mi ripeti la domanda in italiano?
R: Beh, parlare in inglese è più facile e anche più veloce.
D: Perché con Nina, Christian, Anders ecc. parli sempre in inglese? Per loro l’inglese è una seconda lingua.
R: Perché con loro non è necessario parlare in italiano e poi mi diverto di più.
Le idee
Ecco alcune delle idee che questa esperienza documentata ha suggerito. I presenti, in un tempo limitato di circa 45 minuti in totale, hanno discusso in piccoli gruppi prima e in plenum poi.
Riferendosi all’intervento di Bartolomea Granieri [ndr: in questo volume] è stato nuovamente notato come lo studente si senta psicologicamente un bambino, specie durante le prime fasi dell’apprendimento. La sua posizione è particolarmente fragile e l’insicurezza che ne deriva è naturale. Ma è necessario costringere l’allievo ad esprimersi nella lingua studiata o non è meglio raggiungere il traguardo lentamente? Molti hanno ritenuto che un richiamo costante dell’insegnante all’uso della lingua sia indispensabile. Secondo altri è sufficiente avere un buon rapporto con lo studente per trovare una soluzione a ogni problema linguistico.
A me sembra che la realtà dei fatti sia ben più complicata, ma certo pochi minuti di riflessione non bastano a sviscerare il problema. Ho voluto proporre il ritratto di uno studente in particolare, proprio per ridurre l’area da approfondire, rimanere nel concreto e non cadere nelle generalizzazioni.
Più penso a K. e più le ipotesi sul suo caso si moltiplicano. Fin da quando l’ho visto in abbigliamento rap con quella berretta di lana sempre in testa ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a un adolescente, più che a un bambino; un adolescente un po’ ribelle alla ricerca di una sua identità e di un gruppo di appartenenza. Fin dal primo giorno K. ha cercato un rapporto privilegiato con me sedendosi in prima fila e prendendo l’iniziativa in dialoghi che escludevano il resto della classe. Anche un bambino vorrebbe la madre tutta per sé, ma lui, insieme a un altro, è stato l’unico in quella classe ad imporsi. Benché lo trovassi istintivamente simpatico e intelligente ho scoraggiato questo suo atteggiamento che consideravo controproducente per gli altri allievi. Il rapporto si è mantenuto buono, anche fuori dall’aula, eppure la sua insistenza nel parlare in inglese può essere stata una provocazione, conseguenza del mio rifiuto (posto con tutte le cautele possibili) di metterlo al di sopra degli altri.
Forse, invece, avendo appena raggiunto una certa sicurezza da adulto, K. non si sentiva di ritornare bambino. Se è vero, infatti, che la relazione psicologica “madre-figlio” che si riproduce a scuola tra insegnante e studente può causare dei problemi, il ritornare bambino può anche favorire l’apprendimento. I bambini sono per natura curiosi, elastici, aperti in modo acritico a qualsiasi novità, non conoscono i pericoli e amano giocare, cioè sperimentare divertendosi. In teoria dovrebbero essere degli studenti ideali. Il divenire adulto ci irrigidisce, crea intorno a noi una corazza di protezione, vogliamo far valere a tutti i costi la nostra posizione. A maggior ragione un adolescente non vorrà abbandonare una corazza conquistata spesso da poco e con enorme fatica. Non c’era verso quindi che K. sottostasse alle mie istruzioni.
Bisogna anche considerare la possibilità che il suo aspetto un po’ strafottente nascondesse una normale timidezza, la paura del pericolo di fare brutta figura. Prova ne è che durante l’attività controllata, la Ricostruzione di conversazione, in cui praticamente si cammina su delle rotaie, il ragazzo ha dato il meglio di sé.
Ma c’è pure un altro aspetto. Non si può trasgredire alle regole date, per esempio parlare in italiano, senza la complicità degli altri studenti. Trasgredire insieme è bello, rafforza i legami, si tratta di un’esigenza affettiva di coesione nel gruppo. Tutti gli studenti del mondo usano un loro gergo con il duplice scopo di aumentare il grado d’intimità all’interno del gruppo ed escluderne gli estranei. Per molti studiare una lingua straniera è un’esperienza di vita. K. non è stupido, aveva perfettamente capito quale fosse il meccanismo d’apprendimento, però quando il rapporto umano prevaleva sul desiderio di migliorare la lingua, quando l’urgenza di comunicare o di fare battute di spirito era forte ricorreva senza alcun ritegno all’inglese, anche se sapeva di sbagliare.
E per finire siamo sicuri che, quando nell’intervista K. ha detto che studiava l’italiano perché l’aveva mandato il padre, stesse completamente scherzando?
Le strategie
Quale strategia adottare in una situazione simile?
Devo dire che richiamarlo all’ordine o il fatto di avere un buon rapporto con lui non è bastato. All’inizio ho fatto finta di ignorare quelle che mi parevano aperte provocazioni, poi l’ho preso scherzosamente in giro, in seguito l’ho dolcemente minacciato (“Se vuoi parlare in inglese per me non è un problema, purché vada al bar”).
Infine ho cercato di renderlo partecipe del processo di apprendimento. Quest’ultima tattica non dà esiti immediati e il futuro regista è rimasto solo per un mese. L’unica soluzione efficace è stata quella di accostarlo a studenti che non parlassero la sua lingua.
Non ho potuto verificare i risultati a lungo termine anche se sono piuttosto ottimista. Alla cena d’addio della classe K. ed io abbiamo fatto una bella chiacchierata… in italiano!