Lezione di giapponese
I partecipanti al seminario non sapevano che l’attività della lezione sarebbe stata una Ricostruzione di conversazione, tutto quello di cui erano a conoscenza era che si trattava di una lezione di giapponese.
Al momento del mio arrivo in classe gli “studenti” erano già seduti, disposti in un semicerchio rivolti verso quello che era il mio spazio d’azione. Entrando ho posato i due telefoni che avevo portato con me, uno su un tavolino ed uno su una sedia non troppo distante ma abbastanza per dare l’idea di due luoghi diversi. Era chiaro per tutti a questo punto che, di qualunque tipo fosse stata l’attività, si trattava di una conversazione telefonica e quindi con due interlocutori.
Senza dire assolutamente niente comincio la mia lezione.
Mi avvicino ad un telefono, alzo la cornetta e compongo un numero telefonico, il tutto sempre dando le spalle all’altro apparecchio proprio per distinguere bene i due diversi luoghi (in quanto, trattandosi di una conversazione telefonica, gli interlocutori non possono certo guardarsi). A questo punto indico l’altro telefono e pronunciando un “drinn” lascio questa prima postazione per prendere la seconda ed interpretare l’altro ruolo. Sempre senza parlare, rispondo al telefono e rivolgendo uno sguardo interrogativo alla ‘classe’ aspetto un fantasioso “pronto” in giapponese, che però (come previsto) non arriva e che quindi sono io, mantenendo il mio secondo ruolo di ricevente, a dire “Moshi moshi”.
Qualcuno già comincia a pronunciare questo “Moshi moshi” mentre io, abbandonata la scena e riappropriatami del mio ruolo di insegnante, faccio ripetere la battuta singolarmente e in coro, dopo averlo fatto io per prima. La ripetizione avviene più di una volta, non soltanto per un problema di articolazione dei singoli fonemi e di memorizzazione della battuta, ma anche per curare e migliorare l’intonazione.
Una volta accertatami che questo “moshi moshi” sia stato preso da tutti, vado avanti con la mia interpretazione.
Rientro nella scena assumendo però la prima posizione (e cioè quella di chi telefona) e questa volta da qualcuno viene proposto, con una certa spontaneità e con un po’ di soddisfazione, un altro “moshi moshi” da me accettato. Lascio nuovamente la zona teatro e ricomincio con il lavoro di ripetizione.
Vado avanti con la mia interpretazione mantenendo il ruolo di autore della telefonata, che a questo punto pone una domanda all’interlocutore. Il significato della domanda è quello di sapere se il numero da lui/lei composto corrisponde veramente a quello di casa Suzuki. Per rendere chiaro tale concetto (sempre senza dire niente) alla lavagna scrivo :”Suzuki?”. Mi impossesso nuovamente del ruolo di autore/autrice della telefonata, alzo la cornetta e ancora una volta il mio sguardo interrogativo è su di loro.
Il problema che a questo punto si è presentato per alcuni dei partecipanti è stato quello di non capire se Suzuki è un nome od un cognome, il che avrebbe portato ad una diversa comprensione della domanda.
Infatti intendendo Suzuki un nome, il concetto della richiesta sarebbe potuto essere di questo tipo: “Posso parlare con Suzuki?” e risultare quindi diverso. Il tutto comunque si è risolto senza il mio intervento, quando uno degli “studenti” ha chiarito agli altri che si trattava di un cognome. Nel caso in cui ci fosse stato bisogno del mio intervento, avrei scritto alla lavagna il mio nome e cognome ed avrei unito con una freccia il mio cognome a Suzuki, mettendo una croce sul mio nome:
Silvia De Angelis → Suzuki
Eliminato il dubbio, il significato della domanda si è rivelato chiaramente a tutti ed ho potuto continuare dicendo: “Suzuki san no otaku desuka?”. Facce attonite e risate disperate (ma anche un po’ divertite) dilagano per la classe, mentre i più coraggiosi tentano di ripetere la nuova battuta. (Perché gli “studenti” avessero più chiara la battuta ho ripetuto la domanda aiutandomi con le mani: ciascun dito indicava una parola.)
Riparte così tutto il lavoro di ripetizione, seguendo tutte le modalità necessarie per la buona riuscita di una ricostruzione di conversazione, questa volta però con un maggiore dispendio di energia, vista la complessità della battuta.
A questo punto la conversazione comincia a prendere corpo e conclusasi questa fase, se ne apre subito un’altra: la pratica degli studenti.
La spiegazione del lavoro a coppie, ricordando che non ho mai parlato, è avvenuto in questo modo: mi sono avvicinata ad uno “studente” ed indicandolo per fargli capire che sarebbe stato lui dopo a fare ciò che stavo per fare io ed immaginando un telefono, ho composto un numero. Mi sposto verso il suo compagno più vicino e, sempre usando molta fantasia, gli indico il suo telefono e pronuncio il fatidico “drinn”. Con un gesto della mano lo invito a rispondere e qui parte la conversazione, alla fine della quale ripeterò il tutto cominciando però da quello che era lo studente ricevente, rendendolo autore della telefonata. Una volta dato il modello, le coppie di “studenti”, sempre sedute ai loro posti, cominciano il lavoro, che durerà circa due minuti. Dopodiché fermo tutto ed invito due “studenti” (presi da due zone diverse) a rappresentare sulla scena la conversazione.
I due studenti in genere e soprattutto all’inizio non accettano l’invito con il massimo dell’entusiasmo (anzi alcune volte l’insegnante vede categoricamente rifiutarsi l’invito ed in questi casi è meglio non insistere troppo ed aspettare che sia maturato il tempo),ma la loro tensione viene subito attenuata quando si accorgono di avere tutta la solidarietà e l’aiuto da parte dell’intera classe (frutto del mio silenzio e del mio sedermi fra gli studenti nel semicerchio).
Generalmente, da questo momento in poi si lavora in un’atmosfera più rilassata, meno tesa e con una punto di divertimento in più (anche se con sempre più energia, dato che la conversazione si complica sempre di più andando avanti).
Continuo la mia Ricostruzione di conversazione sempre senza parlare, servendomi soltanto del mimo e/o della lavagna (nel mio caso specifico solamente per i nomi) e seguendo tutte le fasi richieste da un’attività come questa, senza mai dimenticare la pratica degli studenti e la recita (da capo) ad ogni battuta aggiuntasi alla conversazione, fino allo scadere dei venti minuti a mia disposizione.
A: Moshi moshi.
B: Moshi moshi. Suzuki san no otaku desuka?
A: Hai, Suzuki desu.
B: Watashi wa Silvia desu.Yuki san imasuka?
B: Ee imasuyo.
Come chiusura dell’attività, ho chiesto a due o tre coppie di “studenti” di entrare in scena per una rappresentazione finale.
Venti minuti è stato il tempo a mia disposizione, non moltissimo ma neanche troppo poco per imparare divertendosi una breve ma nello stesso tempo lunga conversazione in giapponese.
E spero tanto che la gioia dell’apprendimento sia stata soddisfatta.