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Il linguaggio corporeo degli studenti

Ho passato tre anni di liceo facendo letteralmente impazzire qualsiasi insegnante si illudesse di trovare un momento di riposo sedendosi sulla sedia che troneggiava sulla pedana dove, almeno ai miei tempi, era la cattedra: il mio banco era appiccicato alla suddetta cattedra ed io avevo l’abitudine di far vibrare ritmicamente entrambe le estremità inferiori sul poggiapiedi posto sotto il banco stesso, attività, questa, che produceva nel corpo della sfortunata professoressa di turno un effetto sicuramente poco piacevole quando non toni piuttosto isterici durante una spiegazione.

Se c’è tra noi un/una insegnante che non abbia vissuto con una certa insofferenza alcuni tipi di movimenti o di posture degli studenti ce lo dica, e ci spieghi anche come diavolo ha fatto perché, dal mio punto di vista, o le sue antenne riceventi sono totalmente fuori fase, cosa che ritengo piuttosto improbabile perché indicherebbe un grado di patologia personale altissima; o, cosa ancora più improbabile, conoscendo me stessa e la categoria a cui appartengo, il suo equilibrio personale è assolutamente perfetto.

Quanti dei nostri insuccessi nel nostro lavoro dipendano dalla nostra incapacità di dare un nome alle emozioni che suscitano in noi i comportamenti non verbali delle persone che ci sono di fronte in classe, io non lo so, così come mi sarebbe molto difficile valutare quanti dei nostri successi o insuccessi professionali dipendano dalla comunicazione corporea che trasmette i nostri reali sentimenti come davvero ci sentiamo in ogni situazione. Di una cosa però sono convinta e cioè che aumentare la consapevolezza su quali reazioni suscitano in noi i gesti e le posture assunte dagli studenti, sia quelli prodotti dalle differenti culture di provenienza sia quelli che hanno una relazione con gli stati d’animo più profondi e nascosti, possa essere uno strumento potente per lavorare in modo più efficace, per migliorare la qualità del nostro operare, per vivere la relazione con noi stessi e con i nostri studenti in un modo più ricco e soddisfacente professionalmente e umanamente.

Dopo aver reso esplicito l’obiettivo del laboratorio da me preparato (prendere contatto con la comunicazione non verbale e aumentare la consapevolezza sulle emozioni, i sentimenti, le reazioni che suscitano in noi i messaggi corporei), ho proposto di immaginare la situazione seguente: siete in Giappone, andate in una scuola per imparare il giapponese. È il primo giorno di scuola. Entrate in classe e trovate altri studenti che hanno una faccia indiscutibilmente italiana. Che fate?

Alla fine del breve scambio tra le coppie di colleghi/e ho detto che avremmo visto come si erano realmente comportati alcuni studenti coreani in una situazione simmetrica e opposta, studenti che, naturalmente a loro insaputa, erano stati ripresi con la videocamera, durante tutto il primo giorno di lezione.

Gli studenti in videoriproduzione

L’immagine che il video ci manda è quella di tre persone che non si salutano, che mettono tra loro più spazio possibile e delle quali soltanto una mostra curiosità verso gli altri, che, però, contiene, a livello posturale, distogliendo velocemente lo sguardo che furtivamente e per qualche secondo si è rivolto verso gli altri due studenti.
Qualsiasi fossero i motivi – culturali o personali – che erano dietro a questo comportamento, a me è arrivata, comunque, la loro scelta di non prendere contatto, di non entrare in comunicazione con gli altri.

Immagino la possibile obiezione di chi legge ed ha avuto esperienza con persone provenienti da culture come quella coreana o giapponese nelle quali i codici di relazione sono così formalizzati, ma vorrei far notare che una di queste tre persone ( la più “curiosa”) in un altro momento del video di poco successivo a quello da me utilizzato durante il laboratorio, accetta subito, con grande slancio e con un evidente atteggiamento di apertura, la mano tesa che un quarto studente, appena entrato, gli offre salutandolo. Quest’ultimo, che ha sbagliato aula, è tedesco, ha in bocca una sigaretta accesa, e con il suo comportamento altera in modo visibile i codici relazionali, le scelte e il flusso di energia presente fino a quel momento nella stanza.

La seconda situazione sulla quale ho chiesto di attivare le antenne percettive delle persone presenti, era quella in cui, una volta entrata in classe, l’insegnante va, con il registro in mano, verso ognuno dei tre studenti, per salutarli e chiedere ad ognuno di loro di indicare sul registro stesso, il suo nome, come si pronuncia, ripetendo, ogni volta, almeno due volte il nome stesso, per poi domandare conferma circa la correttezza della sua pronuncia.

L’insegnante e i suoi movimenti

Il compito successivo per i partecipanti, era quello di riprodurre materialmente, lavorando in piccoli gruppi, il modo in cui l’insegnante si era mossa, il modo in cui aveva salutato e le posture che aveva assunto verso ognuno dei tre studenti.

Dopo di che dovevano rifare la stessa cosa ma, questa volta, esasperando al massimo tutti i movimenti per poi, alla fine, discutere tra loro che cosa era cambiato – sia per coloro che avevano giocato il ruolo di insegnante, sia per chi aveva ricevuto il saluto come studente – a livello di emozioni, tra il primo ed il secondo modo di salutare, di entrare in contatto.

Nella mia richiesta di riprodurre, enfatizzandoli, i movimenti dell’insegnante, c’era un motivo molto preciso e che ho esplicitato: a volte, la stessa azione, lo stesso gesto, la stessa postura, portati all’estremo, comunicano un’emozione completamente diversa da quella che arriva dalla loro esecuzione “normale”. Un’osservazione ed una riflessione che vorrei proporre sia a coloro che hanno partecipato, sia a quelli che leggono questo scritto. Di tutte/i le/i colleghe/i che hanno fatto questa esperienza, pochissime/i, due o tre, sono state/i quelle/i che hanno occupato tutto lo spazio che era possibile occupare; la stragrande maggioranza si è tenuta e si è mossa in un’area ristrettissima e questo mi ricorda il racconto di una professoressa di scuola media che, avendo rivoluzionato l’ordine dei banchi facendoli disporre dai ragazzi stessi in semicerchio invece che nelle classiche file, si è sentita confessare da una sua collega che insegnava nello stesso corso, che per lei non era possibile lavorare in quel modo perché lo spazio vuoto tra lei e gli studenti le procurava angoscia.

E mi chiedo, specularmente quante volte, per studenti abituati a sedere in fila uno dietro l’altro, magari in classi numerose, trovarsi, come alla Dilit o in altre scuole, con uno spazio vuoto davanti ha prodotto e produce malessere .
Ma la consapevolezza di lavorare all’interno di uno spazio organizzato in modo meno tradizionale, non mi basta: per quello che mi riguarda, sento un grande limite nel mio modo di lavorare in quanto, ancora oggi, in realtà, mi rendo conto di non operare sufficientemente affinché siano loro, gli studenti, e non io, a gestire, modificare, occupare creativamente e dunque anche didatticamente, quell’area che ci separa. E il tema qui si fa ben più scottante: quanto io, insegnante, sono oggi disponibile ad accettare profondamente l’idea di uno studente che usa la scuola, ed anche me, per “imparare ad imparare”, invece di vedermi come la depositaria della conoscenza.

Il terzo ed il quarto video che ho presentato, mostravano due momenti diversi della lezione: in entrambi i casi si trattava della pronuncia delle lettere dell’alfabeto. Mentre nel primo l’insegnante era al centro, il rapporto bilaterale (insegnante/singolo studente) e si trattava di ripetere ogni suono con la relativa correzione ogni qual volta l’esecuzione non era sufficientemente vicina a quella italiana; nel secondo la giusta pronuncia dell’alfabeto diventava la regola di un gioco in cerchio in cui l’insegnante era arbitro e giudice di gara. Ho chiesto, così, ai miei colleghi di rappresentare graficamente il flusso di energia che ricevevano dalle due differenti situazioni e penso che la cosa migliore sia quella di mostrare a voi le rappresentazioni che maggiormente sintetizzano ciò che è stato prodotto in questa fase del lavoro.

Come si può vedere sono tipi di flusso energetico completamente diversi tra loro e dal mio punto di vista non si tratta affatto di stabilire quale sia il migliore, in quanto entrambi sono utili e producono entrambi dei risultati. Il mio problema è altrove e parte da una sensazione che deriva sia dalla mia esperienza di studente, sia da quella di insegnante, e cioè che uno dei due, il primo, venga assolutamente privilegiato rispetto al secondo. Ed è questo che ritengo negativo.

“Adesso, per favore, tutti in piedi ed in cerchio”.

La mia richiesta prende un po’ tutti alla sprovvista anche perché il mio tono è volutamente più direttivo di quello che ho usato fino a questo momento. Una volta che siamo tutti in cerchio, cambiando tono, chiedo di fare attenzione a come stanno posturalmente e a come si sentono emotivamente.

Tornati ad una posizione meno “scioccante”, vale a dire ognuna/o seduta/o sulla sua sedia, propongo loro di osservare come si comportano gli studenti nella stessa situazione. Le immagini non potrebbero essere più esplicite: braccia conserte, posizioni semi militari, mani poste a protezione del cuore o dei genitali, risistemazione degli abiti. In realtà questo nuovo cerchio è solo il preludio per realizzare un altra fase di gioco, ma gli studenti non lo sanno. L’unica cosa che sanno è che sono costretti ad uscire dalla piccola isola protettiva costituita dalla sedia con la ribaltina e che saranno fisicamente più in mostra rispetto ad un minuto prima: gli effetti dell’insicu¬rezza provocata da questa situazione sono ben visibili, mi sembra, dalle posture che assumono.

Passeggio in classe

Per quanto riguarda l’ultimo frammento di video, l’elemento su cui chiedo di concentrarsi, è una scena nella quale, per lunghi secondi, gli studenti guardano l’insegnante, che ha appena chiesto loro di muoversi per la classe come se fossero a passeggio per Roma, cercando di capire cosa diavolo voglia da loro e che cosa accidenti c’entri tutto questo con lo studiare l’italiano.

In realtà, almeno questo è la mia sensazione, dopo un lungo periodo in cui era stata necessaria molta concentrazione da parte di tutti, l’insegnante ha sentito la necessità di “scaricare” con il muoversi, la tensione accumulata, ma invece di tenere questa esigenza per sé, l’ha trasformata in una azione collettiva che ha permesso a tutti (per quanto ognuno si è voluto permettere) di rientrare in contatto con l’energia corporea.

Non c’è stata nessuna trasmissione esplicita di tutto questo ma è per me illuminante che cosa succede quando a qualcuno degli studenti arriva il messaggio: le braccia ed i piedi cominciano a muoversi, qualcuno accenna a scalciare, qualcun altro “tira pugni” mascherati da esercizio ginnico, tutti si muovono contemporaneamente laddove, fino a pochi secondi prima, era stata l’insegnante a doverli prendere a braccetto per farli camminare.
Non so per quale motivo, ma quello che è rimasto nella mia memoria di quell’ultima immagine, è l’idea che, all’improvviso, quella stanza fosse diventata troppo piccola.

“Quanto ci permettiamo e permettiamo agli studenti il movimento? Qual è il limite oltre il quale riceviamo il movimento come una mancanza di rispetto nei nostri confronti, come una trasgressione per noi inaccettabile?”
Questo era l’ultimo quesito su cui ho chiesto una riflessione collettiva, quesito che ora giro al lettore.

Permettetemi una piccola provocazione finale

Un essere umano che sbadiglia può significare due cose per me: che si sta annoiando o che ha bisogno di recuperare “energia cosmica”. Intendiamoci, non è detto che voi siate d’accordo non questa interpretazione. Ma vi chiedo, solo per un momento, di accettarla come ipotesi, molto pragmatica e niente affatto mistica per quanto riguarda la seconda possibilità.

Bene. Se è un recupero mi chiedo perché infastidisca tanti insegnanti. Se è noia, due sono le possibilità: o questa persona per suoi motivi che non riguardano la nostra capacità di essere buoni insegnanti sta prendendo distanza dal lavoro che dice di voler fare, oppure effettivamente stiamo facendo qualcosa che, per qualche motivo, in quel momento non funziona. In ogni caso, e ve lo chiede una persona costantemente assillata dal dubbio di non essere mai sufficientemente all’altezza della situazione, che senso ha vivere uno sbadiglio soltanto come un problema di forma e di buona educazione (quando non un qualcosa da risolvere con modalità “poliziesche”)? Che cosa ci dà tanti problemi in uno studente che sbadiglia: l’offesa o il dubbio di non elargire”- come ci ha fatto osservare Bartolomea Granieri nel suo intervento – “buon latte”?