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L’Ascolto autentico e la programmazione di un corso di lingua

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La maggior parte delle proposte di programmazione attualmente in voga derivano da proposte nate negli anni settanta. È stato un periodo in cui si sentiva una grossa insoddisfazione con la programmazione “strutturale” dei vari metodi diretti come, per esempio, quello audio-orale e quello audiovisivo. I programmi strutturali prendevano come punto di partenza un’analisi delle strutture sintattiche della lingua e le mettevano in ordine di una presunta complessità progressiva. Le nuove proposte, invece, assumevano come punto di partenza le frasi che emetteva il parlante e le mettevano in ordine di presunta utilità per lo studente. Il sistema più elaborato di questo nuovo movimento si trova in Munby, 1978. La frase (pag. 200) I will bring the menu (“Porto il menù”), per esempio, si trova nel programma di un determinato studente che studia inglese perché è derivata da una sofisticata analisi dei cosiddetti bisogni di questo studente. Questa frase espleta la microfunzione “intenzione” con un “tono di atteggiamento” detto “+ formale”. L’attività comunicativa da cui si deriva questa microfunzione è “occuparsi dell’arrivo del cliente” la quale fa parte della vicenda comunicativa “capo cameriere che si occupa dei clienti in un ristorante”. Il modo è “dialogo, parlato per essere sentito” e il canale è “faccia a faccia (bilaterale)”. Il dominio scopistico è definito come “scopo professionale: capo cameriere”; l’ambientazione è “ristorante in un albergo piccolo in Ibiza”. Specificazioni a monte comprendono l’età, sesso, nazionalità e domicilio dello studente bersaglio, le sue conoscenze linguistiche, e molto altro ancora.

Prendiamo un altro esempio dal famoso “Threshold Level”, prodotto dall’équipe del Consiglio di Europa (van Ek, 1975: 75). La frase I make £ 75 a week now (“Attualmente guadagno 75 sterline”) si trova nel programma in quanto esponente della nozione specifica “guadagnare”, sottocategoria della voce “reddito”, che a sua volta fa parte del gruppo “mestieri, professioni, lavori”. La nozione specifica in questione si trova nell’inventario di quelle che lo studente bersaglio avrebbe bisogno di esprimere.

La giustificazione teorica per questi nuovi approcci proviene più che altro dalla sociolinguistica (vedere, per esempio, Hymes, 1971) e la filosofia del linguaggio (vedere, per esempio, Austin, 1962). La filosofia del linguaggio ci insegna che la lingua la si usa per fare delle cose e quindi chi programma può selezionare quali cose da fare sono più urgenti di altre per un determinato gruppo di studenti, rendendo più pertinente il programma a questo gruppo di studenti. La sociolinguistica ci ha dimostrato che il linguaggio cambia a seconda del contesto sociale. Prevedendo i contesti sociali in cui vuole operare lo studente e i ruoli che svolgerà in essi si può risparmiare tempo di apprendimento limitando lo studio alla lingua prodotta in questi contesti.

In realtà, con gli anni, a questo approccio detto “semantico” (vedere Wilkins, 1976: 19) venivano reintegrati molti aspetti del vecchio approccio strutturale. Tanto è vero che la maggior parte dei libri di testo in commercio oggigiorno si presentano come multi-syllabus (“multiprogrammatici”). Un esempio per tutti: in Swan & Walter, 1992, ogni unità didattica è la realizzazione di una serie intrecciata di scelte di diverse nature chiamate: “grammatica” (che significa esattamente ciò che prima si chiamava “strutture”: il limite del visuale è la frase), “fonologia” (il limite del visuale è la frase e più delle volte la parola), “funzioni e abilità specifiche” (insieme) e “argomenti e nozioni” (insieme).

La qualità e la varietà delle nuove proposte sono certamente servite a farci capire che le strade che lo studente può seguire sono molteplici, e questo è importante. E poi, se soprassediamo all’idea, insita in queste proposte, che l’unità base della lingua sia la frase invece del testo, possiamo riconoscere a chi le propone l’averci insegnato a scegliere testi da portare in classe più pertinenti ad un determinato gruppo di studenti. L’altra eredità che gli va riconosciuto, o meglio va riconosciuto a Wilkins (1976: 78; 1977: 85), è l’aver proposto di sostituire la prassi di far ascoltare agli studenti materiale semplificato in base al livello della classe, con una prassi di fare ascoltare materiale autentico a tutti i livelli, facendo capire allo studente che è la sua comprensione che aumenterà col tempo, non il grado di realismo nel testo.

Laddove sono discutibili queste nuove proposte, però, è proprio nella loro rivendicazione primaria: dicono di essere “centrate sul discente”. Partirebbero, cioè, da una “analisi dei bisogni degli studenti” e poi sistematicamente li soddisferebbero. In realtà non prendendo in esame lo studente: quel soggetto che vive l’apprendimento giorno dopo giorno in classe. Prendendo in esame, invece, l’immaginario comunicatore futuro che lo studente dovrebbe diventare, e cioè il prodotto finale dello studio.

Centrare l’insegnamento realmente sul discente dovrebbe essere, invece, la nostra premura primaria. Il discente non è un comunicatore nel mondo esterno. Lo sarà, si spera, ma per ora è quella persona che sta cercando di imparare qualcosa in classe, davanti a noi, in questo momento, e in tutti i momenti della sua presenza, oggi, e in tutte le altre lezioni future e passate. Quella persona che investe una parte della sua vita, piccola che sia, in questa impresa. Quella persona che respira, che pensa, che sente, che subisce le nostre decisioni, che ci obbedisce (più o meno!), nella speranza che gli conviene.

Se scriviamo programmi composti di cose che lo studente deve imparare non possiamo dire che siano programmi centrati sullo studente. Il percorso di acquisizione linguistica è determinato da meccanismi interni allo studente. Questo percorso può essere conosciuto da noi e dallo studente solo a posteriori (vedere, per esempio, Krashen 1982). In Swan & Walter (op. cit.: 4/5), invece, viene promesso che “gli studenti imparano i seguenti punti grammaticali”, “gli studenti imparano modi di fare le seguenti cose”, “gli studenti imparano a parlare del seguenti argomenti e nozioni”. Gli editori che mettono sul mercato libri contenenti questi tipi di promesse non certo aiutano chi cerca di fare chiarezza sul reale potere dell’insegnante.

Pretendere di programmare ciò che sarà imparato è come pretendere che un cavallo beva. Chi conosce i cavalli sa che si può condurre un cavallo all’acqua ma non si può costringerlo a bere (un noto detto inglese). A mio parere, l’unica programmazione del lavoro dell’insegnante che non sia velleitaria, che rispetti la naturale autonomia dell’apprendimento, è di tipo esperienziale. Un programma, cioè, che ha come unità di base tipi di esperienze che l’insegnante faccia vivere allo studente. Ciò che risulterà “imparato” dagli studenti dopo aver vissuto una determinata esperienza sarà diverso per ogni studente. Come può essere diversamente? Gli studenti sono esseri umani, esattamente come noi. Quando viviamo un’esperienza insieme ad un’altra persona non ci aspettiamo che ne “impariamo” la stessa cosa dell’altra persona. Dopo un grave incidente automobilistico, per esempio, c’è chi giura di non guidare mai più, c’è chi guida piano per il resto della vita e c’è chi, invece, non vede l’ora di riprendere il volante. Un esempio meno drammatico: due amici vedono un film che presenta il ballo sotto una luce entusiasmante e il giorno dopo uno dei due si iscrive ad un corso di ballo, l’altro non ci pensa neanche.

Se alla fine di un corso di lingua tutti gli studenti danno prova di aver imparato cose diverse da tutti gli studenti di un altro corso, sarà perché gli studenti nei rispettivi corsi hanno vissuto esperienze diverse. Allo stesso modo, se un corso di lingua, a parità di altri fattori, produce meno progresso di un altro corso, sarà perché le esperienze vissuteci dagli studenti sono state meno coinvolgenti. (Esattamente come, per riprendere l’esempio del film, se il film è noioso, se il film non coinvolge nessuno, l’unica cosa che si può imparare è cercare di evitare altri film dello stesso autore.) Questi sono gli assunti di base che il nostro istituto porta avanti da anni e sui quali qualsiasi discussione di programmazione deve basarsi per coinvolgerci volentieri in dibattito.

Detto questo, che cosa bisogna fare in pratica? Occorre anzitutto delineare i vari tipi di esperienze che l’insegnante è in grado di organizzare. Poi bisogna eliminare tutti quelli che non mirano al massimo del potenziale dello studente. Poi, ad ognuno di quelli rimasti bisogna attribuire un’importanza relativa rispetto agli altri e tradurre questo valore relativo in un tempo relativo. È sorprendente che il fattore tempo è quasi del tutto ignorato nelle proposte convenzionali di programmazione. come se dedicare 20 minuti o 3 ore alla stessa cosa portasse agli stessi risultati. A mio modo di pensare, il fattore tempo è la prima cosa che bisogna sapere riguardo le voci di un programma. E in un programma di tipo esperienziale, una volta delineati i tipi di attività da metterci dentro, bisogna subito attribuire un tempo relativo ad ognuna.

In questo seminario abbiamo esaminato al microscopio un tipo di attività didattica, o esperienza, organizzata per lo studente: l’Ascolto autentico. Per Ascolto autentico intendiamo qualsiasi attività didattica in cui lo studente ha a disposizione una registrazione di lingua naturale e in cui si chiede allo studente di focalizzare l’attenzione non alle forme (come in un Ascolto analitico), bensì al contenuto, al senso, ai significati, ai messaggi. Egli ascolta, cioè, in un modo “autentico”, ossia cerca di capirci qualcosa. Attività di “comprensione all’ascolto”, o di “comprensione auditiva” direbbero altri. Sì, intendiamo la stessa cosa, solo che è più utile chiamare un’attività in termini dell’attività stessa (ascoltare in modo autentico) piuttosto che in termini di ciò che l’attività dovrebbe produrre (un aumento della comprensione auditiva). Questo per i motivi esplicitati sopra (il cavallo, ecc.) e anche perché nella fattispecie questa attività può favorire non solo lo sviluppo della comprensione auditiva ma anche un’altra cosa (vedere più oltre).

Allora la domanda di base è, in un corso di 100 ore per esempio, quante delle 100 ore saranno utilizzate per organizzare l’Ascolto autentico invece che per organizzare altri tipi di esperienze? Per rispondere, possiamo ipotizzare che tutte le 100 ore siano preposte all’Ascolto autentico e chiederci in che cosa il corso sarebbe difettoso. Mancherebbe la lingua scritta per esempio. L’Ascolto autentico non tratta la lingua scritta. Non ha niente a che fare con la lingua scritta. L’Ascolto autentico tratta la lingua parlata. La lingua scritta e la lingua parlata sono due cose diverse. E secondo il mio modo di pensare, se occorre suddividere la lingua in qualche modo, la prima distinzione da fare è fra lingua scritta e lingua parlata. La loro diversità non è semplicemente una questione che riguarda la superficie: il fonico contro il grafico. C’è qualcosa di piú profondo che le rende così diverse l’una dall’altra; e sono le condizioni nelle quali vengono prodotte. Il rapporto temporale, per esempio, fra il mio pensiero la realizzazione del testo è radicalmente diverso. Quando parlo, traduco il mio pensiero in testo in tempo reale: penso e parlo, subito. Quando scrivo, invece, ho più tempo. Non posso muovere la penna alla velocità dei miei pensieri; e comunque, dato che il mio interlocutore non è presente, posso anche non scrivere subito ciò che penso: posso ripensare e ripensare più volte prima di mettere segni sulla carta. Posso cancellare e/o riscrivere delle parti del testo dopo averle scritte. Poi non finisce qui: posso andare al letto dopo aver completato il testo, rileggerlo la mattina dopo, revisionarlo, correggerlo, modificarlo e farne la “bella copia”. Nella lingua parlata non è possibile tutto questo. C’è un rapporto temporale radicalmente diverso fra pensiero e testo nelle due materie. Quindi i prodotti, il testo scritto e il testo parlato, sono per forza due cose profondamente diverse l’una dall’altra.

Bisogna, quindi, al momento di programmare un corso di lingua, decidere subito quanto tempo dedicare allo studio della lingua scritta e quanto tempo dedicare allo studio della lingua parlata. Prendiamo in esame una situazione “neutrale”. Una situazione, cioè, in cui non ci sono ulteriori fattori da prendere in considerazione, quali una dichiarata predilezione da parte degli studenti per l’una o l’altra, un esame a fine corso che premia la competenza in una più che nell’altra, una sproporzionata incompetenza da parte degli studenti nell’una o nell’altra all’inizio corso; i quali comunque sono tutti fattori da prendere in considerazione in chiave “correttiva” dopo aver fatto le considerazioni sottoesposte.

È necessario valutare la relativa difficoltà delle due submaterie. La lingua parlata è più facile della lingua scritta, o viceversa? Se sono di pari difficoltà si dedicheranno 50 ore all’una e 50 ore all’altra (sempre, naturalmente, ipotizzando un corso di 100 ore). Per quanto riguarda la comprensione, abbiamo visto in questo seminario quanto è difficile la lingua parlata. Abbiamo visto, per esempio, che alla fine di un’ora di lavoro (vedere L’Ora di ascolto: una lezione dimostrativa in questo volume) è perfettamente possibile capire soltanto il 2% di un testo di meno di quattro minuti.

Se questo seminario avesse trattato la Lettura autentica invece dell’Ascolto autentico, i risultati sarebbero stati molto diversi. In una lezione che prendesse in considerazione un testo scritto di pari peso (un testo, cioè, che, di norma, viene digerito in quattro minuti da lettori competenti di madrelingua; un tipico articolo di giornale, per intenderci), sarebbe impensabile che la comprensione dichiarata dagli studenti alla fine di un’ora di lavoro potesse essere così bassa. Senza dilungarmi sui vari fattori del perché di questo, basta indicarne uno solo: posto di fronte alla lingua scritta so esattamente quante parole ci sono, so esattamente dove finisce una parola e dove inizia la successiva, semplicemente perché è indicato con uno spazio. Posto di fronte alla lingua parlata, non inizio con questa informazione e anche dopo un’ora di lavoro mi rimane oscura la collocazione di decine e decine di confini fra le parole. La lingua scritta è quindi molto più facile da capire. Anche nella produzione, senza andare ad esaminare la complessità del sistema fonologico, il fatto stesso che, come abbiamo detto sopra, nella lingua parlata si deve produrre il testo in tempo reale rende l’esperienza molto più ardua che la produzione nella lingua scritta, in cui si può prendere tutto il tempo che si vuole per organizzare il testo.

Insomma, direi che, senza pretendere di avere dei dati scientificamente elaborati, basandosi soltanto sulla mia esperienza dell’insegnamento e sull’intuizione, la lingua parlata è approssimativamente tre volte più difficile della lingua scritta. Rappresentiamo questo rapporto uno a tre con questo schema (la dimensione relativa di ciascuna casella rappresenta il tempo relativo occupato da ciascuna voce in un corso di lingua):

In altri termini, in un corso di 100 ore bisogna dedicare 75 ore alla lingua parlata e 25 ore alla lingua scritta. Nella parte dedicata alla lingua scritta l’Ascolto autentico non c’entra.

Proseguiamo con il ragionamento. Se dovessimo dedicare tutto il 75% riservato per la lingua parlata all’Ascolto autentico, che cosa mancherebbe al programma? Che cosa non tratta l’Ascolto autentico? Non tratta la produzione. Lo sforzo dello studente durante l’Ascolto autentico è dedicato al tentativo di capire qualcosa. È vero che parla pure: si consulta con i compagni; quindi parla. Ma lo sforzo principale è orientato alla comprensione. E poi il suo parlare è molto limitato: le funzioni comunicative esercitate sono poche (esprimere pareri, esprimere accordo/disaccordo, esprimere ipotesi, raccontare ciò che si è capito e poco altro), l’argomento è limitato: è determinato dalle persone che hanno parlato al registratore. La parte di un programma che prende in considerazione la produzione della lingua parlata dovrebbe coprire una gamma molto più vasta di funzioni e di argomenti. E poi è impraticabile (e inauspicabile) separare il parlare dall’ascoltare; funziona anche il contrario: nelle attività di produzione lo studente dovrà anche cercare di capire. Si classifica un’attività in base all’orientazione principale dello sforzo dello studente, senza con ciò vietare l’uso di altre abilità linguistiche.

Quante delle 75 ore, allora, bisogna dedicare alla produzione e quante, invece, alla ricezione? Per rispondere bisogna considerare gli obiettivi comunicativi degli studenti, reali o imputati. L’assunto è che si studia una lingua per poter usarla. Se si studia la lingua parlata, allora, è per poter usarla. L’uso normale, l’uso più frequente, della lingua parlata è nella conversazione. Se insegno la lingua parlata, il mio compito, quindi, è cercare di formare “conversatori” sempre più competenti. In una conversazione, in media, si parla il 50% del tempo e si ascolta l’altro 50%. Per essere un conversatore più competente lo studente ha bisogno di sviluppare le due abilità in pari misura. Bisogna, quindi, dedicare pari tempo all’una e all’altra. Lo schema adesso assume il seguente aspetto:

(I valori per la suddivisione della lingua scritta sono fra parentesi perché non sono oggetto della presente discussione.)

Se è vero, com’è vero, che con l’esercizio di un’abilità quell’abilità si sviluppa, si potrebbe sostenere che lo schema è già completo e quindi l’Ascolto autentico, occupando l’intera casella “ricezione/lingua parlata”, dovrebbe occupare un posto nel programma nella misura del 38%. Però, crediamo che sia utile anche fare grammatica (vedere Humphris, 1992). Che cosa significa fare grammatica? Significa chiedere allo studente di focalizzare la sua attenzione non più sul contenuto bensì sulle forme, a come tale contenuto viene comunicato. La domanda è, quindi, quanto tempo dedicare alla grammatica e quanto tempo dedicare all’esercizio delle abilità linguistiche? Risposta: non lo so; nessuno lo sa. Ciò di cui ci siamo resi conto negli ultimi anni, grazie fra l’altro all’insistenza di studiosi come Krashen (op. cit.), è che tantissime persone imparano le lingue senza studiarle. La lingua l’imparano usandola. L’imparano semplicemente sforzandosi a parlare e ad ascoltare, senza nessun insegnante, senza nessun programma di studio e con pochissimi momenti di focalizzazione dell’attenzione sulle forme. Il fatto è che gli esseri umani sono forniti di un meccanismo di acquisizione linguistica che funziona ad un livello subconscio (vedere Chomsky, 1965: 27-37 e Krashen 1982). La nostra professione è lenta a digerire questa notizia perché ci mette in crisi: renderci conto che non siamo necessari ci ferisce l’orgoglio. Fatto sta che lo studente può benissimo imparare una lingua senza di noi.

Comunque sia, se consideriamo l’insegnamento linguistico come qualcosa di più di un semplice addestramento utilitaristico alla comunicazione, qualcosa che coinvolga e sviluppi le facoltà cognitive dello studente, allora c’è una forte giustificazione per fare anche la grammatica. In un determinato modo, s’intende. Cioè, far esercitare, e quindi sviluppare, le capacità analitiche dello studente, la sua capacità metalinguistica, intesa come la capacità di riconoscere regolarità o strutture in un campo esteso (un testo) e ragionare sui come e sui perché. (Vedere Humphris, 1992, per approfondimenti in proposito.)

Dobbiamo ammettere che la decisione di quanto tempo dedicare all’esercizio della capacità metalinguistica e quanto tempo dedicare invece all’esercizio delle abilità linguistiche è piuttosto arbitaria. Potremmo dibatterlo per ore senza arrivare ad una posizione comune. Dico il mio parere personale per ciò che possa valere: penso che l’esercizio delle abilità linguistiche sia più importante dell’esercizi0 della capacità metalinguistica, anche perché il nostro meccanismo naturale di acquisizione linguistica funziona a pieno ritmo soltanto quando siamo concentrati sul contenuto, e quindi dedico al primo qualcosa di più della metà del tempo del corso. Diciamo all’incirca 65%.

Tornando allo schema, dove si può collocare questa divisione binaria? Per non perdere i vantaggi esplicitati nello schema finora, la soluzione più logica è di distribuirla equamente nelle quattro caselle già costruite. Cioè, per ognuna delle caselle già costruite ci saranno due modi distinti di lavoro: un tipo di attività in cui l’attenzione dello studente è focalizzata sul contenuto e un altro in cui l’attenzione dello studente è focalizzata sulle forme. Lo schema, quindi, risulta così:

Per riassumere, lo schema soprastante serve per scrivere programmi. In un corso di 100 ore, per esempio, se si accettano i discorsi esposti, 25 di queste ore vanno dedicate ad attività di Ascolto autentico. Cioè, un’ora su quattro. Se questo seminario serve a convincere degli insegnanti a rispettare questa percentuale, senza cambiare nient’altro nel loro insegnamento, avremmo fatto un bel lavoro; avremmo fatto tantissimo per quanto riguarda i progressi che gli studenti compieranno, specialmente in termini dello sviluppo della loro sicurezza in se.

In conclusione, va detto con molta chiarezza che una programmazione di tipo esperienziale è fatta di esperienze a sé stanti. Non si sceglie di fare un Ascolto autentico perché dopo si farà un’analisi di qualche aspetto della registrazione. Si fa l’Ascolto autentico perché è un’esperienza valida di per sé. Chi, invece, sceglie un brano di ascolto perché “ci sono delle belle espressioni idiomatiche sulle quali possiamo lavorare dopo” non segue un approccio centrato sullo studente. Lo studente vive nel “qui ed ora”. Se l’esperienza attuale lo coinvolge (e il nostro dovere è di portare al massimo questa probabilità) non gli importa niente di che cosa si farà dopo. Finito l’Ascolto autentico lo studente può andare a casa. Se lo studente studia un’ora la settimana, tutta la lezione (una volta al mese) sarà costituita unicamente dell’Ascolto autentico. L’affermazione troppe volte sentita che lo studente non sarà soddisfatto è l’espressione della paura di insegnanti troppo curanti delle proprie paure e non sufficientemente attenti al reale stato d’animo dello studente. L’origine di questa paura è nel modello dell’insegnante che abbiamo ereditato: un insegnante serio sarebbe solo colui che “insegna” delle cose. Sarebbe ora che la smettessimo di farci condizionare da queste frottole!

Bibliografia

Austin, J.L. 1962. How to do Things with Words. Clarendon Press: Oxford.
Chomsky, N. 1965. Aspects of the Theory of Syntax. M.I.T. Press: Cambridge, Mass.
Halliday, M. 1992. Lingua scritta e lingua parlata. La Nuova Italia: Firenze.
Humphris, C. (a cura di) 1992. Atti del 4° Seminario internazionale per insegnanti di lingua: Alcuni modi di fare grammatica. Edizioni Dilit: Roma.