Uno sguardo dal ponte
Alcune considerazioni sul “fare grammatica” in rapporto alla ricerca sull’apprendimento linguistico
Rifacendomi al titolo del corso, “Alcuni modi di fare grammatica” e alla tematica che vedo qui trattata, vorrei innanzitutto osservare come il problema dell’insegnamento/apprendimento della grammatica ritorni sempre prepotentemente alla ribalta pur imponendo-la ricerca di nuove vie, nuovi modi per essere proposto agli allievi. Nuove vie e nuovi modi che evitino il mero prescrittivismo cui una triste pratica tradizionale ci aveva abituato, quella di enunciare o presentare prima le regole (più o meno legittime dal punto di vista scientifico) e poi farle applicare mediante esercizi di traduzione. A questo tipo di prescrittivismo nessuno crede più ma un certo atteggiamento regolistico ancora permane nell’insegnamento dando preminenza all’esplicitazione delle regole linguistiche rispetto alle attività e procedure didattiche centrate sull’uso linguistico, partendo sempre dal presupposto che dalla conoscenza della regola si arrivi direttamente all’applicazione nelle varie occasioni del comunicare (il che, piaccia o no, non è vero). L’insegnamento, o meglio l’apprendimento della grammatica è però senz’altro importante, direi essenziale, costituendo la grammatica (del sistema della lingua ma anche una grammatica più larga, quella del testo e magari anche delle regole dell’uso) la base fondamentale di conoscenze per svolgere qualsiasi attività linguistica. Si sa, per esempio, che qualsiasi attività interpretativa di un testo procede “dal basso in alto e dall’alto in basso”. Che cosa vuol dire? Che messi di fronte ad un testo o evento comunicativo gli elementi linguistici innescheranno la comprensione del contenuto più “largo” del testo (pragmatico ed extralinguistico) mettendoci in grado di fare previsioni su quanto seguirà. Da una parte cioè elaboriamo i significati delle parole e la struttura di una frase per arrivare a un significato complesso della frase stessa, (processo dal basso in alto), dall’altra, sulla base del contesto e delle frasi già decodificate, facciamo anticipazioni e previsioni su quel che seguirà (processo dall’alto in basso). I due processi sono interagenti e complementari. Il “fare grammatica” è quindi importante nell’iter pedagogico in quanto la competenza “linguistica” è essenziale per ogni operazione di comunicazione. Si tratta però di vedere “come farla”. Mi sembra opportuno, a questo punto, chiederci quali siano le indicazioni della ricerca sull’apprendimento e come possono influenzare le nostre scelte didattiche, anche per quanto riguarda il “fare grammatica”.
Vorrei qui illustrare alcuni modi, alcuni aspetti cruciali della ricerca sulI’apprendimento (non faccio distinzione tra apprendimento e acquisizione), che possono in un certo senso incidere sul nostro raggio di azione. Sono problemi senz’altro correlati ma che non sono sufficientemente tenuti presenti e discussi, mi sembra, in sede glottodidattica. Il primo nodo che dobbiamo affrontare è quello del rapporto tra input ed output(linguistici). Mi spiego: l’input è quel che noi offriamo agli allievi attraverso testi, attraverso esercizi ed attività nella speranza che essi l’acquisiscano; quei determinati aspetti della lingua (a qualsiasi livello, di frase, di discorso) che presentiamo nel lavoro di classe. È quello che generalmente scegliamo nel programmare il nostro corso di insegnamento, quello che è contenuto nei sillabi, programmi o vari materiali didattici (libri di testo/videocassette, etc.). Ciò che naturalmente ci aspettiamo è che questo input si traduca in output in maniera diretta e quantitativamente soddisfacente.
Ma le cose stanno davvero in questo modo? Pare proprio di no. Sia l’esperienza (di ognuno di noi) che i dati della ricerca indicano che non esiste un’equazione tra input e output. L’input che noi diamo agli allievi nonpotrà mai essere uguale all’output che ci potranno rendere, almeno a breve scadenza. Questo in fondo lo sappiamo tutti ma stentiamo ad accettarlo.
Ma perché questa inevitabile – sembra – discrepanza? Perché esistono innanzitutto diversi stili cognitivi dl apprendimento: vale a dire che ciascuno apprende in maniera diversa a seconda della sua personalità. C’è chi è più predisposto ad un apprendimento mnemonico o intuitivo, c’è chi è portato ad una maggiore razionalizzazione. Ma c’è di più: esistono diversi tempi dl apprendimento a seconda sempre della propria disposizione, personalità e maturazione linguistica. C’è chi impiega un certo tempo per apprendere la “regola X”, c’è chi ne impiega di più o di meno. Il fatto è che si apprende una “regola” linguistica (del sistema o dell’uso) soltanto quando si è maturi per apprenderla e questa “maturazione” sta nell’individuo, è un fatto suo, come dimostra lo sviluppo della sua interlingua. Questo dobbiamo riconoscerlo e accettarlo. Sarebbe gravissimo per un insegnante aspettarsi un rendimento omogeneo da parte di tutti gli allievi e imporre un livellamento alla classe che la realtà dell’apprendimento rivela impossibile.
Una conseguenza pedagogica di tutto ciò è quella di individualizzare l’istruzione, cosa di cui si parla da tanto tempo ma dandone purtroppo giustificazioni fumose, senza un reale supporto scientifico che si riporti alla ricerca. Eppure la sua giustificazione principale è proprio quella che ho enunciato precedentemente e scaturisce direttamente dalla ricerca sull’apprendimento.
Ma individualizzare l’istruzione vuol dire soprattutto spostare l’attenzione dall’insegnamento all’apprendimento. È l’individuo che apprende e i nostri interventi didattici non serviranno a nulla se non procedono innanzitutto da una comprensione del processo dl apprendimento delI’allievo.
Ecco, ho qui introdotto un altro concetto, quello di processo che è diventato oggi la chiave di volta di tutta la ricerca in linguistica applicata e in glottodidattica ispirata alla scienza cognitiva. Esso non è altro che una conseguenza di quanto detto prima in quanto è strettamente correlato con:
- quel che intercorre tra input e output (il processo appunto di elaborazione e interiorizzazione dell’input);
- gli stili e i modi e i tempi di apprendimento che non si potranno mai comprendere se non in termini di processo.
Chiediamoci ora quali conseguenze didattiche comporti tutto questo. Tenterò di mettere in luce quelle che sembrano le più importanti.
L’attenzione al processo di apprendimento, fondamentale per assecondare gli stili di apprendimento dell’allievo e quindi stimolare la sua motivazione ad apprendere, ci impone di distinguere tra ciò che accade durante l’apprendimento (analisi dell’interlingua e delle sue fasi) e ciò che vogliamo/vorremmo ottenere come prodotto finale. Vuol dire che, malgrado i programmi prestabiliti (che sono pur sempre necessari per dare ordine e lucidità alla nostra opera didattica), dobbiamo, come insegnanti, essere pronti a modificare le nostre ipotesi di lavoro via via che affrontiamo la realtà della classe. Vuol dire che, parallelamente alla nostra programmazione, dobbiamo tenere attivato in noi, anche “psicologicamente”, un programma “in fieri”, “in sviluppo”, che sarà via via calibrato sulle necessità effettive degli allievi, o almeno di gruppi di allievi, in base alla reattività da loro manifestata nei confronti dei nostri interventi didattici. Si tratta in effetti di scoprire quali procedure didattiche potranno metterli in grado di “apprendere” nella maniera migliore, vale a dire di renderli gestori del proprio apprendimento (poiché l’apprendimento è un fatto autonomo e non prescrivibile).
Quindi l’attenzione al processo di apprendimento impone che non ci si concentri sul prodotto finale dell’insegnamento (vale a dire, quegli aspetti della lingua che vorremmo che i nostri studenti assimilassero/avessero assimilato alla fine del corso di insegnamento). Sono elementi del programma, sì, ma c’è un lungo iter per raggiungerli. Non possiamo pretendere che gli allievi li acquisiscano subito.
Allora, come ci regoleremo per quanto riguarda l’insegnamento della grammatica? La domanda di fondo, rispetto a quanto abbiamo detto finora circa il non meccanico rapporto tra input e output, è: “serve o non serve?”. In altri termini, “se è utile, fino a che punto lo è?” “E per che cosa?” “E come va proposta?” “Conduce all’uso linguistico o no?”.
Le opinioni a questo proposito sono diverse, ma occorre fare una importante distinzione tra seconda lingua e lingua straniera. Nel caso di una seconda lingua, gli allievi sono esposti a massicci input extrascolastici che provengono dall’ambiente in cui vivono mentre in situazione di istruzione formale esiste solo l’input che dà l’insegnante anche attraverso i media che presceglie per la classe. Ora, mentre esistono numerosi studi sull’acquisizione “spontanea” per quanto riguarda una seconda lingua non esistono altrettanti e significativi studi sui ritmi e le modalità di acquisizione di una lingua straniera in contesti di istruzione formale. Secondo le ricerche più recenti, sembrerebbe che la distribuzione e la gradualità dell’input possa in qualche misura influenzare il ritmo di acquisizione, anche però in senso negativo. Quel che resta un punto fermo, comunque, è l’incidenza della personalità di ogni individuo sui tempi di acquisizione.
Chiediamoci allora: l’esplicitazione delle regole ha effettivamente un ruolo nella prassi didattica? Alcuni, come sappiamo, sono fieramente contrari all’esplicitazione sostenendo che non serve. Non porta direttamente alla loro assimilazione e alla loro applicazione. Altri sono invece favorevoli sostenendo che l’esplicitazione, come presa di coscienza, attraverso l’osservazione, di determinati aspetti della lingua previamente incontrati in contesto, possa favorire, accelerare l’acquisizione degli stessi. Nell’uno e nell’altro caso l’esplicitazione non avrebbe comunque carattere prescrittivo. Personalmente, sono a favore, sempre nei tempi e nei modi più adatti alle esigenze dell’apprendimento, di una certa riflessione metalinguistica. Quella cui nel contesto di ricerca angloamericano ci si suole riferire come “language awareness” o “consciousness raising”. È finalizzata a sensibilizzare gli allievi ai vari aspetti del linguaggio (lingua materna e lingua straniera) ed ha una certa affinità con quel che la ricerca scientifica italiana in questo campo suole definire educazione linguistica. Ma perché tale riflessione sia più proficua e avvenga secondo un processo autonomo e non prescritto dall’alto, sarebbe opportuno che essa avvenisse dopo un’attività comunicativa fondata sull’uso linguistico, che rappresenti cioè qualche cosa che si fa effettivamente in lingua a scopi ‘extralinguistici’. Innanzitutto è da rispettare il principio dell’information gap o “vuoto di informazione” che è insito in ogni evento comunicativo reale. Vale a dire che si comunica sempre agli altri qualcosa che gli altri non sanno, altrimenti comunicazione non ci sarebbe. A tali attività dovrebbero prendere parte gli allievi, orizzontalmente, vale a dire, tra di loro, senza la direzione delI’insegnante. Ne esistono molti esempi nei materiali ben fatti e certamente nell’esperienza della Dilit International House. Vorrei fare un solo esempio. Si tratta di un’attività basata sulla transcodificazione, cioè sul trasferimento dell’informazione da un codice non verbale (schematico o iconico) a un codice verbale, o viceversa.
Supponiamo che agli allievi A e B, o ai gruppi di allievi A e B, siano dati i seguenti diversi compiti: A ha davanti un grafico che rappresenta un oggetto che può essere di varia natura, come per esempio un attrezzo, un apparecchio, una macchina, e deve descriverlo verbalmente. B riceve la descrizione di A e deve ricostruire la rappresentazione grafica. A questo punto le due rappresentazioni grafiche, quella di partenza elaborata da A e quella ricostruita da B vengono messe a confronto. Laddove non combacieranno (tali divergenze saranno inevitabili), gli allievi stessi saranno chiamati ad analizzare “che cosa” nella descrizione e nella interpretazione non ha funzionato. Naturalmente tutto ciò ha un rapporto stretto con gli aspetti linguistici. Ed è a questo punto che la riflessione ha un ruolo fondamentale. A prescindere dalla sua maggiore o minore incidenza sulla capacità di trasferire le regole apprese nell’uso linguistico, l’attività metalinguistica connessa con un compito comunicativo contribuisce senz’altro alla maturazione della coscienza linguistica dell’allievo accelerando forse i suoi tempi di apprendimento di questo o quell’aspetto della lingua.
Questo è in fondo l’unico modo di coinvolgere l’allievo nel processo di apprendimento e di stimolarne la motivazione.
Ma il grosso della attività di classe – e sono pienamente d’accordo con il programma della Dilit – è che ci si basi sull’uso linguistico autentico attraverso testi autentici, che non vadano ovviamente troppo oltre le competenze degli allievi. Solo questi ci consentiranno infatti di fare riflettere e forse meglio interiorizzare da parte degli allievi non soltanto la grammatica del sistema linguistico ma anche la “grammatica dell’uso” (per es. aspetti pragmatici del messaggio, cioè atti linguistici e loro forza illocutiva/regole interazionali della conversazione come presa di turno/apertura e chiusura del discorso/formule di cortesia, etc.), un sapere, cioè che si acquisisce soltanto attraverso l’uso.
Ho messo molti problemi sul tappeto partendo dallo spunto del “fare grammatica” e rifacendomi ad alcuni aspetti modali della ricerca oggi condotta sull’apprendimento linguistico. È mia speranza che sia risultato chiaro il quadro in cui essi si connettono in base ad alcuni denominatori comuni che penso possono essere riassunti nei seguenti termini:
- è l’individuo che apprende secondo le sue particolari modalità ed è sulI’individuo che deve essere calibrato l’iter didattico;
- l’apprendimento è un processo che è necessario analizzare e interpretare in sede didattica. Non va schiacciato in termini di prodotto ma va colto nella sua dinamicità. Aspettarsi un’equazione tra input e output vuol dire ignorare appunto tale processo che comporta naturalmente numerose variabili;
- la consapevolezza delle regole della lingua è senz’altro importante per l’apprendente ma va acquisita partendo dall’uso linguistico effettivo che è necessariamente rappresentato da testi autentici e non scritti ad hoc per la classe. I testi autentici, opportunamente scelti, oltre ad essere motivanti per gli allievi, sono l’unico mezzo per fare cogliere agli apprendenti aspetti dell’uso linguistico ancora non completamente codificati e contemplati nelle grammatiche di riferimento e nelle indicazioni contenute nei libri di testo.
Sta a ciascuno di noi verificare questi aspetti della ricerca fornendo ad essi il supporto dell’esperienza.