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La Ricostruzione di conversazione: aspetti linguistici

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lo so bene, per esperienza diretta e indiretta, quanto, da parte di insegnanti e da parte di studenti, sia appetita la grammatica. E vorrei sottolineare come la Ricostruzione di conversazione sia una attività di presentazione di lingua orale principalmente deputata all’apprendimento e alla riflessione sulla grammatica, e quindi efficace soddisfacimento di quei diffusi appetiti di cui dicevo.

Ma, prima di entrare più approfonditamente nel merito della Ricostruzione di conversazione, vorrei fare qualche puntualizzazione sul concetto di grammatica. Nella relazione che ho svolto al precedente Seminario internazionale Dilit e in cui ho concentrato l’attenzione in particolare sulla grammatica, cercavo di mostrare come di quest’ultima si abbia spesso una concezione molto riduttiva, soprattutto al livello della prassi didattica e della redazione di testi per la didattica: cioè da una parte la grammatica viene vista come l’insieme delle regolarità della lingua (quindi si studia la grammatica proprio per imparare le regole che ci permettono di costruire enunciati e testi nella lingua), dall’altra parte però tradizionalmente si è teso, e tuttora si tende, a identificare la grammatica con la morfosintassi. Allora, se da una parte si afferma che la grammatica è l’insieme delle regolarità della lingua e dall’altra si identifica la grammatica con la morfosintassi, con ciò stesso automaticamente si implica che solo nella morfosintassi si hanno regolarità.

In quella relazione io cercavo invece di porre in evidenza che, certo, la grammatica è anche morfosintassi, ma in più molte altre cose.

Per esempio, grammatica non è soltanto la concordanza del participio passato nelle forme composte del verbo con il clitico oggetto diretto di terza persona, non è soltanto la reggenza del congiuntivo da parte di connettivi come purché o sebbene (fenomeni evidentemente morfosintattici), ma, tra l’altro, anche l’assegnazione del nucleo fonologico: nel mio esempio dello scorso anno facevo vedere come per uno stesso enunciato si dessero sei o sette possibili opzioni alternative per il nucleo fonologico, dipendenti, in quel caso, dalla diversità del contesto linguistico. In generale, il modo in cui noi, parlando o scrivendo, teniamo conto del contesto linguistico, del contesto extralinguistico, delle conoscenze che abbiamo sul mondo in genere e in particolare sull’interlocutore e sulle conoscenze che l’interlocutore ha sul mondo e su di noi e così via, il modo complesso e articolato in cui tutto questo interviene a strutturare la forma del testo, orale o scritto, che produciamo, è grammatica.

Tutto ciò che è globalmente riconducibile ad una categoria generale di registro linguistico – per cui un parlante nativo, in presenza di un certo enunciato e in base unicamente alla sua forma, è in grado di dire se esso è stato pronunciato in una situazione piuttosto familiare o in circostanze formali o addirittura ufficiali – è grammatica.

Tutto quel che ha a che fare con il rapporto tra le persone che interagiscono comunicando, cioè con ruoli sociali e atteggiamenti psicologici, è grammatica. Un caso molto semplice: se sono in macchina con una amica e voglio sapere dov’è, mettiamo, via Piave, le domando semplicemente Dov’è via Piave?. Ma se lo voglio sapere da un vigile urbano, nell’interpellarlo, alla precedente domanda generalmente premetterò uno Scusi. E qui si tratta di grammatica, perché ognuno di noi intenderebbe in quel caso il mio rivolgermi all’interlocutore omettendo una formula del tipo Scusi o Per cortesia o simili come un qualcosa che contravviene e delle regole di buona educazione. Se poi, anziché al vigile, io mi rivolgo ad un passante, allora sembra più naturale porre la domanda in modo indiretto mediante una struttura del tipo Saprebbe indicarmi…? o Sa mica…? ecc. E questo perché, mentre è attinente alla funzione sociale del vigile fornire anche delle informazioni ed essere esperto della rete stradale, almeno nella zona in cui esercita, tutto ciò non inerisce ai ruolo sociale del passante non investito di particolari mansioni, e di questo io devo, per norma di comportamento sociale, tenere conto nel relazionarmi con lui, cosa che influenzerà la forma dell’enunciato che gli rivolgo.

Quindi tutto ciò che ha a che fare con regole culturali è grammatica, cioè è un qualcosa di sistematico e convenzionale. In altri termini, in tutti quei casi in cui noi, ascoltando qualcosa che viene detto o leggendo qualcosa che è stato scritto, possiamo dire che questo qualcosa è conforme, o contravviene, a una certa norma, non importa che sia una norma morfosintattica o una norma di buona educazione, con ciò stesso riconosciamo di essere in presenza di un fenomeno grammaticale, cioè di una associazione sistematica tra un comportamento linguistico e un insieme di fattori circostanziali che caratterizzano la vicenda in cui quel comportamento ha avuto luogo e che il codice di interazione comunicativa prevede come pertinenti nella determinazione del comportamento linguistico stesso.

E ancora: in italiano io posso chiedere una informazione non solo in modo esplicito, per esempio attraverso un enunciato interrogativo (es. Che ore sono?), ma, date le opportune circostanze, anche in modo implicito, attraverso una affermazione dalla quale sia inferenzialmente deducibile la mia richiesta (es. Mi si è fermato l’orologio). All’orecchio di un anglofono quest’ultimo procedimento suona però estraneo e risulta ridicolo. Perché? Non perché egli non sia in grado di compiere l’inferenza corretta che lo porti a capire che in realtà io non voglio fare un’asserzione circa un inconveniente del mio orologio ma sapere da lui l’ora esatta, ma perché è per lui una convenzione culturalizzata che le richieste di informazione vadano effettuate in modo esplicito. Quindi, al di sotto di un comportamento che potrebbe apparire frutto di pura spontaneità ed espressività naturale, c’è in realtà una convenzione.

E della entità di tale sostrato convenzionale spesso non ci si rende conto se non confrontando lingue e culture diverse. Un esempio. All’italiano capace in inglese corrispondono non uno, ma diversi vocaboli, a seconda che esso significhi “abile”, “bravo”, “capiente” o altro ancora. Ora, per un italofono è naturale che capace possieda tutti quei significati, perché in effetti è possibile individuare tra di essi una trama di sottili relazioni e un denominatore comune (anche “capiente” può essere ricondotto a “capace di contenere”) e perciò individuare un motivo “logico” per l’unicità dell’etichetta linguistica. Solo che tale motivo non è altrettanto logico e scontato per un anglofono. Quel che è ovvio per noi, quindi, è ovvio non in virtù di natura ma di convenzione. Il punto è che nell’universo delle cose pensabili ed esprimibili, cioè nell’universo concettuale, esiste una fittissima rete di interconnessioni al cui interno non è data una segmentazione a priori che poi viene proiettata in parole. Ogni lingua impone le sue proprie segmentazioni particolari, e nell’ambito di ogni particolare segmentazione che viene ritagliata potranno trovarsi delle relazioni: per esempio tra tutti i sensi dell’italiano capace è possibile trovare un filo di collegamento. Ma è solo perché l’italiano ha stabilito che tutti quei sensi vengano raccolti sotto una comune etichetta; se avesse stabilito altrimenti e i significati coinvolti fossero diversi, noi troveremmo un diverso filo di collegamento. In fin dei conti, all’interno di tutti i (o quanto meno di moltissimi) raggruppamenti e accorpamenti di sensi è possibile trovare una “logica”, un filo rosso.

Conclusione: alla fonte di una quantità di “oggetti” sotto i quali noi a prima vista crediamo ci sia natura, in realtà c’è cultura, c’è arbitrarietà, c’è convenzione. Che significa tutto ciò dal punto di vista della conoscenza di una lingua? È chiaro: tutto ciò che non è natura ma cultura va appreso, cioè non può essere spontaneamente prodotto, va imparato. E ancora una volta, si tratta di grammatica, appunto perché è in gioco una associazione sistematica, una convenzione.

Altro esempio: tutte le regole interazionali della conversazione che presiedono al cosiddetto avvicendamento dei turni. Un comportamento tipicamente italiano al riguardo è quello della reciproca sovrapposizione dei parlanti, cosa che nel mondo anglosassone verrebbe considerata mancanza d’educazione: un anglosassone stima corretto rispettare i propri turni di avvicendamento e prendere la parola solo quando l’interlocutore ha terminato. La conseguenza è che un anglosassone che in una situazione italiana rimane rigidamente ancorato al proprio comportamento culturalmente indotto rischia di non poter mai arrivare a parlare e rischia magari di generare l’impressione di non aver niente da dire, mentre un italofono che in un contesto angloamericano riproduce disinvoltamente i moduli della propria cultura d’appartenenza può dar l’impressione d’essere maleducato e invadente. Ognuno sta applicando le proprie convenzioni culturali, che sono anche convenzioni che regolano il comportamento linguistico (in questo caso non le parole da dire, ma il quando parlare, il come prendere la parola, ecc.), ma ognuno, applicando le proprie convenzioni, che a lui sembrano frutto di natura e quindi generalizzate e universali, fa qualcosa che per altri risulta inadeguato, incongruo, tale da contravvenire a una norma. E questa è grammatica.

E ancora: la tecnica di autocorrezione cui avevo accennato l’anno scorso, consistente nel ripetere, in una tonalità più bassa, la stessa sequenza di (una o più) parole che si è pronunciata e che si intende segnalare come tale da doversi ritenere emendata, è una tecnica conversazionale che vale in italiano ma non per esempio in inglese. Per un italofono essa risulta istintiva, e quindi egli potrebbe considerarla spontanea e generalizzabile, ma il confronto interlinguistico e interculturale ci mostra che tale non è: anche qui si tratta di convenzione, e quindi di grammatica.

Un altro fenomeno. In italiano, a una domanda del tipo Vuoi da accendere? rivolta a chi intende fumare ha appena preso una sigaretta, non si risponde Prego, come i germanofoni alle prese con l’italiano tendono a fare, ma Grazie o Sì, per favore o qualcosa di analogo. Poiché il Bitte tedesco in altre circostanze corrisponde al nostroPrego, un germanofono è portato a generalizzare tale corrispondenza e la estende anche a casi, come quello in esame, in cui essa non tiene. Al di sotto dei diversi usi delle due lingue non c’è nessuna motivazione naturale: c’è soltanto arbitrarietà, quindi convenzione, quindi grammatica.

Un’altra differenza tra italiano e tedesco: in italiano io posso accettare qualcosa che mi viene offerto semplicemente dicendo Grazie; e questo Grazie, a meno che non sia accompagnato da un gesto di esplicito diniego, viene interpretato come “Sì, grazie”. Ma un germanofono non lo intende immediatamente così, perché nella sua prassi comunicativa il Grazie da solo, cioè il Danke, non fornisce risposta: egli direbbe in questo caso Ja, danke, Nein, danke in caso di rifiuto. Ancora una volta, il fatto che io in italiano possa fornire una esauriente risposta di accettazione mediante la sola espressione di ringraziamento è prodotto di convenzione culturale, e quindi fenomeno di pertinenza grammaticale, che il germanofono stenta a decodificare in base alle divergenti istruzioni di comportamento previste dalla grammatica della sua lingua.

E infine un episodio curioso. Quando, anni addietro, l’amministrazione comunale di Roma, città sempre più internazionale, decise di tradurre in inglese le istruzioni sui mezzi pubblici di trasporto, affidò il compito a traduttori che, naturalmente sapienti di grammatica secondo l’accezione tradizionale ma scarsamente dotati quanto a competenza grammaticale nell’accezione che io sto cercando di suggerire, resero in inglese l’originale È vietato salire senza il biglietto con una frase che, ineccepibile sotto il profilo morfosintattico, ad un orecchio nativo tuttavia suonava più o meno come “Non si va avanti nella vita senza il biglietto”.

Come definire allora la grammatica in una prospettiva più ampia di quella tradizionale e secondo me più adeguata? Il concetto di grammatica dovrebbe a mio parere essere fondato e poggiare su due nozioni basilari: quella di regolarità e quella di convenzione. Dovunque c’è regolarità e convenzione, c’è grammatica. Come già proponevo lo scorso anno, se indichiamo con il termine “determinanti” tutti gli elementi linguisticamente pertinenti, cioè gli elementi (ruoli sociali, atteggiamenti psicologici, contesto linguistico, contesto extralinguistico, enciclopedia, convenzioni idioculturali, e così via) che concorrono a strutturare il comportamento linguistico (intendendo con “comportamento linguistico” non soltanto le parole, opportunamente organizzate tra di loro, che vengono dette, ma più in generale la prassi di comunicazione attraverso il linguaggio, cioè anche per esempio quando iniziare a parlare, in che modo, con quale tono e volume di voce parlare, o addirittura l’uso linguisticamente significativo del silenzio), allora la grammatica dovrebbe essere definita come il dominio delle correlazioni codificate, convenzionalizzate, sistematiche tra determinanti e comportamento linguistico.

Fatta questa premessa sul concetto di grammatica, vorrei mostrare, attraverso un certo numero di esempi, come è possibile studiare la grammatica, e quanta grammatica di fatto si studia, mediante un testo e una attività di Ricostruzione di conversazione.

A questo scopo presenterò tre brani, ognuno dei quali è stato oggetto di una attività di Ricostruzione di conversazione da me svolta in una classe di studenti, e per ognuno di essi indicherò quali aspetti grammaticali si sono evidenziati e sono stati discussi e approfonditi nello svolgimento dell’attività. Tutti e tre i brani sono stati estratti da registrazioni di dialoghi spontanei tra persone al loro primo incontro.

Nel primo caso si tratta di due donne, A e B, trentenne la prima, cinquantatreenne la seconda. B ha già detto che sta per sposarsi, per la prima volta, e A ha descritto la propria situazione di persona con un matrimonio non riuscito alle spalle, attualmente separata e in attesa di divorzio, e sta ora raccontando quali fattori hanno accelerato, rendendola scarsamente ponderata, la sua decisione di sposarsi.

A – Nel mio caso hanno giocato molto le pressioni familiari.
B – Ah sì, eh?
A – Cioè pressioni familiari non così… come posso dire? … evidenti. Non evidenti, sotterranee.
B – Ecco. Sentivi che volevano che tu ti decidessi in quel senso.
A – Esatto. E non mi avrebbero mai perdonato di andare a convivere con questa persona.

I punti grammaticali emersi nello svolgimento dell’attività sono i seguenti1:

  • l’uso di giocare nell’accezione di “svolgere un ruolo determinante”;
  • l’opposizione perfetto-imperfetto nei due casi di hanno giocato e del successivo sentivi;
  • ancora nel primo enunciato, I’ordine delle parole, e in particolare la posizione postverbale del soggetto (dipendente dalla distribuzione dato-nuovo);
  • l’espressione Ah sì, eh? (che di fatto è stata l’espressione per gli studenti più difficile da ripetere, per quanto riguarda il contorno melodico, i tratti prosodici, le pause appropriate);
  • l’uso di cioè non in funzione esplicativa, ma di parziale rettifica di quanto precedentemente detto (pressioni familiari e l’opposizione anzi-cioè;
  • l’espressione come posso dire? come tecnica conversazionale per prendere tempo indicando che si sta cercando il modo più appropriato per esprimere quel che si ha in mente;
  • nell’unità tonale [non evidente] la posizione del nucleo fonologico sulla parola negata anziché sulla negazione (la sequenza risulta trattata come se fosse una parola sola, “inevidenti”, il che accade spesso in altri simili casi, contrastando con l’uso più generalizzato di porre il nucleo sulla negazione);
  • l’uso di ecco per segnalare di aver ricevuto, e al tempo stesso sottolineare, ciò che ha detto l’interlocutore
  • la consecutio temporum e la reggenza del congiuntivo da parte dei verbi di volontà, che determinano il congiuntivo imperfetto ti decidessi;
  • il riferimento attuato dall’espressione con questa persona, espressione che trasmette il senso di un maggior distacco dall’individuo menzionato rispetto ad altre possibili modalità di riferimento;
  • la duplice costruzione di perdonare (qualcuno vs qualcosa a qualcuno);
  • la preposizione di usata per introdurre una proposizione con funzione di oggetto diretto;
  • la presenza di due nuclei fonologici a struttura gerarchica (a incassamento) in una stessa unità tonale, costituita dall’ultimo enunciato (mai contiene il nucleo sovraordinato, convivere quello incassato).

Il secondo testo ci presenta due giovani persone, donna e uomo. La donna racconta un curioso episodio accadutole durante l’infanzia: di nome Maddalena, ma in famiglia comunemente chiamata col diminutivo Leni, ha sempre ignorato il suo vero nome fino a scoprirlo per caso dalla maestra di scuola elementare, che un giorno inaspettatamente rifiuta il nome Leni da lei scritto come contrassegno su una specie di autoritratto stilizzato.

A – Vado al banco, cancello “Leni” e scrivo “Anna”, che è il nome di mia madre. Dico “adesso se non esiste manco mia madre, e il massimo”.
B – Invece esisteva.
A – Mia madre per fortuna esisteva. Metti che pure mia madre si chiamava con un diminutivo strano, io mi suicidavo lì, perché non sapevo chi ero, di chi ero figlia, era la fine. Poi sono tornata a casa, ho detto “mamma, ma dimmi la verità, io come mi chiamo?”. Insomma, allora mia madre m’ha spiegato, questa storia.

Alcuni degli elementi emersi e trattati durante la ricostruzione del brano che è situato verso l’inizio dell’intero dialogo, e quindi del rapporto, tra due:

  • anzitutto l’uso di alcune figure retoriche che possono considerarsi tipiche di una narrazione colorita e vivace nell’ambito di un rapporto che fin dall’inizio si delinea improntato a reciproca simpatia e “complicità”: l’iperbole (mi suicidavo lì), la metonimia (adesso se non esiste manco mia madre, è il massimo; mia madre per fortuna esisteva: spostamento dell’attribuzione di esistenza dal nome alla persona, espediente retorico che del resto mette a fuoco una parallela dinamica psicologica di Leni bambina nella quale l’aver appreso che il proprio nome non esiste determina unì crisi di identità)
  • l’uso del presente storico con funzione narrativa (vado al banco, cancelli “Leni” e scrivo “Anna”) laddove la tensione del racconto è più incalzante e maggiore l’impatto emotivo di ciò che viene esposto; si noti che invece verso la fine del brano Leni torna al passato (sono tornata, ho detto, ha spiegato);
  • la strategia discorsivo-narrativa dello “pseudo-discorso diretto”, consistente nel riferire il contenuto di un proprio pensiero, nell’ambito di un racconto, come se fosse stato pronunciato a voce alta, con effetto di maggiore vivacità (Dico “adesso se non esiste manco mia madre, è il massimo”); si osservi invece che le parole riferite, verso la fine, come discorso diretto (ho detto “mamma ecc.”) costituiscono un effettivo discorso diretto;
  • la clausola colloquiale con valore ipotetico metti che…;
  • l’uso, nel registro colloquiale, dell’imperfetto, con valore ipotetico, sia nella premessa (si chiamava, quindi in luogo del congiuntivo), sia nella conseguenza (mi suicidavo, quindi in luogo del condizionale).

Per finire, si consideri il caso in cui la narrazione delle stesse vicende da parte della stessa persona venisse a costituire oggetto, anziché di un divertito chiacchierare con un nuovo conoscente-amico, di una deposizione in aula giudiziaria e si valuti la distanza, nella tessitura complessiva del discorso e nelle singole scelte linguistiche, tra i due testi.

Terzo brano. B ha precedentemente fatto qualche vago accenno al proprio lavoro, determinando involontariamente in A un malinteso.

A – Ma tu… Cioè i congressi com’è che rientrano nella tua attività?
B – Be’, perché io sono…
A – Cioè no, se ti posso chiedere questa cosa.
B – No, lavoro nel campo della chimica, della spettroscopia in particolare. E così, faccio quello che gli inglesi definiscono bene con “scientist”. Però in italiano suona male perché “scienziato” non si dice mai.

Anche qui solo alcuni degli elementi emersi e affrontati:

– la manifestazione di cautela di A dinanzi all’esitazione di B (Be’, perché io sono…) nel rispondere alla sua domanda, cautela espressa mediante l’enunciato Cioè no, se ti posso chiedere questa cosa, che veicola inoltre anche un certo grado di soggezione di A nei confronti di B (se A si sentisse dominante, o comunque autorevole, nel rapporto con B, esisterebbero altre modalità per indicare di non voler sconfinare indebitamente nell’altrui territorio privato);

  • l’espressione di uso prevalentemente colloquiale com’è che… ? nel senso di “come mai…?”;
  • il Be’ di esitazione (e in proposito va osservato che, contrariamente a quanto molti studenti e anche alcuni insegnanti ritengono, questa espressione e le altre riconducibili entro la tradizionale categoria di interiezioni, lungi dall’essere puramente riempitive e in fin dei conti intercambiabili, sono provviste ciascuna di una ben precisa e distinta valenza semantica e pragmatica che ne fa degno oggetto di riflessione grammaticale);
  • il No con cui B inizia l’ultima battuta del brano, che non denota negazione, ma introduce una spiegazione dopo un momentaneo intralcio nel flusso del dialogo.

Con i precedenti esempi intendevo mostrare quanta grammatica viene messa a fuoco con la Ricostruzione di conversazione. La cosa che vorrei fare adesso è sottolineare alcuni vantaggi che la Ricostruzione di conversazione presenta, come attività di riflessione grammaticale, rispetto ad altri tipi, più vicini alla tradizione didattica, di presentazione di lingua orale con intenti di analisi grammaticale.

Anzitutto c’è un vantaggio generale, consistente nel fatto che la Ricostruzione di conversazione permette, nell’ambito di una stessa attività, di spaziare sui diversi territori della grammatica (cui ho fatto riferimento all’inizio), anziché concentrarsi atomisticamente su una sola di queste zone e affrontare un singolo elemento alla volta, o anche più elementi ma sempre individualmente considerati.

E si tratta di un vantaggio non solo e non tanto quantitativo, dovuto cioè alla maggiore quantità di materiale grammaticale presentato e discusso in una sola attività, ma soprattutto qualitativo, perché in tal modo la Ricostruzione di conversazione:

  • promuove una riflessione coordinata sulle varie zone della grammatica, cioè permette di vedere come la grammatica è articolata in una varietà di settori diversi che non vivono in isolamento, ma che interagiscono e cooperano tra di loro per determinare la forma di quello che diciamo
  • da un lato consente di superare una concezione riduttiva della grammatica come limitata unicamente alla morfosintassi (che sarebbe l’unico dominio della regolarità, della sistematicità, della convenzione, mentre il resto sarebbe improvvisazione, caos, forza spontanea e incontrollata della natura), ma dall’altro permette anche di superare una concezione riduttiva della regolarità grammaticale come un qualcosa di preordinato, precostituito e codificato una volta per tutte, come norma rigida e tassativa, come paradigma inalterabile (cosa non vera non solo per le regole pragmatiche, ma non vera anche per le regole morfosintattiche, molte delle quali risultano invece sfrangiate e dai confini opachi, es. il congiuntivo retto da non è che, in luogo del quale nel parlato soprattutto colloquiale si trova anche l’indicativo). In una Ricostruzione di conversazionesi entra in contatto con atti linguistici e comportamenti linguistici concreti, cioè si va a vedere che cosa in questa effettiva circostanza hanno effettivamente comunicato questeeffettive persone.

In sintesi, si potrebbe dire (primo e fondamentale vantaggio) che questo tipo di attività permette di superare la dicotomia norma-uso, conciliandone i termini, e integrare inoltre le due nozioni di creatività linguistica che hanno operato nel nostro secolo: quella chomskiana di creatività governata da regole e quella crociana di creatività inventiva, innovativa. In termini semiotici: l’esistenza di un codice non esclude che esso possa essere messo in crisi, ma dall’altra parte il fatto che il codice possa essere messo in crisi non ne esclude, anzi ne conferma, l’esistenza. E quindi entrambe le cose – cioè il fatto che il codice esista e il fatto che possa essere messo in crisi – vanno prese in considerazione in un corretto approccio ai fenomeni della comunicazione.

Un secondo vantaggio è che da un’attività come la Ricostruzione di conversazioneemergono più elementi grammaticali di quanti l’insegnante ne possa programmare a tavolino in base alla sua personale esperienza di riflessione sulla lingua e in base ai testi di grammatica esistenti. E questo in parte perché l’unità d’insegnamento è un testo autentico (e non una regola, o un enunciato costruito per esibire una regola, o uno pseudotesto costruito per esibire una regola), in parte perché l’obiettivo dell’attività è quello di ricostruire il testo e per ricostruirlo bisogna scomporlo e analizzarlo nei suoi vari elementi costitutivi, operazione, questa, che evidenzia molti aspetti della lingua, per così dire, inediti, cioè sui quali non avevamo prima (sufficientemente) riflettuto.

Infine un terzo vantaggio: attraverso una Ricostruzione di conversazione è possibile fare, in tema di grammatica, affermazioni piuttosto precise e appropriate relativamente alla selezione di elementi linguistici difficilmente trattabili in assoluto. E qui è necessaria qualche considerazione generale. A tutti noi è capitato di imbatterci in grammatiche che presentano delle regole alle quali possiamo facilmente trovare dei controesempi; e in realtà, nonostante la mole complessiva degli studi grammaticali, le conoscenze complessive che si hanno sulla grammatica non sono molte. In effetti esiste un problema di fondo: cosa significa identificare esattamente l’uso di un elemento linguistico?

In generale, qualunque elemento viene definito rispetto ad altri elementi all’interno di una classe. E definire un elemento significa in fin dei conti trovare l’insieme dei tratti necessari e sufficienti a distinguere quell’elemento da tutti gli altri elementi all’interno della stessa classe. Definire significa contrastare e discriminare. Immaginiamo per esempio un sistema di tempi verbali, per semplicità un sistema a cinque voci: A, B, C, D, E. Definire in assoluto A significa trovare quali sono, in tutti i casi possibili, le differenze tra A e B, tra A e C, tra A e D, tra A ed E, cioè l’insieme dei tratti necessari e sufficienti a selezionare in ogni possibile caso l’elemento A rispetto a tutti gli altri elementi concorrenti all’interno dello stesso sistema. È un’impresa ovviamente di enorme portata, e di fatto fino ad oggi nessuno è riuscito a fornire una descrizione esauriente, accurata, esplicita, formale dell’uso dei tempi verbali.

Cosa ci permette di fare una attività come la Ricostruzione di conversazione? Ritorniamo al primo dei tre testi precedentemente analizzati. Nella ricostruzione di questo brano, ho già detto, è emersa la contrapposizione tra hanno giocato giocavano, nel primo enunciato. Ecco, relativamente ad un singolo caso, è possibile fare affermazioni abbastanza precise sul perché viene usato il perfetto e non l’imperfetto. Si noti che lo stesso enunciato con l’imperfetto in luogo del perfetto non sarebbe formalmente scorretto: tuttavia sarebbe appropriato ad un altro contesto, un contesto in cui la parlante stesse descrivendo una condizione, uno stato di fatto, del tipo In quel periodo la nostra situazione era profondamente diversa. Lui era libero nelle sue decisioni e invece nel mio caso giocavano molto le pressioni familiari. Nel brano che ci riguarda, invece, la parlante riferisce un evento, cioè quale motivo ha determinato il suo matrimonio: dunque l’opposizione semantica evento vs. condizione è, in questo caso, il valore corrispondente all’opposizione linguistica perfetto vs. imperfetto.

A questo punto vorrei specificare alcune delle condizioni necessarie per la riuscita di una attività del genere, cioè per far risultare la Ricostruzione di conversazione uno strumento veramente efficace di riflessione grammaticale e per ottenere i vantaggi che ho descritto prima.

Prima condizione: specificare con cura quelli che ho chiamato i determinanti. Si tenga presente lo schema che segue e che corrisponde a quanto ho precedentemente cercato di precisare sul concetto di grammatica:

determinanti —→ [grammatica] —→ comportamento linguistico

Nella relazione a due termini che prevede da un lato il comportamento linguistico e dall’altro i determinanti (cioè l’insieme degli elementi che concorrono a determinare il comportamento linguistico), la grammatica è appunto la correlazione tra i due termini. Ebbene, il testo della Ricostruzione di conversazione è solo comportamento linguistico. Quindi, se noi vogliamo studiare la grammatica di quel testo, e pertanto grammatica attraverso quel testo, dobbiamo porre in connessione il comportamento linguistico con i determinanti: chi sono le due persone – e le due personalità – che interagiscono, che rapporto c’è tra di loro, quali rispettivi ruoli sociali giocano, quali atteggiamenti psicologici hanno, in che situazione si trovano, che effetto vogliono esercitare l’uno sull’altro, nell’ambito dell’intera comunicazione che cosa affidano al messaggio verbale e quindi che cosa hanno intenzione di dire, che cosa hanno già detto e in particolare cosa hanno detto immediatamente prima. Se io rimango soltanto a livello di comportamento linguistico, non sto studiando grammatica, sto soltanto muovendomi alla superficie della lingua, in altri termini sto semplicemente osservando uno dei due poli della relazione anziché, come dovrei, la relazione tra i due poli. Riassumendo: occorre specificare accuratamente i determinanti e porre in correlazione determinanti e tratti di comportamento linguistico.

Seconda condizione: non avere fretta di giungere alla sequenza bersaglio. Nella Ricostruzione di conversazione, una volta presentati i determinanti, viene chiesta allo studente (alla classe) una ipotesi linguistica, da cui si prendono le mosse per arrivare al testo, a ciò che è stato effettivamente detto, cioè appunto alla sequenza-bersaglio.

sequenza-bersaglio
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enunciato iniziale dello studente
Ebbene, l’apprendimento è situato proprio lungo la linea che congiunge le due estremità, I’ipotesi iniziale dello studente e l’enunciato originale del testo. Perciò, quanto più affrettatamente si percorre questa linea pur di arrivare al bersaglio, tanto più si sprecano occasioni di apprendimento. Quanto più invece il tragitto viene articolato e scandito in una serie di passaggi intermedi, tanto più e tanto meglio si studia la grammatica della lingua.

Terza condizione: dialettizzare le varie fasi, cioè sottoporre alla riflessione della classe tutte le ipotesi che provengono dagli studenti. L’insegnante non decide immediatamente sulle soluzioni elaborate dagli studenti, ma rilancia la palla alla classe, invitandola a pronunciarsi in merito alle varie proposte. Questa strategia di gioco, che chiamo “dialettica” e che è prevista per ognuno dei passaggi dall’ipotesi iniziale fino al raggiungimento della sequenza-bersaglio, si contrappone ad una strategia di tipo “dogmatico”, in cui l’insegnante fornisce una immediata valutazione, corredandola di più o meno estese spiegazioni e commenti, delle ipotesi offertegli. Essendo l’apprendimento un processo di graduale complessificazione e aggiustamento di un certo universo cognitivo, ogni nuova informazione in ingresso deve essere raccordata e integrata in una preesistente rete di conoscenze così da arricchirla e, ove sia il caso, modificarla e più o meno parzialmente ristrutturarla. Al momento dell’ingresso dell’informazione nuova, pertanto, tale rete deve venir attivata e lasciata debitamente interagire con quell’informazione, e a tal fine è certamente più efficace astenersi dal fornire subito allo studente rassicuranti e indubitabili risposte e lasciare invece a lui la responsabilità del controllo e della valutazione.

Quarta condizione. In ognuno dei passi intermedi del percorso che va dalla proposta dello studente alla sequenza-bersaglio noi ci ripromettiamo di apportare un cambiamento (che può consistere in una aggiunta, in una cancellazione o in una trasformazione). Una condizione fondamentale è che vengano specificate le motivazioni di questo cambiamento, facendo inoltre attenzione a distinguere tra i diversi tipi di motivazioni. Io identifico quattro diversi tipi di motivazioni di cambiamento:

  • un enunciato può essere difettoso riguardo alla correttezza formale. Per esempio, l’enunciato Nel mio caso ha giocato molto le pressioni familiari rientrerebbe in questo caso;
  • si immagini che al posto del suo effettivo enunciato A avesse detto La causa determinante del matrimonio è stata costituita in ultima istanza dalle pressioni parentali. Questo enunciato sarebbe corretto, ma è inappropriato alla circostanza di comunicazione (che non è quella di un’aula giudiziaria) e alla persona cui l’abbiamo attribuito. Si immagini che A dica invece M’hanno rotto talmente i coglioni che alla fine ho dovuto cedere, frase che probabilmente la stessa persona ha detto in altre circostanze, ma che sarebbe inappropriata a queste circostanze, cioè alle caratteristiche del rapporto che si è instaurato tra lei e la sua interlocutrice;
  • un enunciato può essere inoltre corretto e appropriato, ma tale per cui non sarebbe actually performed, effettivamente espresso, da un parlante nativo, al cui orecchio esso risulta estraneo e spesso buffo. A titolo di esempio può valere, in italiano, un enunciato di invito del tipo Si potrebbe invitarti/La? (che costituisce un calco dal russo);
  • infine può esserci solo un problema di non-corrispondenza rispetto all’originale, cioè rispetto a quello che il parlante del brano scelto ha realmente detto. Per esempio, la frase Nel mio caso sono state molto determinanti le pressioni familiari sarebbe perfettamente corretta, appropriata, effettiva, però A non ha detto così.

Bisogna fare attenzione a distinguere fra queste quattro aree nel momento in cui si propone un cambiamento allo studente e motivare la trasformazione che si richiede indicando in quale delle quattro aree essa rientra.

Ricapitolando: anzitutto ho cercato di definire meglio che cosa io credo sia opportuno intendere per “grammatica”, poi ho presentato alcuni esempi di attività di Ricostruzione di conversazione con i relativi testi mostrando la quantità di grammatica che viene presa in esame in un’attività del genere, quindi ho parlato di alcuni vantaggi nella riflessione grammaticale che la Ricostruzione di conversazione comporta rispetto ad altri esercizi di analisi grammaticale, infine ho tratteggiato alcune delle condizioni più importanti che garantiscono tali vantaggi.

Note

Nota 1. Va notato (e l’osservazione vale anche per gli altri due brani presentati più avanti) che, per ogni studente che ha partecipato all’attività, alcuni di tali punti erano totalmente nuovi, altri solo vagamente conosciuti, altri ancora più o meno noti, e la distribuzione variava da uno studente all’altro. Questa è la fisionomia normale di una classe (eccettuato un livello di competenza zero, o vicino allo zero, in cui pressoché ogni elemento linguistico è totalmente sconosciuto) e questa è la situazione che dovrebbe tener presente che si interroga se la RC sia una attività di presentazione del nuovo o di revisione e consolidamento del già noto. Evidentemente, essa è entrambe le cose, essendo l’escursione tra ciò che è totalmente ignoto e ciò che è ciò che è totalmente noto una linea continua lungo la quale si possono occupare infinite posizioni intermedie ed essendo non-coincidenti le rispettive competenze dei membri di una classe.