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Competenza simbolica e traduzione culturale per una pedagogia olistica

Abstract

La riscoperta della traduzione come legittima metodologia per l’insegnamento e apprendimento delle lingue moderne risale alla fine degli anni ottanta del XX secolo, quando gli studiosi di linguistica applicata affermavano che le attività orientate verso la traduzione erano di indubbio valore nella glottodidattica (Campbell 1998; Malmkjær 1998). Nonostante tale riconoscimento, è solo nell’ultimo decennio che la traduzione ha incominciato ad affermarsi come una metodologia efficace per l’acquisizione sia di competenze comunicative sia di competenze comunicative interculturali (Cook 2009; Witte et al. 2009). Alla luce di questo importante revival, la mia relazione si prefigge di offrire un contributo all’attuale dibattito sul ruolo che la traduzione avrà in una prospettiva pedagogica ispirata ai principi dell’approccio ecologico all’apprendimento e insegnamento delle delle lingue straniere. In primo luogo analizzerò l’approccio olistico alla traduzione culturale elaborato da Maria Tymoczko (2007) nell’ambito della teoria della traduzione. In secondo luogo prenderò in esame la nozione di competenza simbolica proposta da Claire Kramsch (2006, 2008; Kramsch and Whiteside 2008, Kramsch 2009) nell’ambito della teoria della glottodidattica.
Nella terza parte della mia relazione approfondirò gli aspetti di maggiore convergenza tra le due impostazioni teoriche, evidenziandone la forte potenzialità per lo sviluppo di una pedagogia delle lingue moderne che sia consona alle esigenze di in un mondo sempre più caratterizzato da tendenze globalizzanti e multiculturali (Laviosa 2009). Infine, illustrerò come la competenza simbolica e l’approccio olistico alla traduzione culturale siano intimamente interconnesse nella prassi letteraria.
A tal fine mi ispirerò principalmente alle auto-riflessioni condivise con me da Isabella Vaj (intervista via e-mail, 15.02.2010) sia sulle sue traduzioni dei romanzi di Khaled Hosseini, Il cacciatore di aquiloni e Mille splendidi soli, sia sul suo libro Il cacciatore di storie.

Introduzione

Nel corso dell’ultimo decennio abbiamo assistito ad un fenomeno che Guy Cook (2009) definisce “il revival della traduzione” nell’apprendimento delle lingue straniere. A che cosa si deve questo ritorno in auge? Per scoprirlo entriamo nella classe di lingua straniera dove gli studenti ci diranno in  oro “saper tradurre è un’abilità che può essere molto utile nel mondo lavorativo odierno, che è sempre più globale e multilingue”. Se diamo la parola agli insegnanti, ci diranno all’unisono “la traduzione sviluppa accuratezza, scorrevolezza, flessibilità e competenze comunicative interculturali”. E se volgiamo lo sguardo all’ampio paesaggio interdisciplinare che circonda la classe di lingua straniera, troveremo altre forti motivazioni a favore del revival della traduzione. In primo luogo, la disciplina denominata translation studies ha svelato la ricchezza e complessità della traduzione come un’attività comunicativa che ha luogo tra lingue e culture diverse. Inoltre, in una prospettiva ecologica, nell’istruzione bilingue, la traduzione viene legittimata insieme ad altre strategie che comportano l’uso di due o più lingue in parallelo (Cummins 2005: 588, in Creese/Blackledge 2010: 107). In questo modo le lingue esistenti vengono apprese insieme alle nuove, sviluppando così quella che Leonard van Lier ha definito “un’ampia vista panoramica di sé” (van Lier 2008: 54 in Creese/Blackledge 2010: 104). Anche le auto-riflessioni di traduttori letterari mi sembrano particolarmente illuminanti per quanto concerne l’importanza della traduzione come attività interculturale. Qui vorrei citare le osservazioni fatte da Elizabeth Szász, la quale, nata in Gran Bretagna e trasferitasi in Ungheria nel 1962, dopo 30 anni vissuti in questo paese, afferma “non mi ero mai resa conto di quanto si potesse imparare riguardo alla propria cultura attraverso la traduzione” (Szász 1996:188 in Skutnabb-Kangas 2000:122). Sul questo sfondo variegato, la mia relazione si prefigge dunque di:

  1. partecipare all’attuale dibattito sul futuro della traduzione nella glottodidattica;
  2. allargare ed arricchire il dialogo interdisciplinare ed interculturale tra insegnanti di lingua straniera e insegnanti di traduzione.

Per realizzare questi obiettivi esploreremo due principi che ci consentono di scoprire l’interrelazione fra l’apprendimento della lingua straniera e quello della traduzione. I due principi sono: la traduzione culturale olistica, proposta da Maria Tymoczko (2007) nella teoria della traduzione e la competenza simbolica, elaborata da Claire Kramsch nella teoria dell’insegnamento delle lingue straniere (Kramsch 2006; Kramsch/Whiteside 2008; Kramsch 2009).

La traduzione culturale olistica

L’approccio olistico alla traduzione culturale elaborato da Tymoczko presuppone che la traduzione sia considerata come una forma di tre interconnesse modalità di scambio culturale. La prima è la ‘rappresentazione’: la traduzione è solitamente una forma di rappresentazione in quanto essa fa le  eci del testo di partenza. La seconda modalità è la ‘trasmissione’ (o trasferimento): la maggior parte delle traduzioni comportano infatti il trasferimento di alcuni elementi del testo di partenza nel testo di arrivo. La terza modalità è la ‘transculturalità’, ovvero l’appropriazione, nella lingua e cultura di arrivo, di elementi culturali presi in prestito dalla lingua e cultura di partenza, in modo che vengano incorporate nella cultura di arrivo. Tymoczko ci spiega che il modo in cui le tre
modalità vengono negoziate dal traduttore dipende da specifici contesti storici e socio-culturali.
Inoltre, mentre la transculturalità è stata poco discussa nell’ambito della disciplina Translation Studies, la rappresentazione e la trasmissione sono sì state ampiamente considerate dagli studiosi, ma principalmente come attributi della traduzione, piuttosto che come ampie categorie nelle quali le singole traduzioni possano essere situate. Allora quali sono i benefici che derivano dal considerare queste tre interfacce culturali come ampie categorie concettuali che includono, influenzano, e illuminano il fenomeno della traduzione?

Il primo beneficio consiste nel consentire di elaborare teorie traduttive che intendano la traduzione come un ampio concetto cross-linguistico, cross-culturale e cross-temporale, che in forma abbreviata la studiosa chiama ‘traduzione con l’asterisco’ (*traduzione). Il secondo beneficio  consiste nell’ispirare una pedagogia che sviluppi la capacità di tradurre in un mondo globalizzante, il quale richiede apertura, comprensione nonché rispetto verso le differenze culturali. Il terzo beneficio è di poter creare tipologie dove si individuino sia le affinità che accomunano traduzioni appartenenti a svariati contesti socio-culturali sia le differenze che caratterizzano la produzione traduttiva di una singola tradizione culturale.

Passiamo ora a considerare la teoria socio-culturale che sottende l’approccio olistico alla traduzione culturale. La Tymoczko attinge principalmente al concetto di habitus elaborato da Pierre Bourdieu negli anni ’70 e definito come “un sistema di disposizioni durature e trasferibili, il quale, integrando le esperienze del passato, opera in qualsiasi momento come una matrice di percezioni, riconoscimenti ed azioni, rendendo possibile la realizzazione di una varietà infinita di compiti e attività” (Bourdieu 1977:82-83 in Tymoczko 2007:226). Quindi, nella prassi della traduzione culturale il traduttore terrà conto dell’habitus della cultura di partenza e del suo rapporto con la cultura di arrivo. Ciò vuol dire che “un approccio olistico alla traduzione culturale prenderà innanzitutto in considerazione i più ampi elementi culturali che separano la cultura di partenza da quella di arrivo, al fine di creare un contesto che coordini le scelte di carattere culturale che verranno effettuate nel corso della traduzione” (Tymoczko 2007:235). Per facilitare questo delicato e impegnativo compito la studiosa propone un repertorio parziale di elementi culturali che il traduttore potrà considerare al fine di affrontare con sensibilità, responsabilità e consapevolezza le problematiche insite nella traduzione delle differenze tra lingue e culture distanti nel tempo e nello spazio.

I primi ampi elementi culturali da prendere in considerazione sono i ‘concetti firma di una cultura’, i quali svolgono un ruolo fondamentale nell’organizzazione sociale di una comunità e nelle sue pratiche culturali. Esempi di tali concetti in culture diverse sono: libertà, benessere, progresso, coraggio, vergogna, purezza (Tymoczko 2007:238-239). Le ‘parole chiave’ sono elementi culturali che a volte rimandano ai concetti firma, e a volte indicano elementi scelti dall’autore per organizzare il testo. Un esempio descritto dalla studiosa è la metafora creativa degli occhi blu nel romanzo di Tom Morrison The Bluest Eye (1970), la quale rappresenta l’egemonia razzista in America alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale (Tymoczko 2007:241). Le ‘metafore concettuali’ sono elementi culturali che foggiano il nostro pensiero; esse spesso variano da una cultura all’altra, come dimostrano Yan Ding et al (2010) nella loro investigazione delle metafore
della PAURA nella lingua inglese e in quella cinese. Gli studiosi dimostrano come la metafora LA PAURA E’ UN AVVERSARIO, pur essendo presente in entrambe le lingue, in inglese viene usata per concettualizzare la condizione di cadere vittima della paura, mentre in cinese viene usata per descrivere il tentativo di vincerla. Il ‘discorso’, inteso come un insieme sistematico di affermazioni che esprimono i significati e valori di un’istituzione, è anch’esso considerato un elemento culturale di rilievo in una prospettiva olistica. Un esempio è il discorso della ‘privacy minacciata’, recentemente esaminata da Katherine Adams (2009) nella scrittura biografica e autobiografica femminile dell’America dell’800. Le ‘pratiche culturali’ comprendono, fra le tante, l’uso dei titoli, le forme di saluto e di commiato, la denominazione dei rapporti di parentela. Per esempio, in tailandese alla parola nonno corrispondono due parole: po (nonno paterno) e ta (nonno materno) e alla parola nonna corrispondono: ya (nonna paterna) e yay (nonna materna). In cinese ci sono cinque parole diverse per zio, ovvero shushu, bobo, jiujiu, guzhang, e yizhang, ciascuna delle quali si riferisce ad uno specifico legame di parentela. Queste pratiche sono importanti sia per creare la propria identità, personale e sociale, sia per raggiungere la coesione sociale di una comunità. I ‘paradigmi culturali’ sono l’umorismo, l’argomentazione, l’uso delle figure retoriche. Ad esempio, nella cultura anglosassone di quella italiana, l’umorismo è presente in una più vasta gamma di generi testuali: dai titoli dei giornali, alla relazione accademica, dal discorso che il testimone dello sposo pronuncia prima del pranzo nuziale al discorso di parenti e amici durante un funerale, come nel famoso film Quattro matrimoni e un funerale. Infine la ‘sovracodificazione’ si riferisce a quelle caratteristiche linguistiche che differenziano i generi testuali oppure le modalità di comunicazione, come ad esempio il testo scritto e quello orale. In arabo, la prosa argomentativa, come spiega Mona Baker (1992:236), è caratterizzata, a differenza dell’inglese, dalla ripetizione della forma e dei contenuti, per cui la stessa informazione è detta e ridetta al fine di persuadere l’ascoltatore o il lettore. Riassumendo quindi, “un approccio olistico alla traduzione, a differenza di un’impostazione focalizzata solo su alcuni elementi di differenza culturale, consente un maggiore scambio tra culture ed una asserzione culturale più efficace, permettendo così al mondo di accogliere il nuovo” (Tymoczko 2007:233).

La competenza simbolica

Alla base del concetto di competenza simbolica c’è la lingua vista come sistema simbolico. Si presuppone cioè che la lingua sia costituita da forme simboliche che:

  1. rappresentano realtà oggettive;
  2. costruiscono realtà soggettive come ad esempio le percezioni, le emozioni, gli
    atteggiamenti e i valori (Kramsch 2009: 7).

Il concetto di competenza simbolica ha le sue origini nel concetto di terza cultura elaborato da Kramsch (1993) nell’ambito dell’apprendimento interculturale delle lingue. Terza cultura si riferisce all’insieme di memorie e significati creati dagli apprendenti di una lingua straniera e da coloro che vivono al di là dei confini della terra di origine al fine di creare un terzo luogo, il quale si trova all’intersezione di varie lingue e culture e sia in grado di preservare la diversità di stili di vita, interessi, aspirazioni. I concetti di terza cultura e terzo luogo sono stati recentemente riconsiderati dalla studiosa (Kramsch 2008, 2009) in una prospettiva ecologica, ritenuta in grado di accomodare le esigenze comunicative della nostra società sempre più globale e migratoria, dove si interloquisce sempre più non con parlanti monolingui che rivelano una identità assimilabile ad una nazionalità unitaria, ma con parlanti multilingui, i quali, appartenendo alla cultura ibrida dei flussi migratori, sviluppano una varietà di comportamenti, atteggiamenti, ideologie, valori. In questo scenario multilingue e multiculturale dove la cultura risiede nella costruzione simbolica di realtà soggettive attraverso la comunicazione, quello che gli apprendenti di una lingua straniera devono sviluppare è appunto la competenza simbolica, ovvero un insieme di abilità che permettono non solo di comunicare significati in maniera accurata, efficace e appropriata, ma anche di comprendere che cosa voglia dire produrre significati, foggiando così il contesto nel quale una lingua si apprende e si usa. Pertanto, è intrinseco alla competenza simbolica il concetto di potere simbolico, espresso come “sense pratique, esercitato dall’habitus che foggia lo stesso contesto dal quale viene foggiato” (Bourdieu 1997/2000:150 in Kramsch /Whiteside 2008:664; Kramsch, e-mail, 31.03. 2009).

Per sviluppare la competenza simbolica gli apprendenti di una lingua straniera devono comprendere quello che gli altri ricordano del loro passato, quello che immaginano e proiettano nel futuro nonchéla loro collocazione nel presente. Inoltre devono comprendere tutto ciò anche di sé stessi. Più precisamente si deve sviluppare la capacità di interpretare i significati sulla base delle caratteristiche del discorso, prestando attenzione alla forma, al genere, allo stile, al registro, alla semiotica sociale.
Si deve comprendere come la forma linguistica foggia le rappresentazioni mentali. Si deve altresì comprendere che le forme simboliche non sono soltanto vocaboli o strategie comunicative, ma esperienze personificate, risonanze affettive, frutti dell’immaginazione. La competenza simbolica si nutre di un’immaginazione multilingue, ovvero “la capacità di immaginare diversi modi di ricordare un evento, di raccontare una storia, di partecipare ad una discussione, di identificarsi con gli altri, di immaginare il proprio futuro e quello degli altri, ed infine di definire e misurare successi e fallimenti” (Kramsch 2009: 201).

Un’immaginazione multilingue può essere sviluppata attraverso un’immaginazione letteraria “perché è attraverso la letteratura che si impara a comunicare non solo con persone reali, ma anche con persone immaginate oppure con le persone che uno vorrebbe emulare” (Kramsch 2006: 251). A questo proposito merita di essere citato il modello pedagogico offerto da Erin Gruwell (1999), la quale propone il ‘freedom writers method’ di insegnamento della scrittura, che rende possibile il  cambiamento di noi stessi e del mondo che ci circonda, comprendendo fino in fondo come l’arte rifletta la vita vissuta nella quotidianità. Come può allora la letteratura contribuire al
raggiungimento della competenza simbolica?
Attraverso la letteratura si può sviluppare un senso della complessità della comunicazione umana, la quale non consiste solo nel parlare o scrivere correttamente, scorrevolmente ed efficacemente.
Nella comunicazione umana si esercita un potere simbolico, vale a dire in uno scambio verbale i partecipanti indicano il mondo simbolico al quale appartengono, costruendo così la propria identità.
Lo studio dell’analisi conversazionale applicata alla narrativa presente nelle opere teatrali può quindi, a mio avviso, essere utile a svelare questo esercizio di potere simbolico, sviluppando così quella che Kramsch definisce la ‘produzione di complessità’. L’analisi conversazionale rivela infatti come le varie strategie narrative usate dai personaggi di un dramma mettano in luce i loro svariati ruoli e la funzione da essi svolti nello sviluppo della trama (Bowles 2010). Un altro modo in cui la letteratura è in grado di nutrire la competenza simbolica è attraverso lo sviluppo della ‘tolleranza verso l’ambiguità’ che esiste tra realtà e finzione. E a questo proposito va segnalato il sito creato da Daniel Candel presso la Universidad de Alcalá, che si prefigge di guidare gli studenti nell’analisi della letteratura inglese (http://www.literarycrit.com). Inoltre, i romanzi dove le esperienze di vita personale vengono evocate attraverso la narrativa possono essere delle ottime risorse per mettere in luce la contraddizione tra mito e realtà. Alcuni esempi sono Angel (di Elizabeth Taylor, 1957), Oranges Are Not The only Fruit (di Jeanette Winterson, 1985), Becoming Jane Austen (di Jon Spence, 2003), The Jane Austen’s Book Club (di Karen Joy Fowler, 2004). Un terzo modo in cui la
letteratura contribuisce allo sviluppo della competenza simbolica è attraverso lo studio della ‘forma come significato’, nelle sue varie manifestazioni: testuale, visiva, poetica. E in questo ambito già negli anni ’90, la Kramsch legittimava la traduzione come un’attività volta ad interpretare in diversi modi il significato potenziale contenuto nel testo originale.

A distanza di sedici anni la traduzione è in perfetta armonia con il concetto di competenza simbolica elaborato dalla studiosa. Però bisogna chiarire che la traduzione non viene qui intesa come un esempio di trasferimento da un testo all’altro, bensì come ripensamento di un contesto attraverso un altro contesto, dove per contesto si intende un’intera ecologia di cui il testo è solo una componente, attingendo alla teoria della complessità di Diane Larsen-Freeman (Larsen-Freeman 1997; Larsen-Freeman, Cameron 2008: 115-161 citati in Kramsch and Whiteside 2008: 660), che offre
un’ulteriore dimensione teorica al concetto di competenza simbolica (Kramsch, e-mail,
31.03.2009). Inoltre, “come prassi che rivela le differenze culturali nel rapporto tra lingua e pensiero, la traduzione dovrebbe essere ripristinata, non solo dalla L1 alla L2 o dalla L2 alla L1, ma tra le lingue condivise dagli studenti in classe, oppure tra modalità diverse: testuali, visive,  musicali” (Kramsch 2009: 211). Quindi si incoraggia una glottodidattica che preveda non solo l’uso della traduzione interlinguistica, ma anche di quella intralinguistica ed intersemiotica. Da ciò si evince che in una pedagogia ecologica, come quella concepita dalla Kramsch, il valore della traduzione consiste nella sua capacità di scollare il significante dal significato sia nella lingua di partenza che nella lingua di arrivo, mettendo a nudo il potere simbolico insito nell’uso delle lingue, che denotano e connotano, rappresentano e costruiscono attraverso un processo continuo di
confronto e negoziazione translinguisto e transculturale.
Riassumendo, la competenza simbolica consiste nel saper:

  • comprendere il valore simbolico delle forme simboliche e le memorie culturali da esse evocate;
  • considerare in modi diversi le realtà a noi familiari, creando realtà nuove e scoprendo un’identità che si colloca in uno spazio translinguistico e transculturale;
  • guardare la lingua (capacità metalinguistica) e attraverso di essa (capacità di
    pensare in un’altra lingua), comprendendo le sfide lanciate dalle ideologie unitarie
    all’autonomia e integrità del soggetto (Kramsch 2009: 201).

Traduzione culturale olistica & competenza simbolica: teoria e prassi

Considerando le principali convergenze tra i concetti di traduzione culturale olistica e competenza simbolica, si può affermare che essi sono entrambi sottesi da teorie socio-culturali moderne, le quali concepiscono la cultura non come un insieme coerente di comportamenti e valori, bensì come azione, negoziazione, competizione. Entrambi i concetti intendono conferire potere simbolico ai traduttori da una parte e agli apprendenti di lingue straniere dall’altra rendendoli produttori consapevoli e responsabili di significati. Entrambe le studiose allargano il concetto di traduzione
tradizionalmente inteso come trasferimento da un testo all’altro e propongono che la traduzione venga considerata come forma di rappresentazione, trasmissione e trasculturalità (la Tymoczko) e come ripensamento di un contesto attraverso un altro contesto (la Kramsch). Infine, entrambi i concetti asseriscono che l’analisi del testo comporta necessariamente un’analisi culturale, la quale richiede una riflessione sulla propria soggettività. Questo perché, come spiega la Tymoczko, “non si può percepire o analizzare la differenza culturale senza essere coscienti della propria cultura, ovvero del modo in cui la storia è diventata natura del proprio essere” (Tymoczko 2007:236).
Queste parole sembrano riecheggiare la Kramsch quando afferma che “per comprendere gli altri dobbiamo comprendere quello che ricordano del loro passato, quello che immaginano e proiettano nel futuro, e di come si collocano nel presente. E dobbiamo comprendere le stesse cose di noi stessi” (Kramsch 2006:251).

Illustrerò adesso come l’approccio olistico alla traduzione culturale e il raggiungimento della competenza simbolica siano intimamente interconnesse nella vita reale. Sarò in grado di realizzare questo obiettivo grazie alla preziosa collaborazione di Isabella Vaj, la quale è stata un’insegnante di inglese e autrice di libri di testo di inglese di un certo valore e successo; è un’archeologa; è un’appassionata conoscitrice della lingua araba e della cultura islamica; è una scrittrice; ed è la traduttrice italiana dei romanzi di Khaled Hosseini: The Kite Runner (Il cacciatore di aquiloni) e A Thousand Splendid Suns (Mille splendidi soli).
Sono molto grata ad Isabella Vaj per aver condiviso con me vari scritti e auto-riflessioni:

  • Desiderata: L’incontro tra Oriente e Occidente nella Cividale di VIII secolo /East
    encounters West in 8th century Cividale. Cividale del Friuli, 2006.
  • “Il traduttore come controfigura”, manoscritto, Milano, luglio 2009.
  • “Un’intervista con Isabella Vaj”, intervista condotta da Sara Laviosa via e-mail, 15 febbraio 2010.
  • E-mail scambiate dall’1 al 16 febbraio 2010.

Prima di svolgere l’analisi della mia intervista, vorrei raccontarvi come mi sono avvicinata alla produzione letteraria della Vaj, autrice-traduttrice. Avevo innanzitutto visto l’adattamento cinematografico del primo romanzo di Hosseini, The Kite Runner, su SKY Cinema. Ho subito pensato che quest’opera sarebbe stata ideale per le mie classi di lingua e traduzione per i seguenti motivi.

Khaled Hosseini è “un afghano in esilio” come lui stesso si descrive. E’ nato a Kabul nel 1965 e nel  1980, subito dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan, avvenuta nel dicembre del 1979, ottenneasilo politico negli Stati Uniti trasferendosi con la sua famiglia a San Josè in California. The Kite Runner esprime l’identità transculturale dell’autore in vari modi. E’scritto in inglese, la lingua del paese di adozione, e contiene anche molte espressioni in farsi, la lingua madre dell’autore. Il romanzo è ambientato in Afghanistan e in California. La narrativa di Hosseini è caratterizzata dal registro dell’oralità che sopravvive nella cultura afghana. Quindi l’opera è un esempio calzante di
transculturalità e si presta molto bene a sviluppare una delle tre componenti della competenza simbolica: la produzione di complessità. Inoltre, sia gli eventi storici sia le esperienze di vita dell’autore sono evocati nel romanzo. Come Amir, Hosseini scrive da quando era bambino; come Amir, da adulto diventa un famoso scrittore e partecipa a
progetti a favore del popolo afghano; come Amir, Hosseini trova asilo politico negli Stati
Uniti. Pertanto, questo libro offre molti spunti per sviluppare la tolleranza verso l’ambiguità.

Inoltre, The Kite Runner è un bestseller internazionale. E’ stato pubblicato in 40 paesi ed è rappresentato in svariate forme, ciascuna delle quali dà vita ad una interpretazione diversa dell’opera originale, cosicché lo studio delle varie rappresentazioni del romanzo può sviluppare la capacità di apprezzare che forma e significato sono inscindibili.
Infine, dal 2006 Khaled Hosseini è un inviato dell’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Grazie al successo del suo primo romanzo, Hosseini ha lasciato la professione di medico, dedicandosi completamente alla scrittura e ad iniziative umanitarie a favore della sua terra d’origine. Questo è un esempio importante di come la scrittura può cambiare la nostra vita e quella degli altri, proprio come ha dimostrato Erin Gruwell nel libro The Freedom Writers Diary (1999).

Quindi ero pronta ad acquistare il materiale fin qui elencato al fine di studiarlo a scopi didattici e di ricerca, quando un giorno, curiosando in una libreria dell’Aeroporto di Fiumicino, poco prima di imbarcarmi sul volo per Bergen, sono stata attratta da un libro: Il cacciatore di storie: Un viaggio nel mondo dell’autore de Il cacciatore di aquiloni, di Isabella Vaj e con una introduzione di Khaled Hosseini. Sulla copertina, l’ultimo paragrafo dell’introduzione recita:

“Spero che i lettori di questo libro, che invita a osservare più da vicino gli usi, i costumi, la poesia e l’arte dell’Afghanistan, possano apprezzare quanto di grande, di nobile, di antico vi è nella cultura afghana e provino il desiderio di scoprire l’anima di un popolo che non ha smesso di soffrire, ma non ha smesso di sperare”.
Khaled Hosseini

Ho subito pensato che Il cacciatore di storie mi avrebbe consentito di approfondire la mia conoscenza dell’habitus dell’autore. Ed infatti le mie aspettative sono state soddisfatte perché attraverso la lettura del libro:

  • ho scoperto le tracce della storia, arte, poesia e cultura afghana lasciate dall’autore nei suoi romanzi;
  • ho letto le storie che si celavano all’ombra delle allusioni dello scrittore;
  • ho scoperto i significati simbolici del verbo run (senso di colpa, gioia, redenzione) e il valore di questo verbo come parola chiave nel romanzo a partire dal titolo fino all’ultima frase “I ran”;
  • ho imparato il significato del termine tecnico “kite runner”;
  • ho compreso il motivo della traduzione di “kite runner” come “cacciatore di aquiloni”;
  • ho scoperto il concetto di traduzione che sottende le rese di Isabella Vaj.

Ma la storia non finisce qui, perché, alla fine di ciascun capitolo, graziosamente annunciato dall’immagine di un uccellino che trasporta un bulbo nel becco, c’è un dono. Qui, ispirata dai ricordi ed emozioni suscitate dalla lettura, traduzione e riflessione sui romanzi di Hosseini, Isabella Vaj ci racconta le sue storie come le sono tornate in mente dai tempi dell’infanzia e dell’adolescenza, e attraverso questi vividi ricordi lei riscopre il suo mondo attraverso il mondo di Hosseini, avvicinando il lettore ad entrambi. Sono rimasta affascinata da questa importante opera creativa che mi ha permesso di conoscere l’habitus dell’autore e quello della sua traduttrice. Ma non solo, Il cacciatore di storie mi sembrava la prova vivente che la competenza simbolica si potesse raggiungere attraverso l’apprendimento, o meglio lo studio, della lingua straniera in una prospettiva ecologica ed in seguito potesse essere esaltata ed arricchita da un approccio olistico alla traduzione culturale. Sapevo di essere sulla buona strada, ma avevo bisogno di verificare le mie ipotesi direttamente con Isabella Vaj. Quindi l’ho contattata attraverso la Casa Editrice Piemme, le ho descritto a grandi linee l’ambito della mia ricerca e le ho chiesto se potesse rispondere ad una serie di domande scaturite dalla lettura del suo libro. Non solo Isabella Vaj è stata ben lieta di essere intervistata, ma mi ha anche fatto dono di altri scritti di cui sopra. Quello che segue è l’analisi delle parti più salienti del nostro scambio di riflessioni sulla traduzione e su Il cacciatore di storie.

 

La mia prima domanda si prefiggeva di avere maggiori informazioni sull’habitus della traduttrice:

  1. Sia l’Introduzione a Il cacciatore di storie sia le storie che Le è piaciuto raccontare in quest’opera ci rivelano diversi aspetti della Sua vita e dei Suoi variegati interessi. Che cos’altro può dirci di Sé e della Sua passione per la scrittura nelle sue svariate forme, inclusa, naturalmente, la traduzione? La mia insegnante di lettere, la glottologa Carla Schick, autrice di Il linguaggio. Natura, struttura, storicità del fatto linguistico, Einaudi 1960, mi ha trasmesso la passione per la lingua, nei suoi aspetti di libertà individuale e di norma fissata dalla tradizione, e l’attenzione alla sua storicità. Per carattere sono vittima di una contraddizione insanabile: il desiderio di approfondire la conoscenza di un’unica materia (la lingua italiana) e una irriducibile curiosità per molte (lingua inglese, archeologia, arte islamica, lingua araba). Ho rinunciato all’insegnamento. Essendo pacifista non volevo far violenza a chi trovava lo studio una perdita di tempo, mentre io ancora oggi lo considero il più grande dei privilegi. Ho pensato allora che fosse per me più gratificante tornare a studiare e mi sono specializzata in archeologia a metà degli anni ’80. Il jinn della curiosità mi ha ripreso all’inizio degli anni ’90. Mi sono perciò diplomata in lingua araba e cultura islamica all’ISMEO di Milano. Ho così scoperto che ciò che noi chiamiamo predicato nominale in arabo viene definito complemento di stato e va in accusativo! Ho scoperto che la costruzione paratattica non presuppone una semplificazione del pensiero, ma conferisce ordine e ritmo. Ho scoperto che la ripetizione non solo non è considerata un elemento fastidioso, ma un tratto stilistico elegante. Come sempre l’altro ci mette di fronte ai nostri limiti. L’ultima svolta nella mia attività lavorativa è avvenuta una decina d’anni fa quando ho avuto la fortuna di un incontro casuale quanto determinante con una redattrice della casa editrice Piemme che mi ha offerto di tradurre narrativa inglese o americana. Un caso che mi ha riportato felicemente alle origini. Come ci racconta Woody Allen in Whatever Works la vita è insensata, ma il caso può essere fortunato. Così è stato per me. La Vaj ci rivela innanzitutto l’impostazione generale alla base del suo studio delle lingue, il quale è in perfetta armonia con un approccio ecologico allo studio della lingua in quanto presuppone la vitale interdipendenza tra lingua, identità personale e socio-culturale, e storia. Apprendiamo inoltre due aspetti importanti dell’habitus della Vaj: il multilinguismo e la passione per l’archeologia. E’ evidente come gli insegnamenti della Schick abbiano ispirato il modo di apprendere l’arabo, che, come osserva la Vaj ne “Il traduttore come controfigura”, è una lingua che non si impara ma si studia. Le sue riflessioni sul legame inscindibile tra forma e significato e tra sintassi e pensiero ci dimostrano come lei abbia pienamente sviluppato la capacità di “guardare la lingua”, come direbbe la Kramsch (2009: 201). Nello stesso tempo questa consapevolezza le ha fatto riconsiderare la lingua madre alla luce della lingua straniera. Come afferma la Kramsch (2009: 5) “l’esperienza di ciò che è a noi estraneo implica sempre una riconsiderazione di quello che ci è familiare”. Infine, si apprende che la traduzione dei romanzi di Hosseini segna il suo debutto nel mondo professionale della traduzione letteraria.
    La seconda domanda mirava a raccogliere dati generali sull’impostazione data al progetto traduttivo.
  2. Com’è nato il progetto di tradurre i primi due romanzi di Khaled Hosseini, The Kite Runner e A Thousand Splendid Suns?
    Non credo ci sia stato un progetto, almeno non mio. Forse la traduzione del primo romanzo di Khaled Hosseini mi è stata affidata in nome della mia conoscenza della cultura islamica. Ma non ci giurerei. Nel 2002 nessuno conosceva Hosseini in Italia, ma quando mi è stato affidato il manoscritto ho avuto l’immediata sensazione di trovarmi di fronte a un grande narratore, se non a un grande scrittore. Era il puro piacere della lettura. L’incanto della favola. Nella traduzione questo volevo conservare. E questo è stato da subito riconosciuto dai lettori.

    La Vaj ci rivela come, attraverso la lettura del manoscritto, lei abbia individuato un aspetto della sovracodificazione del testo originale (Tymoczko 2007), ovvero il registro dell’oralità, che caratterizza la narrativa di Hosseini e costituisce un ampio elemento culturale del paese natale lì dove infatti “sopravvive una civiltà del racconto” (Vaj 2009b: 4). Tale oralità è stata poi preservata nel testo di arrivo, una vera sfida, questa, come si legge ne il “Traduttore come controfigura”:
    “Forse la vera difficoltà della traduzione dei romanzi di Hosseini è stato trovare un
    registro che rispettasse la qualità ‘orale’ della sua scrittura in una lingua dalla tradizione squisitamente letteraria come l’italiano”. (Vaj 2009b: 5).

    La terza domanda era finalizzata ad approfondire il concetto di traduzione che sottende la resa del romanzo The Kite Runner.

  3.  Nel libro Il cacciatore di storie Lei ci rivela, con una metafora, il concetto di traduzione che ispira i suoi lavori: “[s]appiamo che nel traghettare un testo da una lingua e da una cultura a un’altra qualcosa va spesso smarrito sul fondo della barca: nell’usare due verbi italiani per tradurre un unico verbo inglese si distrugge un leit motif chiaramente importante per lo scrittore, ma capita che talvolta qualcosa venga anche acquisito: il titolo Il cacciatore di aquiloni sembra più evocativo del termine tecnico The Kite Runner. Forse. In ogni caso la traduzione insegna sia a tollerare la propria inadeguatezza sia a provare gioia per una
    soluzione felice” (Vaj 2009a:37). Quali altre soluzioni felici ricorda nelle Sue traduzioni?
    E quali altre gioie Le ha donato il tradurre i romanzi di Hosseini?
    E’ stato detto che il traduttore è una persona solitaria, eccentrica al limite del
    disadattamento. Mi riconosco in questa descrizione, forse indulgendo a un mito. Nella traduzione confluiscono una personalità, una cultura, uno stile di vita. Non saprei di soluzioni felici, anche se riconosco di essere compiaciuta del titolo Il cacciatore di aquiloni.
    Potrei ricordare soluzioni affettive. Mi è capitato di non resistere alla debolezza di inserire un richiamo letterario per me significativo, ma talmente fragile da passare forse inosservato.
    Ne Il cacciatore di aquiloni, un russo ubriaco sbraita un antico canto di nozze afghano:
    Ahesta boro, Mah-e-man, ahesta boro.
    Hosseini traduce:
    Go slowly, my lovely moon, go slowly.
    Ero perfettamente cosciente di prendermi una libertà traducendo: Cammina lenta, mia graziosa luna, cammina lenta, ma non potevo parlare dell’errare della luna senza chiedere in prestito la voce di Leopardi. La gioia più grande è stata parlare di cose che conoscevo, che risuonavano dentro di me, che partecipavano di una cultura amata, facendomi sentire vicina all’Autore: dai poeti classici persiani ai supremi artisti della Herat del XV secolo.

Oltre al concetto di traduzione intesa come trasmissione, che emerge dalle auto-riflessioni contenute ne Il cacciatore di storie, la Vaj ci rivela come la traduzione esprima quella che Theo Hermans (1996) definisce “la voce del traduttore nella narrativa tradotta”. Personalità, cultura e stile di vita sono anche aspetti importanti dell’habitus del traduttore e della sua soggettività, la  quale viene alla luce attraverso quelle che la Vaj, usando il linguaggio espressivo delle emozioni, chiama “soluzioni felici” e “soluzioni affettive”. Entrambe svelano l’intimo legame fra scrittura creativa e traduzione, un legame che si può comprendere partendo proprio dal riconoscimento della “presenza ed influenza della soggettività del traduttore” (Loffredo, Perteghella 2006: 8).

Un esempio di soluzione felice è la resa del titolo del romanzo, che viene considerata più evocativa del termine tecnico kite runner, in quanto rimanda in maniera sottile alle origini stesse della narrazione che sembrerebbe risiedere nei “racconti che i cacciatori preistorici si scambiavano sulla sequenza delle tracce lasciate dagli animali” (Vaj 2009a: 11). Un esempio di soluzione affettiva è la trasposizione di O graziosa luna, l’apertura di una delle prime poesie di Giacomo Leopardi, Alla Luna (l8l9), dove graziosa significa sia “bella e leggiadra”, sia “benigna”. Questo delicato esempio di intertestualità può essere considerato il frutto di un ripensamento di un contesto esotico, l’antico canto afghano, attraverso un contesto familiare, la poesia del giovane poeta di Recanati, il più amato dei poeti italiani, nella cui produzione letteraria spesso ricorre il tema del ricordo intriso di
nostalgia. Ciò rivela un aspetto della competenza simbolica raggiunto grazie ad un approccio traduttivo sensibile alle differenze culturali, ovvero il saper considerare in modi diversi le realtà a noi familiari, creando realtà nuove (Kramsch 2009: 201). Infine, la gioia che la traduttrice sentiva nell’esprimere sé stessa mentre prestava la sua voce all’autore ci ricorda in modo vivido ed emozionante che la lingua è “una realtà vissuta e personificata” (Kramsch 2009: 4). Penso che la gioia di cui la Vaj ci parla con candore e spontaneità sia associata ad un aspetto della sua competenza simbolica: la scoperta di un’identità che si colloca in uno spazio translinguistico e transculturale (Kramsch 2009: 201).
La quarta domanda intendeva approfondire il concetto di traduzione, questa volta attraverso una valutazione di eventuali soluzioni meno felici.
4. Quali sono le occasioni in cui il tradurre Hosseini Le ha insegnato a tollerare la propria inadeguatezza?Un equivalente linguistico lontano dall’equivalente culturale pone sempre problemi di inadeguatezza. Penso a tea house. In Italia non abbiamo case del tè, abbiamo sale da tè in qualche bar o pasticceria eleganti, frequentati da persone altrettanto eleganti in un’atmosfera silenziosa e profumata di dolci. Una tea house afghana, soprattutto fuori dalle grandi città, è un locale buio, rumoroso, fumoso, per soli uomini, accovacciati su tappeti attorno a bassi tavoli su cui gli avventori posano il loro kalashnikov: si gioca a scacchi, a tavola reale, a dadi. Si discute, si grida, si litiga. A volte si spara. Testimone il samovar.
L’odore è quello di polvere mista a hashish. Come tradurre tea house? La mia scelta è stata una rinuncia a trovare un equivalente italiano e nello stesso tempo un omaggio al farsi di Hosseini, la lingua materna che l’Autore inserisce nel testo inglese quando sperimenta l’inadeguatezza dell’inglese. Usando la parola chaikhana (alla lettera ‘casa del tè’) ho voluto rinunciare all’addomesticamento, conservando un suono estraneo che rimanda a un luogo estraneo. Una sconfitta vittoriosa?
Questa lucida riflessione critica, nutrita da una immaginazione multilingue, che consiste anche nel saper “definire e misurare successi e fallimenti” (Kramsch 2009: 201), ci rivela un’attenta considerazione nei riguardi di un ampio elemento culturale che arricchisce la narrativa di Hosseini:
l’uso del farsi; un esempio di sovracodificazione carico di significati espressivi ed evocativi oltre a quelli denotativi, dei quali la Vaj è ben consapevole dimostrando così un altro aspetto della sua competenza simbolica: “comprendere il valore simbolico delle forme simboliche e le memorie culturali da esse evocate” (Kramsch 2009: 201). La resa basata sull’appropriazione del farsi nel testo di arrivo rappresenta dunque la sconfitta della traduzione come forma di trasmissione e la sua vittoria come forma di transculturalità.
La quinta e ultima domanda intendeva focalizzarsi su Il cacciatore di storie e indagare
in modo più preciso sull’ipotizzato arricchimento della competenza simbolica attraverso
l’approccio olistico alla traduzione culturale.
5. Come dice Lei stessa, il Suo libro nasce dal magico risveglio di nostalgie. Qual è il seme che ha dato vita a Il cacciatore di storie? Di che cosa si è nutrita quest’opera? E quali sono i frutti che darà?
Il seme è stato la curiosità mia e dei miei amici che hanno letto i romanzi di Khaled
Hosseini. Quando mi facevano domande sulla cultura afghana raccontavo loro le storie che si nascondevano dietro le allusioni di Hosseini come il duello di Rostam e Sorhab. Sono stati gli amici a spingermi a scrivere e quando ho iniziato tutto è risultato relativamente facile. In fondo per almeno sette o otto anni le mie letture si erano concentrate sulla cultura afghana.
La nostalgia di Hosseini per il suo paese perduto ha risvegliato in me la nostalgia per il
mondo della mia infanzia e adolescenza, ignorato quando non disprezzato dalla cultura
dominante di oggi, qui in Italia, ma fraternamente simile al mondo arcaico del remoto
Afghanistan. Rievocare quel passato è stato un modo per testimoniare il mio rifiuto di
questo presente dominato dal chiasso, dalla volgarità, dallo spudorato stravolgimento del significato delle parole. Un omaggio alla potenza degli affetti. Non so che frutti potrà mai dare il mio libro.
Se servirà a suscitare curiosità per una cultura ricchissima quanto ignota in Occidente e
com-passione, pietas, per il martoriato popolo afghano, a far sentire imprescindibile la
necessità della pace per un paese che da trent’anni vive in guerra giorno dopo giorno, forse non sarà stato del tutto inutile.
(IsabellaVaj, 15 febbraio 2010)

C’è da notare innanzitutto la considerazione da parte della Vaj di un altro ampio elemento culturale presente nel romanzo di Hosseini: le allusioni, che rientrano, in quanto figure retoriche, nella categoria dei ‘paradigmi culturali’ (Tymoczko 2007). Saper riconoscere le storie alle quali allude Hosseini fa parte dell’insieme di abilità che costituiscono la competenza simbolica, vale a dire quella di “comprendere il valore simbolico delle forme simboliche e le memorie culturali da esse evocate” (Kramsch 2009: 201). L’andare oltre il puro riconoscimento e apprezzamento di queste storie a fini traduttivi, spiegandole con accuratezza e profondità in un libro a sé stante, che l’autrice definisce un companion book, esprime, a mio avviso, una accresciuta competenza simbolica, che si è nutrita di una immaginazione multilingue, accesa a sua volta da un approccio olistico alla traduzione culturale. Si ricorderà infatti che un’immaginazione multilingue comprende “la capacità di immaginare diversi modi di ricordare un evento, di raccontare una storia, di partecipare ad una discussione, di identificarsi con gli altri, di immaginare il proprio futuro e quello degli altri, ed infine di definire e misurare successi e fallimenti” (Kramsch 2009: 201). Non c’è dubbio che la traduttrice si sia pienamente identificata con l’autore attraverso le sue opere letterarie, (ri)scoprendo nel contempo la propria identità, la propria voce con la quale ha saputo affermare ed esprimere con delicatezza e convinzione ideali e speranze, volgendo lo sguardo al passato, al presente e al futuro. Il cacciatore di storie ci dimostra ancora una volta che la letteratura, quella consapevole, responsabile e ispirata da un’immaginazione multilingue è azione, impegno umano e asserzione culturale.

Una breve conclusione

Quali sono i frutti che l’intervista con Isabella Vaj ci ha dato?

  • Ha confermato l’ipotizzata interrelazione fra il raggiungimento della competenza simbolica e l’approccio olistico alla traduzione delle differenze culturali;
  • Ha approfondito le nostre conoscenze riguardanti l’habitus dell’autore e quello della traduttrice;
  • Insieme ad altri dati, l’intervista ci ha mostrato come l’habitus può foggiare ed essere foggiato da attività che coinvolgono la nostra identità personale e sociale, come l’apprendimento di una lingua straniera, la traduzione e la scrittura.

E allora quali insegnamenti possiamo trarre da questa esperienza di vita vissuta nel mondo della letteratura? Io penso che sulla base di quanto abbiamo appreso nel corso di questo studio si possa, a buona ragione, auspicare e dar vita ad una pedagogia ecologica nella quale il raggiungimento della competenza simbolica faciliti lo sviluppo dell’approccio olistico alla traduzione culturale e la traduzione olistica culturale arricchisca ed esalti la competenza simbolica.

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