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Autoriprese

Dopo il Seminario internazionale per insegnanti di lingua che si è svolto a Roma dal 3 al 5 maggio 1996 ho avuto la sensazione che, in quanto insegnante, avrei dovuto essere più attenta a ciò che capitava a me durante le lezioni. La relazione di B. Granieri “Sentimenti e vissuti nelle nuove esperienze” mi ha spinto a curiosare sui miei meccanismi relazionali in classe. Per fare ciò dovevo mettermi in una situazione che mi permettesse di osservare il mio comportamento con gli studenti in classe, il mio atteggiamento fisico, vedere fino a che punto non mi facevo condizionare da loro. Come reagivo di fronte alla frustrazione degli studenti, cioè fino a che punto accetto che un mio studente si possa sentire in difficoltà senza sentirmi io stessa in colpa.

Così ho deciso con molta apprensione di collocare una telecamera nella classe puntata su di me e di videoregistrare la lezione. L’ottica che mi ero prefissata era di essere il più obiettiva possibile: dovevo guardare la registrazione con un occhio critico come se fossi un’altra persona. Certo è che non ero così ingenua da pensare che fosse facile o ovvio fare una cosa del genere. Ma quello che mi è parso nuovo è stato lo spirito con il quale ho cominciato a lavorare. Fino ad allora non avevo mai avuto né la curiosità di osservarmi né il coraggio di accettare il “risultato” della registrazione.

Il giorno della prima ripresa avevo programmato una lezione con varie attività. Ho svolto la lezione con la telecamera posizionata dietro agli studenti, puntata su di me. Qualche giorno dopo ho visto il video e mi sono resa conto che non avevo seguito lo schema della lezione che avevo preparato. Avevo cominciato la lezione con una Produzione libera orale (PLO) “forzata”, cioè che non era stata programmata da me. Stavamo per cominciare la lezione che mi ero programmata quando una studentessa è arrivata con qualche minuto di ritardo e siccome le era successo qualcosa di molto sgradevole nel tragitto da casa a scuola, ha iniziato spontaneamente a raccontarlo, in francese, esprimendo tutta la sua rabbia in merito. Gli altri studenti hanno partecipato ponendole qualche domanda, e anch’io mi sono sentita sollecitata per cui ho partecipato in prima persona a questa PLO. Ho calcolato i tempi: ho parlato quasi il 50% del tempo della PLO che è durata 20 minuti, le proporzioni mi sono sembrate spropositate. E questo già mi è sembrato negativo, ma mi sono anche chiesta se era stato positivo lasciarmi condizionare dalle avventure della ritardataria.

Due interrogativi

Avevo 2 interrogativi ai quali dovevo dare una risposta.

Primo mi sono posta la domanda sul condizionamento. Ho fatto bene a lasciarmi condizionare? Io credo che facciamo sempre di tutto per stimolare gli studenti a parlare il più spontaneamente possibile, dunque quando una situazione del genere si presenta spontaneamente è meglio sfruttarla. Allora secondo me ho fatto bene a cogliere questa esigenza, e penso che questo condizionamento sia stato opportuno.

Per quanto riguarda i tempi, la mia partecipazione è decisamente esagerata, 10 minuti su 20! Il fatto è che mi sentivo anche sollecitata da loro: mi sembrava che la ritardataria voleva soprattutto raccontare a me, insegnante, quello che le era successo, e le altre aspettavano che io dessi la parola a ognuna di loro. Si era creato un rapporto di tipo centralizzato. Come rimediare a questo? Questo è il vero problema. Lasciarmi condizionare sì nel contenuto ma non nella gestione dell’attività. Questa la dovevo gestire con la stessa cura di sempre. Rispettando la disciplina nei tempi e nello stimolare la loro capacità di negoziazione che in quel caso avevano delegato a me, e che invece dovevano gestire loro. Dunque qui avevo sbagliato completamente.

Per quanto riguarda questo genere di situazioni, che oltretutto si verifica molto spesso, devo trovare una soluzione. Nella soluzione io, insegnante, devo sparire per permettere agli studenti di parlare fra di loro e dargli lo spazio per fare gestire a loro il problema della negoziazione. Rimane la constatazione che la mia partecipazione a questo genere di PLO è dovuta anche al fatto che a loro piace raccontarmi quello che gli succede: per loro dunque è importante che io sia informata. Ho pensato che la volta successiva avrei impostato una PLO con i criteri seguenti:

  • Dire agli studenti di ricordare quello che hanno pensato mentre venivano a scuola;
  • Lasciargli un po’ di tempo per ricordare;
  • Formare gruppi di due, massimo di tre;
  • Dire agli studenti che si devono raccontare tutto perché poi l’altro mi dovrà riferire.

La volta seguente ho messo la telecamera dietro gli studenti. Ho seguito lo schema precedente e poi sono uscita dalla classe dicendo loro che sarei ritornata dopo 10 minuti. Dopo 10 minuti sono entrata in classe e mi hanno chiesto ancora 5 minuti di tempo. E poi ancora 5 minuti. Dopo 20 minuti dall’inizio dell’attività sono definitivamente rientrata in classe. Mi sono fatta raccontare quello che si erano già detti.

Quello che mi ha colpito era che si era creata fra di loro una complicità dalla quale ero esclusa per cui non era più tanto importante che io sapessi o no quello che si erano raccontati. Era caduta l’esigenza di informarmi. Mi raccontavano i fatti degli altri rispettando il più possibile il racconto originale, interagendo fra di loro. Di conseguenza non ho parlato quasi per niente: una raccontava e l’altra la interrompeva per precisare, insomma si era creata un’interazione paritaria fra loro. Io ero diventata una spettatrice di tutto ciò.

Riguardando più volte il secondo video mi si sono confermate queste mie conclusioni. Ho visto che nei gruppi si erano verificati dei rapporti fra pari, con delle interruzioni da parte di chi voleva intervenire, invece c’era chi difendeva la propria narrazione.

Questo è successo con una classe di avanzati.

Nello stesso periodo, però, avevo registrato una lezione con dei principianti. Avevano fatto una quarantina di ore di lezioni. Anche in questo caso ho messo la telecamera dietro gli studenti. Quando mi sono vista alle prese con questa classe ho notato che ero più distaccata, più decisa di quanto non ero con gli studenti avanzati. In me c’era una maggiore capacità di gestire la lezione fino in fondo: ho rispettato il programma prestabilito.

Tuttavia, per quanto riguarda la lingua usata da loro, avevo più difficoltà nel far parlare sempre in L2 (che nel caso del mio insegnamento è il francese). Alcuni studenti punteggiavano il loro francese con un numero non esiguo di incisi in italiano. Dovevo ripetutamente ricordare che si doveva parlare in francese.

Qui trovare quale modifica da effettuare era più semplice. Dovevo fare in seguito delle attività per fissare meglio alcune frase del tipo:

“Comment ça se dit …” e “Comment ça se prononce …” ecc.

Così ho fatto. La seconda registrazione qualche tempo dopo mi ha permesso di constatare che si era creato un dialogo di livello migliore in L2 fra loro e me. Anche fra di loro si esprimevano in L2 più sistematicamente. Si facevano domande e si rispondevano in L2, scherzavano anche fra di loro in L2.

Queste osservazioni mi fanno riflettere sulla relazione fra la qualità dell’apprendimento da parte degli studenti e il mio comportamento. Nel caso di una classe di avanzati ho notato che dovevo trovare il modo di togliermi dall’interazione per aumentare il tempo per parlare. Ho imparato ad allontanarmi fisicamente da loro. Per quanto riguarda la classe di principianti la loro capacità nel usare L2 era troppo debole. Ho imparato a pretendere da loro l’utilizzo di certe frasi che gli permettevano di aumentare di molto l’uso di L2.