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Uno studente particolare

Mi ricordo di lui all’inizio del corso d’inglese. Aveva 21 anni. Chiamiamolo R. Non diceva una parola, aveva un’espressione sul viso permanentemente preoccupata, sembrava perso, un pesce fuor d’acqua. Gli altri in classe erano persone grandi e apparentemente sciolte, ceti medio-alti, sicuri di sé. Lui, invece, veniva da una borgata. Non era mai uscito dall’Italia, era uscito da Roma solo una volta nella vita, per andare a Napoli. Avrà per forza fatto almeno 6 anni di inglese a scuola, ma una scuola troppo affollata, troppo competitiva, troppo orientata ai voti, ai risultati, per occuparsi di lui come persona. Una scuola che l’ha bocciato. In più di un senso.

Durante le prime lezioni dei miei corsi di inglese, spiego agli studenti che ogni volta che non mi capiscono devono fermarmi e affrontare il problema. In inglese. Viene spiegato che con pochissimi strumenti lo possono fare. In trent’anni di esperienza, purtroppo, non ho mai avuto uno studente che aveva frequentato un corso di lingua dove una tale norma venisse applicata. Di solito gli studenti credono sia impossibile. Facciamo degli appositi esercizi in cui dimostro come possono fermare un parlante inglese in pieno discorso, con grande efficacia, con un semplice “Sorry?” (in italiano “Come, scusa?”). Dimostro che molto spesso con questa tattica ottengono anche una ripetizione e che comunque se così non fosse basta aggiungere “What did you say?” (“Non ho capito.”) per ottenerla. Faccio capire che con me possono ripetere queste formule tante volte quante sono necessarie per sentire bene la parola che non capiscono. A questo punto dimostro che è sufficiente chiedermi “What does …….. mean?” (“Che significa …….?”) e darò la traduzione della parola in italiano. Oppure, se lo ritengono opportuno, possono chiederne l’ortografia dicendo “How do you spell it?” (“Come si scrive?”). Tattica, questa, utile quando intuiscono che potrebbero riconoscere la parola senza una traduzione (moltissime parole inglesi diventano riconoscibili con questa tattica, p. es. culture, bottle, standard, football, corner, aren’t, police, ecc.). In più viene spiegato che quando devono dire qualcosa possono chiedere “What’s the English for …….?” (“Come si dice …..?”) e “How do you pronounce this word?” (“Come si pronuncia questa parola?”). Scrivono tutte queste formule sull’ultima pagina del quaderno e viene detto loro che le devono utilizzare moltissime volte. Comunque sia le trovano esposte su cartelloni in tutte le aule della scuola.

Ebbene, i compagni di classe di R., sicuri di sé e abituati ad insegnanti cui si poteva delegare la responsabilità del loro non capire, continuavano ad evitare lo sforzo richiesto, utilizzando la italianissima “Non ho capito”, confezionata con una ricca gamma di commenti come “Quanto parli veloce!”. R., l’ultimo della classe, invece, accettava la regola del gioco. Con lui potevo fare una qualsiasi domanda. Apriva immediatamente il quaderno all’ultima pagina, cercava la formula appropriata (all’inizio spesso ne sceglieva una sbagliata! ma non importava), mi faceva ripetere tante volte e mi faceva tradurre le parole che non capiva fino a quando non era in grado di rispondere. All’inizio ci volevano parecchi minuti, durante i quali gli altri si spazientivano, ma dimostravo risolutamente che non avevo nessuna intenzione di interrompere lo scambio con lui fino a quando R non sarebbe riuscito a rispondermi. Era importante per me far capire a tutti che questo procedimento aveva precedenza su qualsiasi altra esigenza.

Mi ricordo di lui quando, dopo una ventina di ore di lezioni, dopo aver ascoltato al registratore un paio di volte una conversazione “semi autentica” (simulata, ma senza copione) di un paio di minuti, avevo sistemato gli studenti in coppie faccia a faccia, e avevo dato la consegna di raccontarsi qualsiasi cosa che avessero capito. A differenza delle lezioni precedenti, questa volta lo dovevano fare in inglese. Gli altri studenti, con la loro sicurezza nella capacità di distinguere fra ciò che è possibile e ciò che è impossibile, usavano la loro sofisticata ironia – normalmente efficacissima – per cercare de dissuadermi dal voler insistere con una pretesa del genere. Lui invece, fiducioso che io non avrei ceduto davanti a tali pressioni, si sforzava di raccogliere le idee per espletare la consegna. Dopo ben 60 secondi ha detto al compagno “Man want go to station” (“Uomo vuole andare stazione”). L’avrei baciato. Scommetterei qualsiasi cosa che se avessi potuto guardare nelle teste degli altri studenti avrei trovato una quantità di inglese molto maggiore di quanto ce n’era nella sua testa. Eppure è stato lui che è servito da modello per gli altri. 60 secondi più tardi ha detto “Woman has car” (“Donna ha machina”). Si è poi girato verso di me e ha detto “Finish”. E io ho fatto ripartire la registrazione. Al termine ho detto “Continue” (“Continuate”) e questa volta le diverse coppie si sono dette delle cose.

Ora R ha finito il corso per principianti e ha trovato il coraggio di andare a Londra e starci per due settimane per seguire un corso intensivo. È ancora principiante ma saprà come cavarsela. Sono fiero di lui.

Sbagliamo quando diciamo “bravo” di uno studente che sa molto. La bravura di uno studente non va ricercato in quanto sa, bensì nella sua capacità di cogliere e di sfruttare al meglio occasioni per accrescere quanto sa. E l’insegnamento più valido è quello che lo incoraggia a sviluppare tale capacità.

Con R è stato facile. Fin dal suo arrivo in classe era disposto a collaborare, a stare alle regole. Con la maggior parte degli studenti non è facile. Arrivano in classe convinti che l’insegnante deve “insegnare” loro parole e regole grammaticali, deve correggere la pronuncia ed i loro sbagli. Rivendicano ciò che conoscono: una modalità didattica “di trasmissione”. C’è chi sostiene, in questa epoca in cui il marketing ha invaso ogni settore della società, che allo studente (considerato “cliente”) bisogna dare ciò che richiede, niente di meno e niente di più. Se vuole un insegnamento trasmissivo, bisogna soddisfarlo, se vuole essere considerato un semplice ricevitore di informazioni trasmesse dall’insegnante, un “memorizzatore” di parole e di regole grammaticali, bisogna trattarlo così. Contento lui, contenti noi. La logica dell’auditel.

Che spreco di intelligenza, però! L’intelligenza dell’insegnante quanto quella dello studente. Torniamo alla classe di R. Parliamo di un altro caso: una studentessa che chiameremo Y. Nata in Eritrea, vive in Italia da molto tempo. È bilingue. Si veste sempre molto elegante, è bella, simpatica, gentilissima ed è sempre a suo agio. Suo marito lavora alla Fao. Si capisce che lei è abituata a ricevere ospiti in casa. Appartiene ad un ambiente benestante, cosmopolite. L’inglese lo capisce. E si fa capire pure. È per la nostra scuola una “principiante falsa”: si esprime in qualche modo ma non ha nessun’idea della struttura delle frasi che enuncia. Lei in realtà non vedeva questo come problema. Frequentare un corso di inglese significava imparare un po’ di più di parole e un po’ di grammatica. Come per tutti. Potevo lasciarla con le sue illusioni e insegnare come si aspettava. È facile per noi insegnanti accettare di fare così, anche perché parte integrante di questo modo di concepire il rapporto insegnante-studente è il senso di colpa che lo studente ha quando non si ricorda ciò che è stato insegnato. L’insegnante scarica la responsabilità per il fallimento sullo studente. Bel paradosso! L’insegnante, accettando la richiesta dello studente, non richiede a questi di assumersi la responsabilità vera per l’apprendimento, e questi si assume la responsabilità del fallimento, la cui vera causa è il metodo adottato dall’insegnante!

Per fortuna moltissimi insegnanti non hanno nessuna intenzione di rinunciare ai valori umani e culturali che li hanno spinti ad intraprendere questo mestiere, anche se i potenti di oggi vogliono mercificare ogni tipo di sapere.

Ho imparato che mettere Y in coppia con R funzionava benissimo, anche a beneficio di Y. Tutto quello che Y diceva io lo capivo. R no. E questo era proprio ciò di cui lei aveva bisogno. Con l’uso ormai assillante delle formule di cui sopra, lui la costringeva a controllare meticolosamente sia la pronuncia che i dettagli di sintassi e di morfologia di ogni suo enunciato. Lei, all’inizio, era infastidita dalla lentezza delle loro comunicazioni e cercava di convincermi a liberarla, ma, con il tempo, ci ha preso gusto. Ormai si sente orgogliosa quando parla correttamente, trova un piacere nel curare i dettagli, trova interessante porsi quesiti sulla grammatica dei suoi enunciati.

Insomma, questi due studenti R e Y, che sono realmente esistiti rappresentano i due archetipi: R l’apprendente “seriale” che procede un passo per volta e non si butta mai, e Y l’apprendente “olistica” che corre avanti, saltando nel buio senza preoccupazioni e senza curare i dettagli. Li troviamo in tutte le nostre classi, normalmente in forme più attenuate. La soddisfazione che può avere un insegnante che si rispetti non risiede nell’avergli dato ciò che spontaneamente cercavano, bensì aver aperto l’orizzonte all’uno con la consapevolezza che può osare e all’altra con la consapevolezza che è bello curare anche i dettagli.