Lettura analitica autogestita
Il corso è all’inizio del quarto livello. Gli studenti hanno alle spalle circa 240 ore di lezione. Il libro di testo che usiamo in classe è Comunicare meglio. Alcuni giorni fa gli studenti hanno ascoltato la conversazione della lezione 16, quella cioè tra il medico ed il regista, ed hanno letto in classe un articolo tratto dalla rivista “Il Venerdì” de La Repubblica (riprodotto alla fine del presente articolo per permettere al lettore di seguire lo svolgimento dell’attività che sto per descrivere) sul cardiochirurgo Mario Viganò, autore del doppio trapianto di cuore a Pavia. La classe ha quindi già svolto l’attività di Lettura autentica chiedendomi alcune parole che non conoscevano e che reputavano importanti per meglio comprendere il contenuto dell’articolo stesso.
Oggi proverò con loro una nuova attività o meglio una variazione dell’attività di Lettura analitica. Generalmente è l’insegnante che sceglie il punto grammaticale da analizzare e gli studenti procedono nell’attività identificando le forme richieste e assemblandole secondo le istruzioni fornite dallo stesso insegnante.
La classe è composta da sette persone (due tedeschi, un’australiana, due giapponesi, una svedese e un sudamericano). Distribuisco agli studenti un’altra fotocopia dello stesso articolo e li invito a rileggere una volta l’articolo per richiamarne alla memoria il contenuto. Hanno cinque minuti per arrivare alla fine del testo.
Allo scadere dei cinque minuti dico “Stop!”. A questo punto chiedo loro di numerare i capoversi (l’articolo si suddividerà in questo modo in quattro paragrafi) e di rileggere il paragrafo che li ha più interessati. Per svolgere questo compito hanno a disposizione un minuto circa. Quando tutti hanno finito di leggere, annuncio la nuova attività: “Bene, adesso dovete rileggere il paragrafo e sottolineare la struttura grammaticale che più vi incuriosisce o vi interessa. Qualcosa che non capite o non conoscete”. Gli studenti si mettono al lavoro e nel frattempo penso che gestire un’attività di questo tipo è abbastanza “rischioso” in quanto l’insegnante non sa che tipo di domanda gli verrà rivolta dallo studente. Potrebbe trattarsi di una struttura grammaticale particolarmente complessa, o di difficile interpretazione, o che esula dalle regole riportate dai libri di grammatica perché si riferisce ad un uso specifico legato al contesto in cui è collocata.
Quando vedo che hanno portato a termine il compito assegnatogli, mi sposto al centro della classe e chiamo uno dei due studenti tedeschi. La mia scelta non è casuale. Preferisco cominciare con uno studente che non ha grossi problemi di timidezza e che può servire da esempio per gli altri. Gli chiedo: “Michael, quale paragrafo hai scelto?”. ‘Il secondo”, risponde. Allora mi giro e scrivo alla lavagna (che si trova alle mie spalle) il suo nome con accanto il numero del paragrafo da lui scelto. Ciò permette agli altri studenti di focalizzare la loro attenzione sullo stesso e crea una sorta di aspettativa per quanto arriverà dopo.
“Bene – dico – quale struttura grammaticale ti interessa approfondire?”. “Perché “sale” e “rientra” è tutto presente in un passato?”. La domanda non è chiara anche perché io non ho in mano il testo quindi non posso neanche immaginare a che cosa si riferisce lo studente. Gli dico: “Scusa Michael, non ho capito la tua domanda. Puoi cercare di formularla più chiaramente?”. Ciò che Michael intende approfondire è l’uso del presente quando l’autore parla di alcuni fatti accaduti nel passato. Dopo due tentativi finalmente la domanda è chiara, non soltanto a me, ma anche agli altri studenti. Mi assicuro che tutti gli studenti abbiano identificato nel paragrafo le forme del presente a cui Michael allude (c’è anche un presente progressivo che però Michael ha ignorato) e gli rispondo che, generalmente, la scelta di usare il presente al posto del passato è determinata dalla necessità di rendere il racconto più immediato e, tutto sommato, più scorrevole (una tale scelta viene anche effettuata dai giornalisti proprio con lo scopo di dare all’azione o ai fatti il ritmo di una telecronaca).
Passo ad un altro studente. Ormai le regole del gioco sono chiare a tutti. La domanda della ragazza giapponese, Yumiko, non è propriamente una domanda ma la richiesta di una conferma. Il paragrafo da lei scelto è il numero tre. Come ho fatto con Michael, scrivo alla lavagna il suo nome seguito dal numero del paragrafo. Yumiko vuole sapere se, nelle due forme verbali “consentendogli” e “accingendosi”, il pronome si trova dopo il verbo perché il verbo è al gerundio. La mia risposta non può che essere affermativa e passo ad un altro studente. Mi rendo conto, però, di essere stata un po’ troppo precipitosa perché l’australiana, Claire, non ha afferrato né la domanda di Yumiko né la ragione della mia risposta. Claire mi sta guardando. Le chiedo: “C’è qualche problema?”. “Sì. Non ho capito”. “Che cosa? La domanda o la risposta?”. “Tutte e due”. “Va bene. Partiamo dalla domanda. Chiedi a Yumiko di ripetere la sua domanda”. A questo punto lascio che la richiesta di chiarimento e la spiegazione si svolga tra gli studenti. Sono convinta che si sapranno spiegare benissimo. Quando vedo Claire annuire e sorridere, capisco che l’ostacolo è stato superato. Posso passare ad un altro studente e ad un altro problema.
È la volta della ragazza tedesca, Karin. Scrivo alla lavagna il suo nome ed il numero del paragrafo da lei scelto: il quarto. “Si è cominciato?”, esordisce. “Che cosa?”, le rispondo. “Si è cominciato!”, si spazientisce. “Karin, se non formuli correttamente la domanda, io non ti rispondo. Come non ti risponderebbe nessun altro italiano perché non capirebbe che cosa vuoi dire con quel ‘si è cominciato'”. “Ok, Ok”, sorride “aber es ist schwerig”. “Lo so, ma provaci. Piano piano… “. La domanda viene riformulata, stavolta in maniera più comprensibile sia per me che per gli altri. Karin vuole capire perché c’è il verbo “essere” con il verbo “cominciare”. Le chiedo di leggere ad alta voce il periodo dove questa forma verbale è collocata. Si tratta – spiego – di una forma impersonale composta dal pronome “si” e dal passato prossimo del verbo cominciare. In questo caso l’ausiliare del verbo non è “avere” bensì “essere”. Karin ne è sorpresa ma accetta la risposta esclamando: “Oh, Gosch!”. È la volta dello studente sudamericano. Il paragrafo da lui scelto è ancora il numero 4. Vuole sapere che cos’è la parola “cui”. Prima che io abbia la possibilità di rispondergli, la ragazza tedesca gli spiega che è un pronome relativo e che si riferisce, in quel periodo, alla categoria dei rianimatori. Il sudamericano accetta la spiegazione ma l’altro studente giapponese, Atsushi, chiede perché non c’è una preposizione davanti alla parola “cui”. Gli spiego che, a volte, la preposizione “a” viene omessa.
La studentessa svedese alza la mano. “Dimmi Ulla”. “Paragrafo uno”. Scrivo il suo nome ed il numero del paragrafo sulla lavagna. Il suo problema è l’uso del verbo “fare” con un altro infinito (nel testo “far funzionare” e “far girare”). Aspetto che tutta la classe abbia trovato le due forme verbali e poi chiedo ad Ulla di leggermi il periodo. Le spiego che il verbo “fare” indica l’intervento di qualcuno o qualcosa senza il quale una determinata azione non si compierebbe. In questo caso “la macchina” a cui si allude nel testo non funzionerebbe e non girerebbe se il dottor Viganò non lo permettesse. “Ma perché non si scrive fare?”. “Perché in presenza di un altro infinito la ‘e’ cade”. A questo punto chiedo se ci sono altri problemi. Pare di no, ma aspetto lo stesso qualche secondo. Mi rendo conto che la studentessa australiana non mi ha rivolto nessuna domanda. La devo spingere a chiedermi qualcosa o la ignoro? La regola del gioco è che ogni studente scelga ciò che lo incuriosisce di più dal punto di vista grammaticale, ma se non lo fa è perché non ha nulla da chiedere o perché non vuole esporsi con una domanda che gli altri possono trovare sciocca? La chiamo: “Claire?”. Scuote la testa. Decido di non insistere. La ragazza tedesca approfitta della rinuncia di Claire per chiedermi se può fare una seconda domanda. Le rispondo che non ne avrebbe diritto ma che ho deciso di fare un’eccezione. Il paragrafo è quello della prima domanda, cioè il numero 4. Karin vuole sapere che cosa significa “neppure”. Le rispondo che si tratta di una congiunzione negativa e che è sinonimo di “neanche”. “E perché c’è l’infinito dopo?”. Le chiedo di leggere tutta la frase. “È un uomo che non si è mai risparmiato neppure nel farsi pubblicità”. Le spiego che sostituisce una proposizione temporale introdotta dall’avverbio di tempo “quando”. Infatti posso dire: “È un uomo che non si è mai risparmiato neppure (neanche) quando si fa pubblicità”.
Con questa risposta concludo l’attività.
L’idea di una Lettura analitica autogestita viene dalla convinzione, scaturita dalla mia esperienza con gli studenti sia in classe che fuori dalle ore di lezione, che ciò che interessa o incuriosisce uno studente non necessariamente interessa o incuriosisce un altro e quindi, se è l’insegnante a scegliere ciò che gli studenti devono analizzare, c’è la possibilità che uno studente debba “ingerire” qualcosa che non corrisponde, in quel momento, al suo fabbisogno linguistico.
Cercherò di spiegarmi con una metafora, forse un po’ banale, ma credo abbastanza comprensibile. Immaginiamo di essere stati invitati a cena e di trovare, disposti su una lunghissima tavola, differenti piatti con carni varie (manzo, tacchino, maiale), verdure miste di stagione e non, insalate verdi e di frutta, lasagne, cannelloni, ravioli, frutti esotici e nostrani, torte, pasticcini, insomma ogni ben di Dio. Il nostro sguardo avvolgerebbe tutta questa manna e la mano andrebbe felice verso ciò che ci colpisce di più sotto diversi punti di vista: il nostro gusto personale (io mi tufferei sulla pastasciutta), ciò che si presenta esteticamente più attraente, il piatto che emana un odore invitante e così via, mentre lasceremmo agli altri ciò che non ci piace e non ci attira (io, per esempio, sorvolerei del tutto il piatto dei formaggi). Alla fine della cena ci sentiremmo probabilmente un po’ troppo pesanti (anche perché in questi casi si esagera sempre un po’) ma felici per aver mangiato cibi così squisiti e così superbamente cucinati. Facciamo ora un altro esempio. Siamo stati invitati ad una cena dove le pietanze vengono servite a tavola ed il menù è stato, più o meno, stabilito dalla padrona di casa. Forse saremmo costretti, per non offendere la nostra ospite, a mangiare o a rifiutare gentilmente ciò che non incontra i nostri gusti, con il rischio di alzarci da tavola digiuni e di avere irrimediabilmente compromesso una nascente amicizia. Credo che chi mi legge abbia capito a cosa voglio alludere. Il compito di un insegnante, secondo me, è sempre più quello di un grande chef che prepara un’infinità di portate, cioè offre agli studenti una gamma infinita di informazioni linguistiche (lessicali, morfologiche, sintattiche, fonetiche, ecc.) come si trovano solo nella lingua autentica, e fa in modo che ognuno trovi ciò di cui ha bisogno per arricchire la sua interlingua. E che, quando lo studente vuole approfondire o è incuriosito da un particolare aspetto della lingua bersaglio, può chiedere all’insegnante/chef: “Scusa, ma che cosa c’è dentro?” o “Quali sono gli ingredienti di questo piatto così strano?”. L’insegnante/chef è li, pronto a rispondere, a chiarire, ma certamente non richiamerebbe l’attenzione di tutti gli invitati informandoli a voce alta che nelle lasagne è meglio usare la besciamella che la mozzarella.
Ciò che voglio dire è che il “programma” interno di ogni studente è unico e irripetibile (così come ognuno di noi lo è) e che ciò che può essere utile conoscere per uno studente non è automaticamente importante per un altro. Da qui la necessità di lasciare gli studenti il più possibile liberi, anche in alcune attività di analisi, di scegliere ciò che voglio approfondire.
Forse lo studente non ricorderà il nome dello chef/insegnante ma senz’altro ricorderà di non aver mai mangiato così bene in vita sua e, ciò che più conta, di aver potuto scegliere e assaporare il gusto dei piatti più amati.