Pensieri ed esperienze
Abbiamo ricevuto questa testimonianza in forma di lettera e abbiamo deciso di pubblicarla perché siamo convinti che interesserà moltissimo i nostri lettori. Il titolo parla di pensieri ma vengono raccontato anche emozioni, le emozioni fortissime che spesso ci dà il nostro lavoro. Rimaniamo in attesa di leggere le vostre reazioni, le vostre riflessioni in merito, le vostre testimonianze. Buona lettura
Ho letto gli ultimi due bollettini come si legge un thriller mozzafiato, e sentendomi molto solidale con i colleghi! Ho avuto esperienze e reazioni esattamente analoghe alle loro in molti casi. Il corso che ho frequentato alla DILIT nel 2006 ha portato una grande rivoluzione nel mio modo non solo di insegnare, ma anche di pensare e di vivere. La vostra forza sta proprio in questo: che si decida o meno di applicare il metodo, la mentalità ormai è cambiata per sempre. In questi anni non ho mai trovato un contesto come quello della DILIT in cui poter insegnare, purtroppo, e ho quindi scelto di affiancare l’attività di traduttrice a quella di insegnante, vista la precarietà di entrambi nella realtà milanese e non solo. La conseguenza è che mi sono trovata ad insegnare nelle realtà scolastiche più disparate, e in situazioni molto fertili o molto sterili. Di seguito ti elenco una serie di pensieri senza alcuna pretesa di validità universale con cui mi sono confrontata e mi confronto ogni giorno nella mia attività di insegnante.
Sono tutti tratti da esperienze che ho avuto negli ultimi tre anni, dopo il corso di formazione alla DILIT.
Il primo pensiero dopo aver letto gli articoli dei colleghi è andato ad un gruppo di studenti a cui ho insegnato tedesco prima che partissero per l’Erasmus. Non avevo a disposizione alcun libro da seguire che rispecchiasse la metodologia che avevo appena imparato alla DILIT. Ho così riadattato i testi che avevo e mi sono sbizzarrita a produrre e cercare materiale autentico di ogni genere per le produzioni scritte e orali, gli ascolti e le Ricostruzioni di conversazione. Gli studenti (tutti universitari di età compresa tra i 21 e i 24 anni) sono stati entusiasti del corso, lo hanno addirittura prolungato e hanno posticipato la partenza per l’Erasmus per proseguire il loro studio della lingua. È stato un grande successo e in classe si è creata un’atmosfera rilassata e davvero molto favorevole. Non c’è mai stato bisogno di dare loro delle spiegazioni riguardo a questo modo di imparare e di vedere l’insegnante, perché loro stessi sentivano tangibilmente i loro progressi e ogni giorno si innamoravano di più della lingua tedesca. Ogni anno mi mandano nuovi gruppi di amici che si preparano all’Erasmus, ma non con tutti ho lo stesso successo. Tutti hanno la stessa motivazione molto forte ma non tutti recepiscono le attività allo stesso modo. Molto spesso mi sono trovata a cercare di integrare un metodo tradizionale (per andare incontro agli studenti) ad un metodo DILIT (l’unico in cui credo davvero, ci tengo a sottolinearlo). Il risultato è un ibrido, in cui si vaga a braccio e si passa da spiegazioni grammaticali frontali a Ricostruzioni di conversazione. Le prime sono accolte con l’entusiasmo tipico di chi ha sempre conosciuto solo quel metodo, e con rassegnazione e fretta tira fuori carta e penna e cerca di scrivere il più possibile e di cercare regole e punti fissi in strutture linguistiche che di rado ne hanno, per loro stessa natura. Le seconde sono accolte con disorientamento ma comunque seguite per rispetto all’insegnante più che per entusiasmo o voglia di partecipare all’attività.
Con il primo gruppo invece le Ricostruzioni di conversazione e le tecniche di rilassamento prima delle Produzioni libere scritte e orali e degli Ascolti autentici erano attese con impazienza, e quando la Ricostruzione di conversazione incominciava con il mio mimo della “ragion d’essere” della conversazione da ricostruire, gli occhi erano attenti e la mente attiva e sveglia. Addirittura gli studenti, tutti di madrelingua italiana e per altro amici tra loro, non si parlavano in italiano ma solo in tedesco e non interagivano tra loro creando confusione come avveniva durante altre attività. Hanno raggiunto un ottimo livello e molti di loro mi hanno in seguito scritto di non riuscire più a frequentare alcun corso di lingua di stampo “tradizionale”, come quelli che le università tedesche hanno offerto loro gratuitamente durante il loro soggiorno Erasmus. Sono riuscita a proporre conversazioni sempre più difficili sin dalle prime lezioni a studenti che non avevano alcuna conoscenza della lingua, e ho potuto sperimentare con grande successo ogni attività praticata alla DILIT, soprattutto la Ricostruzione di conversazione. L’aula era uno scoppiettare di ipotesi, suoni, gesti, sforzi, e l’energia si toccava con mano.
Ma non sempre è andata così…….
Il mio secondo pensiero è andato ad un corso semi-individuale di italiano. Gli studenti erano due insegnanti di circa 30 anni, un uomo e una donna. Il primo di Londra, la seconda di Dublino, che si conoscevano appena. Il fatto che all’epoca fossero più grandi di me e in più insegnanti con più anni di esperienza alle spalle e una formazione totalmente diversa, non giocava certo a mio favore. Già dalla prima lezione, hanno tentato di imporre una loro scelta di libro e di metodo, che sono gradualmente ma con successo riuscita a rifiutare col garbo che potevo metterci. I due baldi giovani parlavano tra loro solo in inglese, e non c’era verso di farli parlare in italiano, finché un giorno ho chiesto loro:
-“Quando voi insegnate inglese permettete ai vostri studenti di parlare italiano tra loro?”
La loro risposta è stata
-“Non lo permettiamo solo ai livelli avanzati, quando insegniamo conversazione, ai livelli elementari sì.”
A quel punto ho capito che avevo sbagliato a porre loro una domanda del genere, poiché in quel momento loro per me erano studenti e non colleghi, con un background e delle esperienze formative e lavorative differenti dalle mie. Inoltre erano soliti parlare sempre in inglese con i colleghi italiani e con la segreteria delle scuole per cui lavoravano come freelance, e per loro era naturale imporre la loro lingua. Quindi in quel momento io ho affiancato la mia esperienza alla loro come se in quell’aula tutti e tre fossimo insegnanti, quando invece non lo eravamo, non in quell’ambito. È stato lì che ho forse perso il mio ruolo. Durante le lezioni cercavo di seguire il libro e cimentarmi nell’orrido ibrido trasmissione-integrazione di cui ti scrivevo sopra. Loro mi seguivano sempre meno. L’atmosfera in classe era tesa e io ero sempre più nervosa, sia prima che durante la lezione. Non avevo colleghi con cui confrontarmi e all’amministrazione della scuola importava solo che loro pagassero e io non creassi problemi. Nonostante tutto, io continuavo a fare il mio lavoro, gli studenti continuavano a venire a lezione due volte a settimana per un totale di tre ore a settimana, ma non vedevo alcun progresso.
Ad un certo punto, ho deciso di entrare in classe un giorno e di rischiare. Ho proposto una Ricostruzione di conversazione. La più difficile da svolgere in un contesto di totale sfiducia e diffidenza. E lì succede qualcosa di strano. Paula, la studentessa irlandese, prima arrossisce, poi si fa coinvolgere nell’attività ed è sempre la prima a fornire la prima ipotesi. Oz, lo studente inglese, ripete di malavoglia e con strafottenza, con sguardo di presa in giro nei miei confronti. Paula non si fa influenzare, segue con entusiasmo e in qualche modo, in questo campo minato e sputando bile, arriviamo alla fine dell’attività.
A fine lezione Oz se ne va, Paula mi aspetta mentre raccolgo le mie cose e mi dice, in italiano questa volta, “Non capisco perché lui sia così duro con te”. In questo modo, e con questa elegante struttura linguistica, mi fa capire che si fida, che il corso le dà frutti, e che “è dalla mia parte”. Cosa molto pericolosa, perché io non devo cercare proseliti ma fare il mio lavoro. A quel punto sono combattuta: Devo continuare a imporre il mio metodo o venire incontro ad entrambi creando l ”orrido ibrido”? O soddisfare Oz a discapito di Paula? Faccia di palta, calma e gesso, ricordando le parole di Claudio durante il corso di formazione, continuo per la mia strada. Utilizzo un libro di letteratura che propone esercizi di grammatica deduttiva.
Oz non mi segue, in classe siamo in tre e non c’è possibilità di sorvolare sui suoi sguardi scontenti, per definirli con diplomazia. Ad un certo punto mi dice “ I don’t understand what the point is”.
Io rispondo, definitivamente sulla difensiva. “Ci sto arrivando”. E continuo per la mia strada fino alla fine dell’attività. Paula mi segue, ma ormai ha il ruolo di un terzo studente-insegnante coinvolto in una tacita lotta tra me e Oz. Nessuno di noi due molla. Il risultato è che Oz non viene più a lezione adducendo scuse di ogni genere, e io continuo il mio corso solo con Paula sentendo di aver fallito con Oz e come insegnante. Le lezioni filano lisce come l’olio, ma io mi sento frustrata e non sollevata dalla sua assenza. Porto avanti le mie attività cercando di equilibrarle e Paula fa i suoi progressi, anche se parla italiano solo con me in quelle tre ore a settimana. Alla fine di ogni lezione dice che è contenta che Oz non ci sia. Io non so come reagire. Il corso termina così. Finale aperto, per così dire.
Il terzo pensiero va ad una lezione individuale di tedesco che ho tenuto presso una grossa azienda di Milano. Lo studente, ingegnere con ottima posizione di 30 anni, sin dalla prima lezione si lamenta degli orari e dell’intensità del corso. È un corso finanziato dal fondo sociale europeo, che prevede che in 4 mesi circa lui frequenti 80 ore di lezione. La scuola, a mia insaputa, gli ha imposto giorni e orari chiedendo quale fosse la mia disponibilità ma non la sua, e questo è il risultato. Io non sono disponibile negli orari comodi per lui, lui non è disponibile nei miei che ormai però sono stati fissati. Le premesse non sono le migliori. La lezione si svolge nel suo ufficio, per cui lui riceve in continuazione chiamate ed e-mail, e non riesce a concentrarsi. Spesso il suo capo lo chiama per riunioni dell’ultimo minuto e io resto ad aspettarlo invano per due ore. Quando lui c’è, non mi fa spazio, sia in senso fisico che metaforico. Non mi lascia spazio sulla scrivania, in ufficio non c’è lavagna e io devo arrangiarmi come posso. Le lezioni vanno avanti per circa due mesi. Propongo Ricostruzioni di conversazione, Produzioni libere scritte e orali, Ascolti autentici, Puzzle linguistici (usando un foglio e non una lavagna), Ascolti analitici morfosintattici. Lui però cerca sempre di trasformare queste attività in qualcos’altro. Per esempio, con il Puzzle linguistico, sta zitto e prende l’aria di un cane bastonato, così che alla fine lavoro io e non lui. Diminuisco le attività, gli vado incontro creando l’orrido ibrido, lui è più felice ma io cerco comunque di introdurre qua e là attività comunicative che lo pongano al centro del processo di apprendimento e lo rendano autonomo. Riesco addirittura a farmi dare dall’azienda una piccola aula con lavagna, dove lo esorto a svolgere la lezione, e lui per un paio di volte ci viene. Le altre volte vuole stare nel suo ufficio, e non posso imporgli di venire nell’altra aula. Un giorno a lezione, durante una delle mie graduali e strategiche proposte, lui sbuffa in continuazione. Al che decido di prendere il toro per le corna, rischiando di perdere il lavoro con la scuola. Gli propongo di proseguire con un altro insegnante, io non ho più intenzione di continuare così. Proprio così, esaurita da queste prime esperienze, i miei nervi e la mia professionalità crollano, e me ne vergogno. Penso di cambiare lavoro.
Invece proprio qui c’è un colpo di scena. Luca, così si chiama, a mia insaputa va a scusarsi con la scuola, che nel frattempo io ho informato dell’accaduto. La scuola, nonostante tutto, gli affida un altro insegnante. Lui va avanti per un mese, seguendo meticolosamente e ligio al suo dovere il metodo tradizionale di quest’ultimo, il quale dopo un po’ se ne va perché cambia lavoro. Succede spesso, quando questo lavoro svolto così ti mette di fronte ad una precarietà assoluta che nuoce al tuo rendimento, chiamiamolo così. A quel punto io avevo iniziato un corso con un piccolo gruppo nella stessa azienda. Il gruppetto di manager mi segue con entusiasmo e riesco ad insegnare cultura e civiltà tedesca, a proporre attività di ogni genere anche su argomenti di tedesco aziendale, molto commerciali e specifici. Ma come è possibile? Io sono la stessa e il successo e insuccesso sono sempre alle porte allo stesso modo? Finale: Luca viene inserito nel gruppo. Non gli parlo, ma con il mio lavoro e la grinta che ho tirato fuori da non so dove, lo coinvolgo nelle attività, i compagni e colleghi sono di grande aiuto, e Luca fa progressi e partecipa come non mai. Catarsi raggiunta, anche in questo caso. Tutto dipende da me e non ci sono giustificazioni per l’insegnante, questo è quello che inizio a pensare. Siamo noi insegnanti che creiamo l’atmosfera di lavoro, ma a volte gli studenti ci rendono la vita impossibile!
Il quarto pensiero è molto breve e va ad uno studente con problemi psicologici e di dislessia che mi viene assegnato. Non so nulla dei suoi problemi prima dell’inizio del corso.
Nel brulicare di scuole di lingua di ogni genere, altri colleghi ed io spesso ci troviamo in situazioni di questo tipo. Mi viene chiesto di fargli fare un test d’ingresso di inglese. Protesto: il suo livello è 0, perché devo fargli fare un test? Per frustrarlo? La scuola insiste, il test è obbligatorio. Appena lui arriva, mi accorgo che qualcosa non va. Non vado oltre la terza domanda del test. A quel punto lui tira fuori un suo libro su cui ha studiato inglese da solo. Il libro consiste in una serie di frasi italiane tradotte in inglese con la pronuncia scritta tra parentesi. Lui vuole usare quel libro. A quel punto esco dalla classe e chiedo consiglio ad una collega che si occupa anche della segreteria della scuola. Lei dice di continuare per la mia strada. La lezione è un disastro, non riesce ad ingranare. Penso che si tratti di mancanza di feeling…comunque io non sono una psicologa e non so come comportarmi in questa situazione. Ho capito che lui ha qualcosa di particolare, diciamo così, ma non riesco a capire cosa. Dopo qualche lezione capisco che non so di cosa soffra esattamente lo studente, ma ho capito che è senz’altro dislessico. Mi documento sull’argomento per cercare di portare avanti il corso nel modo più proficuo per lui, che comunque non mi fa presente il suo problema. Dopo circa quattro lezioni, in cui non ho il tempo di equilibrare la strategia perché lui impari e io riesca a fare il mio lavoro, lui dice alla scuola che è perplesso nei confronti del mio metodo. Per mia fortuna, la scuola si fida di me e capisce con intelligenza che c’è dell’altro. Gli propone un’altra insegnante, e a quel punto il re dei problemi viene fuori. Lui non vuole un’insegnante donna. Gli viene assegnato un uomo, e con lui continua il suo corso.
Ora mi chiedo: non è forse anche un po’ dovere delle scuole accertarsi prima di situazioni patologiche di questo genere, per non nuocere allo studente e non mettere nei pasticci l’insegnante? O forse è l’insegnante che non deve fare i conti con la sua autostima ma riflettere sui suoi errori e adattarsi comunque allo studente? Dove sta la soluzione? Si dovrebbe forse fare un incontro preliminare con ogni studente? O forse l’insegnante deve aggiornarsi anche su argomenti quali la dislessia e i metodi didattici per poter avere a che fare con studenti che ne sono affetti? E deve essere affiancato, quando serve, da un educatore?
Il quinto pensiero va ad una classe di un istituto tecnico in cui ho insegnato l’anno scorso. Tenevo un corso pomeridiano per allievi di terza, quarta e quinta superiore per prepararli a sostenere l’esame B1 che serve anche ad accedere ad alcune facoltà universitarie. Si trattava di 31 studenti per un totale annuo di 20 ore. Erano tutti ragazzi, adolescenti scatenati, e due ragazze, che se ne stavano in minoranza ai margini della classe a subire le non gentilezze dei compagni. Non ti dico che terrore! Avevo un serratissimo programma da rispettare, e dovevo prepararli a quell’esame, non c’era molto tempo né molto spazio per fare altro. La prima lezione ho solo dovuto continuamente chiedere di fare silenzio e di non tirarsi gli aeroplanini di carta, temendo a tratti anche della mia incolumità fisica. Sono andata avanti con le prime attività di preparazione al reading, con poco successo.
Passa una settimana prima del secondo incontro e ho modo di riflettere. Studio come riadattare in modalità autentica e integrativa la mera preparazione ad un esame di certificazione per un livello stabilito dal Common European Framework of Reference for Languages. I livelli sono divisi in compartimenti stagni e non c’è modo di uscire da questo labirinto, per altro chiuso e serrato. Attività, esercizio per esercizio, mi accorgo di riuscire a trovare una soluzione. Per lo speaking, per esempio, li disabituo ad avere a che fare con l’insegnante. Mi rendo una presenza invisibile, e li faccio lavorare a coppie, cambiando le coppie, mischiando le classi, cercando di individuare gli abbinamenti “nocivi” e cercando di renderli inoffensivi. Permetto loro di darmi le spalle (rivoluzione per la loro mentalità! Devono ancora alzarsi quando entra in classe l’insegnante!). Elimino la cattedra, li coinvolgo nello spostamento di banchi e sedie (seguiranno lamentele della bidella). I ragazzi parlano solo in inglese, mi seguono, io mi riesco a rendere invisibile, e loro lavorano in piena autonomia. Seconda rivoluzione: Editing, ossia Revisione fra pari per il Writing. All’inizio si lamentano perché vogliono le mie correzioni. Non dico di no, semplicemente trovo dei modi per tirare fuori da loro le risposte, come guidando una Ricostruzione di conversazione senza dare la soluzione ma stimolando le loro menti. Riesco ad avere successo questa volta, e tutti gli studenti a fine anno passano l’esame a pieni voti. C’è solo un piccolo imprevisto. La loro insegnante mi ferma in aula professori un giorno, mentre mi barcameno per cercare di non far cadere le chiavi dell’armadietto che mi è stato assegnato e contemporaneamente tento di non far cadere cappotto, libro, lettore cd e pigna di fotocopie. A pensarci bene, quel giorno pioveva e avevo in mano anche un ombrello. Così sono alcune grigie giornate milanesi in cui si passa da una lezione all’altra in zone disparate della città addentando un panino in metropolitana! L’insegnante mi si avvicina con una scusa qualunque: Come vanno gli studenti, studiano, fanno i compiti e balle varie (concedetemi il termine). Poi si confida (con me, che ho 30 anni meno di lei e che insegno dalla metà della metà del tempo!). Gli studenti della sua classe non la seguono più. Non accettano le correzioni, sono insofferenti, non sopportano le spiegazioni grammaticali rigurgitate dall’insegnante che deve affrettarsi a terminare il programma ministeriale e utilizza solo un testo di grammatica. Li trova però migliorati nella pronuncia e nell’ascolto. Sembra chiedermi cosa ho fatto loro. Io rido sotto i baffi (e sotto la montagna di cose che ho in mano), la lascio alla sua diatriba interiore, e mi avvio sorridente al piano superiore a svolgere la mia lezione. Un piccolo grande successo…grazie DILIT!
Sesto e ultimo pensiero: avviene totalmente l’opposto. Seguo una studentessa francese che deve imparare l’italiano, principiante assoluta. Conservatrice assoluta. Mi pare che cerchi un’amica più che un’insegnante, ma non mi lascio influenzare. Pur dovendo obbligatoriamente seguire il testo imposto dalla scuola, scovo nell’armadietto una copia di Volare…Qualche baldo collega mi ha allora preceduto anche qui! Mi rallegro e inizio ad integrare cercando di evitare l’orrido ibrido di cui sopra. Il corso procede bene, e lei è talmente felice che mi manda altre amiche e decide di rinnovare il corso per tantissime altre ore. Ad un certo punto però si iscrive anche ad un corso del comune consigliatole da altre amiche. Frequenta contemporaneamente il corso tenuto da me e quello comunale. Si convince che si integrino alle perfezione. Guardo il libro che segue con il corso comunale: si tratta di grammatica ed esercizi, alternati a qualche rado ascolto in cui gli attori parlano come nelle tragedie di Shakespeare.
In classe con me il clima è molto buono, lei è collaborativa e il corso va avanti per un anno intero, con una piccola interruzione dovuta a problemi amministrativi della scuola. Inizia il secondo anno, e già alla prima lezione sento che qualcosa è cambiato. La studentessa dice che dopo la pausa estiva si sente molto arrugginita, sente di non migliorare, mi tempesta di domande su paragoni tra la lingua italiana e francese. Mi dice che non frequenterà più il corso al comune, ma che comunque ha bisogno di fare grammatica in modo quadrato perché ha una memoria fotografica che memorizza gli schemi. In poche parole, mi chiede di darle quello che le dava il corso al comune. Mi sento amareggiata, ma come, me l’hanno contaminata all’opposto? Poi mi sento arrabbiata, e anche io pratico la vendetta. La lezione successiva, la uccido di regole grammaticali, la inondo di nozioni, di esercizi, poi cerco di darle un compito a casa con cui spero di poter avviare una Lettura analitica morfosintattica la lezione successiva, a mio rischio e pericolo. Dopo ogni spiegazione, le chiedo, con nonchalance, così va bene? Lei è sempre più scura in viso ma dice che questo è quello che vuole. Benissimo, la correggo ad ogni errore che fa, facendole notare che con quel metodo non impara nulla e continua a ripetere gli stessi errori. Lei non si rassegna, vuole quello che le dava il comune. Precipito nella soluzione dell’orrido ibrido. Ma come, dopo un anno di lavoro insieme? Mi interrogo, cerco di capire. In genere avviene il contrario, prima c’è diffidenza talvolta e poi col tempo subentra la fiducia e le cose vanno meglio, lo studente va capito, c’è sempre un motivo per tutto ed è l’insegnante che si deve interrogare a questo proposito, questo credo di averlo interiorizzato. Infine credo di aver capito. Una delle amiche che mi ha “mandato” l’anno precedente, e con cui io ho portato avanti il corso con molto successo, ha sostenuto l’esame CILS e il suo livello è molto migliorato. È francese ma suo marito è italiano, inoltre ha ricevuto un’educazione bilingue (arabo-francese), ed è molto predisposta ad apprendere con velocità nuove lingue straniere. I suoi progressi con l’italiano sono evidenti, il metodo integrativo con lei riesco a portarlo avanti con successo. Con le Ricostruzioni di conversazione, dopo solo poche lezioni di italiano, sono riuscita a farla arrivare, ipotesi dopo ipotesi, una goccia di fatica dopo l’altra, a questa conversazione, che avevo sentito in treno qualche giorno prima.
– Ma ci pensi ancora? Ma smettila!
– Guarda, non riesco ad impormelo!
– Senti, non me ne frega, a te ora ci penso io!
– Eh, sì, e come dovresti farcela? Con la bacchetta magica?
Inoltre lei tende a non fare molti paragoni con la sua lingua d’origine. Insomma, credo di aver individuato il problema. È nata una sorta di invidia o di gelosia nei confronti dell’amica. Decido di stemperare l’atmosfera dandole implicitamente vari riconoscimenti, e le cose sembrano migliorare, ma non del tutto. La studentessa inizia a disdire lezioni e a mostrarsi insofferente, ma continua a venire, seppur non con la puntualità di prima. Così decido di proporre dei laboratori di cucina italiana coinvolgendole entrambe, e in effetti dopo quelle lezioni-laboratorio le cose sembrano andare decisamente meglio. Forse ho trovato una soluzione possibile che non frustri lo studente, ma chissà quante altre sfide ci saranno! Quando apprendono, gli studenti di qualunque età diventano un po’ come dei bambini?
Conclusione
Qui ti ho riportato solo alcuni esempi, ma ce ne sarebbero molti altri. Sia di corsi andati bene e in cui è tutto filato liscio come l’olio, sia di corsi problematici in cui mi sono dovuta ingegnare, spesso fallendo e piangendo prima e dopo la lezione, ma continuando a lottare per ciò in cui credo. Ho scritto questi pensieri di getto e senza alcuna remora, e sono pronta a ricevere critiche….Tutto ciò che ti ho raccontato è andato esattamente così, ed è privo di coloriture romanzesche, anche se a tratti ha dell’incredibile, me ne rendo conto.
Caro Christopher, so che ti avrò già tediato molto, ma vorrei esprimerti solo un paio di altri pensieri dopo questi tre anni post-dilit. Talvolta, come emerge da questi pensieri, penso che molti di noi insegnanti si sentano isolati e lasciati a se stessi. Le scuole ti affidano corsi di ogni genere, in ogni dove, senza garantirti continuità né pagamento puntuale, e non si curano poi di assisterti. Mi riferisco soprattutto alle situazioni problematiche che possono presentarsi poiché ci si trova ad avere a che fare con studenti di ogni genere. Io insegno tre lingue per cercare di sbarcare il lunario, ma lo faccio con passione ed entusiasmo perché è ciò che amo fare. Spesso però mi manca un confronto con un collega, una struttura scolastica “madre” a cui affidarmi, con cui potermi confrontare, in cui trovare un appoggio. Invece ciò che devo fare è far combaciare gli orari, fare più corsi possibile e stare zitta e non creare problemi alla scuola che ragiona in termini puramente aziendali. Non mi riferisco a tutte le scuole, ora per esempio insegno in una struttura molto diversa da quelle di cui ti ho parlato, ma nella maggioranza dei casi mi sono trovata in situazioni di quel tipo.
Il secondo pensiero è che spesso mi trovo in difficoltà a portare avanti Ricostruzioni di conversazioni ed altre attività apprese alla DILIT durante le lezioni individuali, che sono la maggioranza di quelle che mi vengono affidate. Devo andare incontro alle richieste dello studente-cliente, come molti colleghi, e questo va a scapito della ricchezza che può dare una realtà di gruppo. Nelle Ricostruzioni di conversazione le ipotesi sono sempre e solo quelle di uno studente solo, la Revisione fra pari non è più fra pari se deve farla con me necessariamente, anche se cerco sempre di ovviare al problema. Inoltre, i libri di testo vengono spesso imposti e sono per la maggior parte pensati per gruppi.