Aiutare lo studente
Se gli studenti che intraprendono uno studio fossero dotati a priori di autonomia il ruolo dell’insegnante sarebbe quasi completamente annullato e quello della scuola sarebbe limitato a rappresentare un luogo di aggregazione nel quale poter studiare in gruppi.
Una classe di studenti autonomi saprebbe riconoscere i propri bisogni, valutare il livello di apprendimento, programmare e proporsi attività adatte alle proprie esigenze.
Nell’ipotesi fantasiosa che una scuola siffatta esistesse avremmo, ad esempio, studenti di lingua italiana che la sera girerebbero a Roma per Campo de’ fiori con registratori per fissare conversazioni tra italiani al cinema Farnese, al ristorante La Carbonara, alla Vineria, alla libreria Fahrenheit 451, per poi ascoltarle tutti insieme ed analizzarle la mattina successiva.
Cosa rimarrebbe da fare all’insegnante in una situazione simile? Proprio nulla se gli studenti avessero addirittura una sufficiente conoscenza delle strategie didattiche e di apprendimento, se sapessero usare un video, un registratore, un giornale, un libro…
È chiaro che quello appena svolto è un ragionamento per assurdo, che non ha nulla a che fare con la realtà se non per il fatto che uno degli obbiettivi che un insegnante può porsi è quello di portare i propri studenti verso l’acquisizione di una autonomia di studio. Mi si potrebbe obbiettare che questo è il tipo di formazione a cui dovrebbe ambire l’università e che l’insegnamento delle lingue deve mirare essenzialmente ad insegnare le lingue. Tuttavia potrei rilanciare dicendo che uno studente che ha imparato a studiare non solo potrà trarre il massimo giovamento dalle attività svolte in classe, ma sarà maggiormente in grado di trovare modo di progredire nel caso volesse continuare ad applicarcisi in un momento successivo, e forse sarà più motivato nel cominciare a studiare un’altra lingua o magari sarà semplicemente più rilassato nell’iniziare una nuova avventura di studio. In breve, mi sembra che insegnare le regole per imparare meglio una lingua significhi in fin dei conti insegnare meglio la lingua stessa.
Certo è che se accettiamo l’idea per cui uno dei compiti dell’insegnante sia avvicinare lo studente ad un ruolo sempre più autonomo entriamo in un mondo fatto di asperità e difficoltà e fraintendimenti e a volte contraddizioni.
Mi sembra che il pericolo maggiore consista nella rigidità. I metodi applicati e i ruoli che assumiamo in classe infatti rischiano di farci indossare delle maschere dietro le quali ci dimostriamo forti e superiori agli occhi degli studenti e le ostentiamo qualche volta con lucida freddezza, come quando si crede ad una divinità mistica dietro la cui aura ci si ripara. Altro è la coerenza.
Non c’è dubbio alcuno che l’insegnante venga visto come il primo essere umano della razza che parla la lingua che si sta studiando da chi, principiante assoluto, arriva da un paese lontano e trova la forza di immergersi in questo mondo a lui alieno. L’imprinting con l’insegnante determina a volte una gran parte della motivazione a continuare lo studio, e le prime armi che io stesso mi trovo a giocare sono la simpatia, l’esperienza, l’eclettismo, la leggerezza: mezzi a cui cerco di attingere, ma ai quali bado a non essere troppo a lungo debitore.
Quello che sto cercando di dire è che il mestiere dell’insegnante è un lavoro che può usare tutte le arti e le scienze persuasive, quali la seduzione, la cultura, la psicologia, senza però far sì che si confondano questi “temi” dell’insegnamento con la “forma” dell’insegnamento, cioè il metodo.
Non c’è alcun dubbio che il nostro metodo è duro per gli studenti, e che soprattutto nei primi giorni di corso bisogna essere elastici con le attività. Ma nel momento in cui un corso è avviato, che senso ha continuare a scendere a compromessi con gli studenti? Non sono state poche le volte in cui mi sono interrogato sul da farsi davanti a domande unitarie di intere classi: “vediamo un film?”; “facciamo la pausa?”; “ci dai la soluzione?”; “it’s too difficult in Italian, can I speak English?”; “ci correggi i testi scritti?”…
Io non rispondo sì.
Do altre risposte, in genere negative, motivandole e parlandone insieme, se possibile. Se la pratica di questo genere di perplessità continua allora penso che la colpa sia mia. I motivi di questa affermazione possono sommariamente essere riassunti in tre punti:
- Se hanno un simile atteggiamento perché sono pigri significa che non sono motivati a studiare, cioè le mie attività sono troppo facili o troppo difficili.
- Se lo fanno perché sono stanchi per ragioni personali vuol dire che le mie lezioni non sono abbastanza stimolanti e che non sono stato in grado di far loro capire che possono uscire e andare a dormire piuttosto che disturbare e far perdere tempo agli altri e a loro stessi.
- Se non c’è convinzione sul metodo e vorrebbero cambiare strada allora non sono stato in grado di dimostrargli che con il mio modo di fare imparano meglio.
Il quarto caso, quello dello studente indisponente per atteggiamento mentale, non è contemplato. Capita, ma qui non è preso in considerazione.
Ancor più in generale, penso che se uno studente non ha chiara l’utilità di una attività anche solo dopo un mese di lezione è perché il suo insegnante non la ha proposta con chiarezza. È un piccolo appunto che faccio in primis a me stesso quello di edulcorare alcuni lavori per renderli più digeribili, quello di accontentare un po’ le richieste degli studenti, di lasciarli un po’ fare a modo loro. Ma questo quanto li aiuta a raggiungere l’obbiettivo di diventare, un giorno, autonomi nello studio?
Allora, finalmente posso porre la domanda: che significa aiutare gli studenti? Nel dare una risposta non predico la rigidità, ma auspico la coerenza. Mi chiedo che senso abbia proporre una lettura veloce di una lettera chiedendo di rispondere al quesito “Quanti anni ha secondo te l’autore?”. Mi domando perché, se ritengo un ascolto un po’ difficoltoso, mi riservo la possibilità di abbassare la soglia degli obbiettivi ponendo delle domande. La mia impressione è che fogli lavoro, quesiti, domande di qualsiasi genere sul contenuto poste all’interno di una attività di Lettura o Ascolto autentici rispondano più alla paura dell’insegnante che ad una esigenza dello studente. Per questa paura si è pronti a giungere ad un compromesso: “tu ascolti o leggi e io ti faccio solo due domande sceme”. Ma se l’insegnante è convinto che queste sono attività libere in cui la richiesta principe che si fa è quella di lavorare con la fantasia e muovere tutte le competenze per cercare di interpretare in maniera personale la comunicazione ricevuta, se è certo che è il processo della ricezione in tempo reale che conta e non l’aspetto analitico delle forme per andare alla ricerca di singole informazioni, chiedere allo studente dopo una lettura di rispondere alla domanda “Quanti anni ha secondo te l’autore?” o durante un ascolto di scrivere cosa prende l’uomo che fa ordinazioni al bar non mi sembra altro che un avallo alla pigrizia che si suppone abbiano gli studenti nonché un modo per andare nella direzione opposta a quella della nostra premessa: l’autonomia. Forse cercare dei compromessi è un’arte, ma lo è anche essere coerenti con i propri obbiettivi, essere semplici, scarni e diretti, dire poche cose ma nette, comunicare anche ai livelli più bassi in qualche modo le ragioni del nostro operato. Poi ogni individuo è naturalmente libero di accettarlo o non accettarlo, è libero di continuare a studiare con noi o di cambiare scuola. Allora, in conclusione, rilancio a tutti i lettori la mia domanda rimasta senza risposta: che cosa significa aiutare lo studente?