Punto di partenza: due italiani in Egitto
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Perché l’Egitto?
Malgrado i dati sullo sviluppo dell’insegnamento della lingua italiana come seconda lingua, dati commentati dallo stesso ministro De Mauro come straordinari, non è poi così facile trovare in Europa un numero congruo di studenti a cui insegnare la nostra lingua.
Situazione differente, punto di partenza differente, inaspettatamente, in Egitto. Eh sì, laddove i faraoni fecero costruire monumenti colossali per esaltare la propria potenza, oggi il turista, spettatore di quelle stesse opere, resta la fonte maggiore di guadagno per un popolo che vive a metà strada tra la tentazione occidentale e la tradizione dei costumi religiosi locali. La facoltà universitaria più ambita: Turismo e Alberghi. Uno dei lavori più redditizi? La guida turistica. I turisti più numerosi? Gli italiani. In breve il conto è fatto: migliaia di giovani riempiono classi di almeno diciotto – venti persone (con casi limite di classi composte anche da trenta studenti…) in cui si insegna la lingua italiana. Il tutto per poter comunicare con quei personaggi bizzarri in calzoncini corti, occhiali da sole, sempre pronti a chiedere di una buona pizzeria nei dintorni che sono gli italiani in vacanza.
Anche noi quindi, due amici avventurieri diplomati Dilit, siamo venuti qui. A spingerci, è ovvio, non è stata una semplice vacanza, bensì un vero e proprio desiderio di fare esperienza praticando la nostra professione di insegnanti. Una sorta di “extracomunitari controcorrente” ci si potrebbe definire…
Adesso, però, dopo i convenevoli e le presentazioni, passiamo ad una descrizione più “professionale” del nostro soggiorno egiziano: l’insegnamento dell’italiano in Egitto, e più particolarmente al Cairo.
Una volta arrivati ci si rende conto della notevole possibilità lavorativa che un paese come l’Egitto offre. Le istituzioni sono variegate: si parte dall’Istituto Italiano di Cultura e si prosegue verso strutture private o statali come il Centro linguistico Dante Alighieri o l’Istituto Don Bosco, gestiti da italiani. Infine le tradizionali scuole di lingue presenti in molte parti del mondo come la Berlitz o l’International House, entrambe nella capitale egiziana. Poi, ovviamente, lezioni private a domicilio, molto più soddisfacenti sotto il punto di vista sia qualitativo (gruppi piccoli, meglio gestibili…) che remunerativo.
Ma tralasciamo il discorso sulle lezioni private, che presentano i vantaggi e i problemi comuni agli altri paesi, e concentriamo l’attenzione sui corsi di lingua italiana nelle scuole d’Egitto.
Insegnamento: adattamento e opposizione
Innanzitutto con il termine “classe” qui si deve far riferimento a tutto il carico vetero-gentiliano, o addirittura umbertino, che la parola si porta dietro. Classi con banchi in legno ad un posto, in rigoroso inquadramento parallelo-perpendicolare, tutto verso la “cattedra” soppalcata. Grande cartina del bel paese, lavagna e gesso. Le variazioni a questo quadro sono minime e poco significanti. Questo per l’ambiente, ambiente che, come è noto, influenza i comportamenti. A tutto questo, non è neanche il caso di prolungarcisi troppo, si sommano altri ostacoli, ben più complicati: primo fra tutti quello di natura culturale. Sesso, politica, temi come la figura della donna nella società contemporanea, religione, insomma tutto ciò che in Europa è materiale indiscusso di lavoro, in Egitto sono spesso argomenti tabù, il cui approccio, comunque, non è mai scontato, semplice.
Quale la nostra reazione in questo contesto? Da un lato, inevitabilmente, umanamente, l’adattamento, dall’altro, “dilitamente”, la messa in discussione, consci del fatto che l’insegnamento della lingua italiana si inserisce nel più vasto quadro dell’educazione linguistica. Questa deve tendere a far acquisire allo studente, come suo diritto fondamentale, l’uso del linguaggio in tutta la varietà delle sue funzioni e forme, nonché lo sviluppo delle capacità critiche nei confronti della realtà. Ecco quindi che l’insegnamento dell’italiano deve mirare, qui in Egitto come ovunque, a far conseguire specificatamente un possesso dinamico della lingua. L’uomo si avvale principalmente della lingua per organizzare la propria comprensione della realtà, per comunicarla, esprimerla, interpretarla. Con la lingua l’uomo arricchisce il suo dato interiore e ordina, chiarisce ed adegua lo strumento della comunicazione verbale.
Certo, è sicuramente difficile, in una classe piena di banchi pesanti, scomodi e moltiplicati per trenta, organizzare un cerchio di interazione. Un’impressione, la nostra, simile a quella raccontata da Laura Berardi nel Bollettino Dilit1999/1 (Il metodo Dilit all’università), con la sola differenza che quella classe non era omolinguistica, e soprattutto si trovava in Italia, in un contesto, cioè, sicuramente più favorevole all’apprendimento della lingua. Il fatto di trovarci in classi omolinguistiche è poi un’altra componente della complessa barriera di ostacoli che quotidianamente affrontiamo. È, infatti, molto più difficile cercare di far parlare l’italiano ad un gruppo i cui componenti sono normalmente abituati a comunicare in lingua madre.
Ma andiamo avanti con le pure descrizioni dei fatti, con il puro reportage e tralasciamo il tono vittimista che forse ci è sfuggito dagli angoli della bocca. Un insegnante non è mai vittima, bensì regista, a volte attore, degli eventi che accadono in una classe.
La via del gioco
Del resto è un dato assodato quello per cui l’obiettivo principale nell’insegnamento di una lingua straniera debba essere quello di contribuire alla conquista delle capacità espressive anche mediante l’allargamento degli orizzonti culturali, sociali e umani. Dire questo a questo punto del nostro resoconto egiziano è importante ed utile, per delinearne meglio i tratti e provare quindi a fare qualche altra riflessione.
D’altro canto il problema che vorremmo esaminare, legato alla nostra professione, è il seguente: quali debbano essere le forme del nostro lavoro se si desidera raggiungere seriamente gli obbiettivi succitati.
La prima riflessione che abbiamo fatto è stata questa: parlare è anche un rappresentare, un esibirsi, un ostentare colla parola. In altre parole, imparare a parlare significa anche imparare a mettersi in discussione. Ora, come poter rendere possibile questo qui, in Egitto, con tutti i problemi strutturali di cui abbiamo parlato? Fra le tante risposte che potremmo dare, in questa sede citeremo solo la più rappresentativa per noi, quella, cioè, che ci ha dato un maggior numero di risultati: “il gioco”.
L’esistenza del gioco, infatti, non è legata a nessuno stereotipo o tipo di società, a nessuna concezione della vita. Insieme alla semplicità del gioco, però, si può riconoscere il senso proprio della parola. Ma ciò su cui è importante riflettere è che tramite il gioco ci si può facilmente astrarre dalle condizioni imposte dalla realtà circostante e vivere, “spensieratamente”, al di fuori dei suoi tabù, delle sue regole strette. In altre parole, la situazione nella quale ci troviamo a scuola o in un qualsiasi corso strutturato può benissimo allontanarsi dalla realtà, anzi lo deve fare, se vogliamo insegnare a pensare in un’altra lingua…
Come è ovvio, il gioco crea una realtà parallela a quella reale: nel gioco non si fa “sul serio”. Crea un mondo con regole sue, predefinite, in modo esplicito o implicito. Certo, è essenziale che siano precise e predefinite (e in questo caso l’idea di insegnante-regista calza veramente a pennello…), perché l’incertezza sulle regole o il tentativo maldestro di sostituirle con altre spezza l’incanto del gioco, lo annulla. Il baro rovina il gioco, ma mai quanto il guastafeste che non ne riconosce le regole. Senza quelle regole il gioco, semplicemente, non c’è. La sfera del gioco è allora – almeno entro certi limiti – protetta dai limiti della realtà, siano essi dei banchi vecchio stile o una cattedra su un piedistallo. Giocare significa creare un mondo parallelo, e creare anche le regole collettive, da tutti accettate, perché possa esistere. Nella sua sfera, come nel cerchio magico dell’antica magia, uno spazio e un tempo predefiniti delimitano le sue condizioni d’esistenza e la libertà è data dalla piena adesione alle regole liberamente accettate dagli studenti e costruite dall’insegnante-regista. Con ciò, come è chiaro capire, non si vuol affatto disattendere la serietà dell’apprendimento, anzi, tutt’altro: nulla, infatti, è così seriamente vissuto quanto la concentrazione dei giocatori in un gioco.
Ecco quindi che nelle nostre classi egiziane si fa il possibile per creare una situazione “antagonista”, di movimento. Tra i primi moti spontanei che abbiamo avuto con l’ingresso in un’aula vecchio stile c’è sicuramente stato il voler mettere colore: un colore invisibile, certo, ma molto efficace in un corso di lingua straniera: il nostro colore è stata la nostra voce. Abbiamo interpellato gli studenti, abbiamo chiesto la loro opinione, li abbiamo fatti venire a fare una lezione, a recitare.
Per la prima volta probabilmente non si sono sentiti ricettori di stimoli ma creatori di lingua, finalmente l’italiano. La prospettiva è cambiata: non più l’apprendimento passivo ma la messa in gioco delle proprie capacità, individualità. Il turismo è il loro fine? E allora ci troviamo all’improvviso in un albergo per prenotare una stanza. Uno studente ha come istruzione (precedentemente fornita da noi, in segreto) di poter pagare fino ad una certa cifra, con al contempo particolari pretese. L’altro, all’insaputa del primo, ha solo alcuni dei servizi richiesti disponibili: il “gioco”, organizzato in questo modo, stuzzica l’inventiva, l’interesse, curiosità, e soprattutto voglia d’imparare. Parlano in arabo fra loro? E allora uno di loro “è” arabo, e l’altro “straniero”. Impossibile nel gioco parlare nella madre lingua. Piccole astuzie, necessarie per incuriosire chi fino a allora è stato abituato ad ascoltare, ripetere a pappagallo, e applicare ciecamente delle regole astratte.
Ultimi ostacoli e ultimi trampolini
A questo punto, però, subentrano altri fattori, che sarebbe ipocrita non citare. Principale tra questi fattori supplementari è l’aspettativa pratica che le strutture scolastiche presenti in Egitto prospettano ai loro studenti. Ma procediamo con calma e mettiamo sul banco dei fatti antagonisti al nostro gioco l’ennesimo ostacolo: il supporto didattico. Questo è il libro che la scuola fornisce e che gli studenti sono costretti a comprare. Risultato: ogni studente ha speso dei soldi per acquistarlo (neanche pochi, viste e considerate le tasche degli egiziani…) e non può essere ignorato, scansato, messo da parte. Il reportage vuole che si mettano anche i titoli e i nomi a questo punto: il libro di cui si parla è La lingua italiana, firmato Katerinov.
Il nostro lavoro diventa inevitabilmente quello del mediatore, dell’integrazione programmata, razionalizzata. Questo significa affiancare al supporto didattico offerto dall’istituzione materiale nuovo, cassette audio autentiche, canzoni, articoli di giornale scaricati da internet, esercizi di Volare e soprattutto lo spirito Dilit: giù dalle cattedre, lavoro di ricerca, simulazioni di situazioni. La risposta è generalmente positiva, se non fosse per …
Se non fosse che l’esame finale esige una conoscenza grammaticale precisa, impeccabile.
Il dissidio a questo punto è chiaro: da una parte una precisa deontologia professionale che ci spinge all’obiettivo “comunicazione”, dall’altra l’urgenza di fornire agli studenti gli strumenti utili a compilare correttamente i test degli esami, premessa necessaria all’accesso al sospirato diploma utile al loro futuro da guide turistiche. Dato impressionante è quello che non la maggioranza, ma la totalità degli studenti impara l’italiano per usarlo nel campo del turismo.
A questo punto del resoconto, è facile intuire che con la nostra descrizione non volevamo proporre certo una soluzione “chiavi in mano”, ma dei percorsi: quelli che utilizziamo nelle nostre classi. Si tratta dunque di strumenti, semplici strumenti adeguati ad una realtà affatto semplice!
Le difficoltà che giornalmente incontriamo, e che si spera siano emerse dalla nostra contorta e forse sconclusionata esposizione, sono continue, evidenti, numerose.
Ritornando dunque al tema da cui siamo partiti, insegnare la lingua italiana ad egiziani, possiamo soltanto addurre la nostra esperienza come banco di prova, come unico punto di riferimento. Siamo abbastanza certi, ad esempio, che insegnare ad uno studente egiziano ad essere un “ricercatore” (così come Christopher Humphris ci ha insegnato…) non può non tener conto del punto di partenza. Il nostro punto di partenza, qui, è l’Egitto, nella misura e nella forma in cui ne abbiamo parlato in quest’articolo. Questo perché ogni insegnamento è sempre un “insegnamento a…”, a una persona storicamente, socialmente, culturalmente ben identificata. Per raggiungere i suoi obiettivi, l’insegnamento deve prendere in considerazione questa realtà, questo fatto.