Alice nel paese delle ipotesi
di Maria Paola Spurio
Alice rise: “è inutile che ci provi, non si può credere a una cosa impossibile.”
“Oserei dire che non ti sei allenata molto”, ribatté la Regina. “Quando ero giovane, mi esercitavo sempre mezz’ora al giorno. A volte riuscivo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione.” Lewis Carroll
Non potevo che aprire queste mie considerazioni così, ripensando proprio ad Alice nel Paese delle Meraviglie, che oltre ad essere il primo libro in assoluto che ho letto (e che quindi mi ha introdotta al magico mondo della lettura e della fantasia e della creatività) è anche un libro che negli anni mi ha sempre dato modo di trovare risposte quando le mie domande si facevano troppo grandi. Beh, devo per forza essere Alice un po’ anche io e credere ad almeno sei cose impossibili prima di colazione se voglio davvero fare l’insegnante di Italiano L2, no?
In effetti io non sono nata con questa intenzione, non era il mio grande sogno da bambina, e beh, da bambina volevo fare il medico, quindi niente di più distante dunque dall’insegnamento! Poi per mia fortuna durante gli anni del Liceo mi sono innamorata perdutamente della Letteratura e allora ho scelto di studiare Lettere. Al secondo anno di specialistica il caso ha voluto che prendessi parte a un progetto Erasmus con l’università di Augsburg nel quale si stavano elaborando dei metodi di studio comparativi tra lingue appartenenti alle stesse famiglie linguistiche per trovare delle strategie didattiche che ne permettessero un apprendimento più consapevole e dunque più veloce. Ecco, detta così sembra un po’ riduttiva ma a me serve comunque da apripista per dire che fino a quel momento non avevo mai preso in considerazione l’idea di poter diventare un’insegnante di Italiano L2/LS. A dire il vero non sapevo (e lo ammetto sena troppa vergogna perché col tempo ho imparato per mia fortuna anche a non prendermi troppo sul serio) che questo lavoro esistesse (anche Alice a volte appare un po’ tonta ma poi la si perdona, no?).
Aver studiato Lettere (e pensare di insegnare) in Italia in questo momento significa scuola pubblica, significa confusione, significa che a causa delle pessime riforme gli insegnanti vivono di fatto in un precariato ingiusto, che fanno sacrifici al di sopra delle capacità umane, che si ritrovano ingabbiati in un sistema che finisce per spegnerli, per farli diventare grigi impiegati che hanno perso totalmente il loro entusiasmo e che finiscono per sfornare altrettanti alunni disincantati e privi di entusiasmo per le discipline che invece dovrebbero amare e che, nel caso non abbiano ancora le idee chiare sul loro futuro, magari gli accendano quella scintilla che li aiuterà ad autodeterminarsi e a capire chi vogliono diventare da grandi. Beh, più o meno è quello che è successo a me con la Letteratura, se in secondo Liceo non avessi incontrato una prof. che ardeva di passione per i libri, lei non mi avrebbe trasmesso quella stessa passione e io adesso non sarei qui, non sarei io, sarei sicuramente meno me stessa.
Mi sono spesso interrogata sul perché l’idea di insegnare Italiano L2 mi dia più carica, mi piaccia di più. E non è che la mia risposta sia arrivata a una sua definitiva formulazione, perché penso che certe risposte si completeranno solo col tempo e l’esperienza, però è il tipo di scuola che è diverso ed è la scuola che fa diverso lo studente, ma è anche lo studente che fa la scuola.
Prima di approdare alla Dilit ho anche preso una Certificazione per insegnare Italiano a Stranieri, quindi usiamo una di quelle parole che ho appreso lì: Motivazione. In realtà studiando e preparando l’esame per la certificazione quando si parlava di motivazione (che dovrebbe essere tipo la prima fase della lezione) e poi avendo a che fare con gli studenti veri (sia immigrati che no) mi sono resa conto che agli studenti che si approcciano allo studio dell’Italiano L2 (non mi pronuncio sull’Italiano LS non avendo avuto ancora esperienza di insegnamento in questo settore) la Motivazione non manca affatto. Tra osservazioni ed esperienza diretta posso dirvi anzi che la motivazione degli studenti è proprio uno dei fattori che non siamo noi insegnanti a trasmettere agli studenti ma gli studenti a noi. Non so se anche agli altri insegnanti succede, ma a me sì, più uno studente è motivato ed entusiasta e più io acquisisco sicurezza e voglia di insegnare, è come se ogni studente attivasse in me ciò che vuole imparare, come se trasmettendomi la sua voglia di imparare agisse su di me, come se fosse un catalizzatore.
Ecco, questo ad esempio nella scuola pubblica credo manchi totalmente, e credo sia un problema molto serio e sul quale qualcuno dovrebbe pensare attentamente di lavorare per creare strategie che possano migliorare e rigenerare l’impalcatura dalle basi, rinnovarla senza distruggerla o mutilarla. Credo fermamente che quando si lavori con entusiasmo si possa fare di più e senza nemmeno sentire la fatica!
Cosa distingue un approccio comunicativo da uno non comunicativo? Perché il punto è questo, perché noi continuiamo a dire qualcosa che in fondo è anche semplice nella sua formulazione, ma a volte non per tutti è facile da capire e accettare; provatelo a spiegare a uno studente adulto, intelligente e molto scolarizzato, sicuro di sé e che per tutta la vita è stato abituato a una metodologia rigida, schematica, fatta di tonnellate di grammatica e strutture e sottostrutture e necessità di correttezza…gli procurerete un trauma! Provate a dirgli che non ne ha bisogno! Gli sembrerà di sentire la cosa più assurda della sua vita! Non scherzo, a me è successo e credo succeda a molti e non sempre si riesce, se non altro non subito, a farlo capire. È più facile dare una “struttura” a chi non ce l’ha che trovarsi di fronte chi invece ha molte strutture sulle quali ha fatto, tra l’altro, affidamento per l’intera esistenza.
Ieri sera ero cena con mio padre e un suo amico tedesco. Questo suo amico è un pittore adesso in pensione che sul suo furgoncino sta girando l’Italia per poter dipingere “en plein air” le bellezze del nostro Paese. Io capisco abbastanza bene il tedesco, non ho problemi a cenare in Inglese (ma mio padre sì), e invece siamo finiti, con mia grande sorpresa, a cenare in Italiano! Il suo amico ha studiato Italiano! Con mio padre non aveva osato parlare ma con me lo fa! Iniziamo a conversare, sbaglia un passato prossimo, mio padre lo blocca per correggerlo e io subito mi arrabbio, perché Franz cambia registro e inizia a parlare tedesco e poi inglese. Ecco che io allora non riesco a stare zitta e glielo dico, dico a mio padre che noi non correggiamo, che per noi l’errore non esiste e che lui (come tutti del resto) chiama errore quella che per noi è in realtà è un’ipotesi. Una preziosa ipotesi che non andava sprecata! Franz era fantastico, mi stava spiegando cosa faceva in Italia, in Italiano, parlando liberamente davanti a un bicchiere di vino e stava lasciando che la sua interlingua gli passasse le strutture necessarie ad esprimersi.
Ecco: questa è una delle sei cose impossibili prima di fare colazione alle quali io, come Alice, ho imparato a credere: l’interlingua. Perché non è facile, io ho avuto la fortuna di sentirne parlare alla Dilit e solo successivamente di leggerne in un libro per preparare un esame universitario, ma se mi fosse accaduto il contrario non credo che sarei riuscita ad acquisire questo concetto così in profondità, a crederci. Beh, quando mi sono seduta a fare l’esame purtroppo avevo totalmente dimenticato la definizione esatta e scientifica di Interlingua presente sul libro e quindi per evitare di fare scena muta ne ho parlato a modo mio, spiegando di come io l’avessi “vista” e “sentita” agire negli studenti. Ai professori però non interessava cosa io avessi visto e quindi ho sì, superato l’esame, ma senza trenta e lode. Pazienza, mi sono detta, l’obiettivo era portarmi a casa l’esame sul libretto e lo avevo comunque raggiunto. Del resto questa ansia da prestazione è uno degli elementi più deleteri legati allo studio, ed è anche uno dei fattori che più distrugge l’entusiasmo e la capacità di imparare, uno di quelli che frustra tantissimo gli studenti (anche quando non gli chiedi la perfezione loro la vogliono e tu, insegnante, ti chiedi invano perché e sai che questo sarà davvero uno dei tuoi maggiori nemici da abbattere).
Ma torniamo alla mia cena e a Franz. Una cena non era una lezione di Italiano, una cena non era un esame, una cena era piacere, piacere di condividere cibo, piacere di condividere esperienza, piacere di condividere lingua. Come spiegare a mio padre che lasciare usare a Franz il suo italiano era fargli un regalo? Era dargli la possibilità di usare uno strumento per raggiungere un obiettivo e nel frattempo permettergli di espanderlo e rinforzarlo, rimetterlo in funzione e testarlo direttamente sul campo. Per mia fortuna non ho soggezione di mio padre e riesco spesso ad impormi, così Franz è stato libero, non solo di conversare in Italiano, ma anche di capire che esiste un approccio diverso allo studio di una lingua straniera, un approccio basato sulla comunicazione, sull’utilizzo della lingua e sulla non necessità di imparare ogni più recondito cavillo grammaticale. E devo ammettere che scoprire questa cosa lo ha fatto sentire bene, più libero e mi ha anche confessato che il fatto di dover imparare ogni volta tutte quelle nozioni era uno degli aspetti che più lo frenava nello studio di una lingua straniera.
Non tutti gli studenti sono come Franz, che sono sicura si divertirebbe tantissimo ad imparare con i nostri metodi, ma con impegno e credendoci, sono sicura che possiamo far passare questo trauma a parecchi. Perché parlo di trauma? Perché pensiamoci. Noi prendiamo gli studenti e li poniamo davanti a una lingua autentica, caotica, piena di rumori, variazioni, ripensamenti, una lingua che è viva, che è immersa e fluida, veloce, che non è isolata ma vive e agisce in noi che mentre la usiamo camminiamo, pensiamo, mangiamo, andiamo, viviamo. La nostra lingua è parte del nostro corpo, si muove con esso, ne accompagna i gesti e quando cambiamo idea anche la lingua torna sui suoi passi. Cosa arriva dunque allo studente se non confusione? E il nostro gesto di prendere questa lingua così com’è e dire allo studente “ascolta” mi ricorda tanto quel gesto di gettare in acqua qualcuno con l’obiettivo di insegnargli a nuotare. Anche lì causiamo un trauma. Perché? Perché la capacità di nuotare, come quella di imparare una lingua, è qualcosa che va stimolato, che esiste già dentro lo studente, dentro l’essere umano, e noi insegnanti non siamo dei somministratori di conoscenza ma degli stimolatori di capacità.
Un altro aspetto che sicuramente mi piace di questo lavoro e che ha stimolato tante riflessioni, sia durante la mia formazione alla Dilit che poi durante il Seminario dello scorso anno (“Ascoltare, l’abilità trascurata”) è il legame delle teorie didattiche con la neuroscienza. Anche se non siamo di sicuro obbligati a studiare le teorie, risulta molto interessante per noi capire come funziona il cervello e quali sono le strategie che poi di fatto possiamo utilizzare per rendere meno “traumatico” l’approccio dello studente nel momento in cui ad esempio gli proponiamo un ascolto autentico. E a livello personale questo mi ripaga un po’ dal non aver studiato medicina e mi permette in qualche modo, anche se solo nella mia piccola esperienza, di riflettere su più campi che mi appassionano.
Che dire ancora? La psicologia… beh sì, è un’altra delle passioni alle quali presto o tardi cederò e devo dire che avendo avuto esperienza più che altro di lezioni individuali, mi sono resa conto che una delle capacità di cui davvero necessità l’insegnante di Italiano L2 è l’empatia. Saper entrare in contatto con lo studente in un momento che per lui di sicuro facile non è, aiutarlo a fidarsi, non solo di noi, ma soprattutto di se stesso, di capacità che ha, ma non sa di avere, è importante. Essere dei buoni conoscitori dell’animo umano non guasta in questo lavoro; se non altro essere aperti e saper ascoltare e permettere dunque all’altro di aprirsi, di non avere paura e non sentirsi giudicato, di fargli capire che le sue difficoltà sono le difficoltà di qualsiasi altro essere umano (penso a una studentessa tedesca che qualche settimana fa si sentiva frustrata dal fatto di non riuscire ad avere una pronuncia perfetta dopo cinque lezioni! Così le ho raccontato che io ad esempio non riesco a pronunciare bene la ü del tedesco e semplicemente le ho esposto la mia difficoltà facendole notare come il fatto sì, possa dispiacermi, ma alla fine riesco anche a riderci su senza problemi!). In fondo basta davvero poco per smussare quelle resistenze che ciascuno di noi ha e che finiscono però per sabotarci se qualcuno non ci aiuta, se non ce ne allontana per farcele vedere più piccole.
Potrei scrivere ancora ma non vorrei annoiarvi, dopo un po’ il calo dell’attenzione è fisiologico, si sa! Ma vorrei concludere quanto ho scritto dicendo una cosa che per me è importante: grazie! Grazie alla Dilit, a Christopher e Susanna che sono stati i miei formatori ma anche a tutti gli insegnanti Dilit che ho conosciuto durante la formazione. Osservare insegnanti e studenti è stata per me una grandissima e preziosa fonte dalla quale poter imparare direttamente sul campo, lontana dalla teorie e direttamente immersa lì dove tutto accade, e questa è un’esperienza che mi ha arricchita tantissimo e che porterò sempre dentro di me. Poi vorrei ringraziare tutti quelli che fanno questo lavoro e che quando incontro è sempre piacevole conoscere, siamo persone felici perché facciamo un bel lavoro, un lavoro che più lo facciamo e più ci arricchisce culturalmente e umanamente. Io personalmente adoro farmi raccontare dagli studenti il loro mondo, le loro tradizioni, il loro quotidiano e dato che adoro anche cucinare… non li lascio mai andare via senza che mi abbiano passato una qualche ricetta che poi ovviamente provo!
E dulcis in fundo e a proposito di cucina…. Voglio ringraziare anche Bice Ugo Erica e Mara… la vostra bontà e bellezza (oltre alle indubbie e superbe doti culinarie di tutti voi) hanno reso il mio periodo alla Dilit ancora più prezioso, è stato come sentirsi a casa e sotto sotto credo che anche voi, col vostro modo di essere, siate parte del successo nel processo di apprendimento degli studenti, in fondo con voi gli studenti possono da subito utilizzare la lingua in maniera comunicativa ed è bello che la prima volta che uno studente osi ordinare un caffè in italiano si ritrovi davanti i vostri volti sorridenti! E infine grazie allo staff, al direttore e alla mitica Adriana… grande ragazza dal cuore immenso!
E l’ultimo grazie, scusate se oso, lo dedico a me stessa! Perché decidendo di intraprendere questo lavoro mi sono fatta il regalo più bello!
P.S. È passato più o meno un anno e qualche mese da quando avevo scritto questo articolo, ieri quando Susanna mi ha scritto chiedendomi se avessi ancora intenzione di pubblicarlo, la mia gioia è stata tanta, ma avevo prima voglia di rileggerlo, di rileggermi. Tante cose sono successe in questo anno a tutti noi. Non dirò degli altri, ma di me una cosa devo dirla. Nel frattempo sono finita nella scuola pubblica. Sono approdata a quel terreno al quale l’università non mi aveva preparata, a quell’arena dove spesso viene sollevata tanta polvere, così tanta che è difficile, a volte, non perdersi di vista. Ma alla fine ho capito, ho capito che la Dilit non è le sue attività (non solo almeno), la Dilit è un’idea o un’insieme di idee, se vogliamo, e averle vissute fa di me una persona fortunata, mi renderà un’insegnante migliore man mano che gli anni passeranno e che gli studenti entreranno nella mia vita. Ho già iniziato a proporre alcune attività ai ragazzi, che le hanno accolte con entusiasmo, perché l’apprendimento è sicuramente qualcosa che entusiasma me e quindi è questo che ho intenzione di trasmettere, non solo quel puro distillato di nozioni che rischiano di divenire solo un ammasso di inutile ingombro per il loro cervello. E ho capito un’altra cosa fondamentale: l’elasticità. E l’ho capita ieri alla fine della mia terzultima lezione per quest’anno scolastico. La classe è elastica, e non sarà mai uguale a se stessa, non lo saranno i ragazzi e non lo sarò io. Questa è la cosa che posso augurare a me stessa, che posso essere grata di aver imparato. E non so se tornerò mai a insegnare Italiano a Stranieri, non so questo come non so tantissime altre cose, la vita ci ha insegnato a perdere troppe cose che pensavamo di non dover perdere. Quel che è certo è che non aspetterò di avere la classe giusta davanti a me per essere l’insegnante giusta, sarò semplicemente me stessa in ogni cosa che farò. Ma una cosa voglio aggiungerla: tutti si meritano un insegnante Dilit! E spero che quel che siamo, facciamo e sentiamo, contamini sempre più persone che fanno il nostro stesso lavoro. Perché l’essenziale non è correggere… ma migliorare!