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La correzione degli errori

Durante gli ultimi anni mi capita abbastanza spesso di sentire o di leggere argomentazioni a favore della correzione degli errori. Sebbene una parte di coloro che si esprimono in questo senso siano persone che non hanno mai accettato (o, peggio, non le hanno mai ascoltate!) le proposte della “rivoluzione” comunicativa avvenuta a metà degli anni settanta, un’altra parte di loro avverte la necessità di aggiustare un po’ il tiro, senza voler abbandonare ciò che c’è di positivo nell’insegnamento comunicativo. È a questi ultimi che vorrei rispondere.

Innanzitutto, bisogna riconoscere che di approcci comunicativi non ce n’è uno solo: ce ne sono molti. Fra questi ce ne sarebbe uno in cui l’insegnante non cura mai la correttezza. Il condizionale è d’obbligo perché personalmente non ho mai conosciuto un insegnante che pratica tale approccio. E nel mio lavoro incontro non pochi insegnanti di lingua! Ho il sospetto che sia un mito. Non basta citare proposte di tipo krasheniane per credere che tale approccio esista. Io credo che il contributo di teorici come Krashen sia servito a diminuire l’ossessione per la correttezza che senz’altro caratterizzava la maggior parte dell’insegnamento linguistico fino a 20 anni fa. Da qui a sostenere che un buon numero di insegnanti abbiano abbandonato l’interesse per la correttezza denota, secondo me, una scarsità di conoscenza dell'”anima” dell’insegnante.

Detto ciò, quale può essere un modo per inquadrare la questione? A mio avviso manca alla teorizzazione dell’insegnamento linguistico la percezione che in classe sono in gioco due diversi sistemi: la lingua italiana (parliamo dell’insegnamento dell’italiano) e l’interlingua dello studente (quest’ultima moltiplicata per il numero di studenti in classe). Per illustrare ciò che intendo prendiamo una attività di ascolto. Ciò che si sente al registratore è la lingua italiana, ciò che si sente mentre due studenti si stanno scambiando pareri su ciò che è stato detto nella registrazione sono le due interlingue degli studenti. Riporto qualche esempio tratto dai nostri dati:

Registrazione: mio padre è nato a Palermo.
Studente: suo padre è nato in Palermo.

Registrazione: non ho nemmeno un goccio di sangue romano.
Studente: ha detto non ha neanche un droppo di sanguine romano.

Registrazione: erano tutti – la famiglia – di origine probabilmente piemontese, savoiarda: quell’area lì.
Studente: i suoi genitori non sono veramente di italiano.

E poi altre cose che gli studenti si dicono discutendo questa registrazione:

Sangue romano fruisce adesso perché suo padre sposato con sua madre. Allora stranieri.

Quando tu hai passato il Brennero tu vai attraversare Alto Adige direzione Firenze. Ma lei ha detto di Trieste. Trieste è più di l’est.

Lei gli domandato: …

C’è un parte, un regione d’Italia, a nord. Piemonte.

Ma che relazione c’è tra sua madre e un parte piemontana?

Non so che cosa c’è con la fratello.

Lui ha detto sua madre ha anche un fratello e sorella.

Lui ha detto c’è meglio di stare durante l’inverno.

Che cosa c’è con la sorella di sua madre? Lei non è bene in la situazione di corpore, di salutazi.

Situazione di corpore non è bene. Lui ha detto ci fa male adesso la sorella di sua madre.

Noi “comunicativi” abbiamo detto spesso che le due condizioni necessarie per lo sviluppo dell’interlingua sono un ricco e abbondante input e la frequente possibilità di mettere alla prova la propria capacità di esprimersi. E abbiamo ragione! Gli studenti citati sopra hanno ascoltato con voglia sei volte la registrazione confrontandosi dopo ogni volta su ciò che credevano di aver capito. Con la visione della videoregistrazione della lezione intera è facile notare come la registrazione audio, la lingua italiana, “contagia” a poco a poco il loro modo di parlare. Per esempio “sangue” rimpiazza “sanguine”, “a [città]” rimpiazza “in [città]”, ecc..

Le due condizioni sono dunque necessarie, ma sono sufficienti? Io, insieme a coloro ai quali ho detto di volere rispondere, pensiamo di no. Un esempio può bastare: gli studenti sopra citati non hanno mai usato “che” per introdurre il discorso indiretto, né all’inizio, né alla fine dei sei ascolti. E se il loro percorso di studio si limitasse soltanto a questo genere di esercizio l’esigenza dell’uso del “che” sopra citato potrebbe non presentarsi mai. Si capiscono l’un l’altro perfettamente, aggiungere “che” non gli serve per essere più chiari e non gli serve per guadagnarsi la stima del compagno. Potrebbero arrivare ad una grande scorrevolezza e ad una forte espressività senza mai usarlo. Si potrebbe dire che è un elemento inutile. (Tanto è vero che in inglese non si usa quasi più!) Però gli italiani lo usano. Fa parte della grammatica italiana. Questi studenti stanno studiando la lingua italiana. Fino a prova contraria vogliono continuare a rendere il loro modo di parlare sempre più simile a come parlano gli italiani. E l’insegnante deve aiutarli a farlo.

Ci vogliono quindi dei momenti in classe in cui ci si occupa della grammatica. E fin qui siamo d’accordo. Non siamo d’accordo con coloro (tanti) che sostengono che alla fine di attività in cui c’è stato il libero uso dell’interlingua l’insegnante deve presentare alla classe alcuni “errori” ricorrenti che ha sentito e li deve correggere con l’aiuto della classe.

Chi propone questa modalità sostiene che non intacca l’amor proprio dello studente che ha sbagliato perché non viene rivelato il “peccatore”. Tale affermazione rivela, secondo me, un’ambiguità nell’insegnante. Ambiguità che condanna lo studente ad assumere un ruolo subordinato rispetto all’insegnante (o ad abbandonare il corso!). Se invece l’insegnante riconosce allo studente lo status di ricercatore non gli può venire in testa che qualcuno potrebbe vergognarsi di un errore. Non gli può venire in mente che deve “proteggere” lo studente da possibili crisi di amor proprio.

La vera funziona di far parlare liberamente in classe è mettere sotto stress l’interlingua, far sentire la tensione fra ciò che si vuole dire e ciò che si riesce a dire, spronare lo studente a lottare con la sua interlingua per farle fare cose che fino a ieri non sapeva fare (e sembrava che non avrebbe saputo fare). È questa lotta stessa che fa complessificare l’interlingua. Il compito dell’insegnante è far sì che la voglia dello studente di comunicare e negoziare significati sempre più complessi sia alta. E basta. Se manda messaggi ambigui tipo “Siate liberi ma attenzione agli sbagli” avrà studenti che sfrutteranno poco la libertà, semplicemente perché sanno che la seconda consegna “attenzione agli sbagli” condiziona tutta l’attività.

Quand’è allora il momento per occuparsi della grammatica? A mio avviso quando si studia la lingua italiana, non quando si sta cercando di sviluppare l’interlingua. Prendiamo, per esempio, una Lettura analitica. Gli studenti hanno il compito di trovare in un testo scritto (in italiano), che hanno già letto in una lezione precedente, tutti gli esempi del passato prossimo e tutti gli esempi dell’imperfetto e devono formulare la regola su quando si usa l’uno e quando si usa l’altro. Fatto bene, è un lavoro che può durare almeno 45 minuti. Fatto bene significa che l’insegnante riesce ad “affidare” i diversi compiti, cioè sa tenersi in disparte, riesce a scandire le varie fasi del lavoro, riesce ad applicare il principio del lavoro individuale seguito da fasi di consultazione fra pari grado (in coppie, che poi vengono modificate per ulteriori consultazioni), prima di intervenire lui stesso. Tale intervento deve essere “reattivo” nel senso che risponde a domande piuttosto che correggere il tutto. Alla domanda: “È morto” è un esempio di passato prossimo? l’insegnante deve dare la risposta giusta. Sarebbe assurdo pensare di “proteggere lo studente da una crisi di amor proprio” dando una risposta “impersonale”. Lo studente, nel suo ruolo di ricercatore, ha bisogno, in assoluta trasparenza, di conferme o smentite riguardo alle sue ipotesi/scoperte.

Riassumiamo. Quando si fa studiare la lingua italiana (p.es. Ricostruzione di conversazionePuzzle linguisticoAscolto analitico morfosintatticoEsercizio controllatoGioco controllato, ecc.) bisogna essere rigorosi e pretendere la correttezza assoluta. Quando si sta utilizzando, invece, l’interlingua, è meglio che non ci sia nessun intervento sulla forma a meno che non sia lo studente stesso a farlo (p. es. in attività di Revisione). Con un approccio del genere si ottiene più energia da parte dello studente e maggior sfruttamento di entrambi i tipi di attività.