Due riflessioni sulla Lettura analitica morfosintattica e qualche consiglio pratico
Roberto Aiello, nell’articolo precedente, ha spiegato bene questo nuovo modo di fare grammatica. Però, una domanda è d’obbligo: perché cambiare? Sono decenni, forse anche secoli, che il modo classico di fare grammatica funziona molto bene. La risposta, io credo, è che il modo di fare grammatica discende dal perché lo si fa. Tutti gli esperti , fino a 50 anni fa (e qualcuno ancora oggi), ci dicevano che la lingua era costituita da strutture sintattiche, in numero limitato (intorno a 800-900?), le quali andavano imparate una dopo l’altra, in ordine di complessità. Si diceva che quando la classe aveva completato l’elenco, aveva imparato la lingua.
Con una visione del genere non era irragionevole per gli insegnanti supporre che per far sì che le 800 e rotte strutture venissero imparate, era necessario insegnarle. Quindi il motivo per cui si insegnava una regola era far sì che venisse imparata.
Oggi non siamo così ingenui. Durante gli ultimi 50 anni gli esperti hanno scoperto altre regole grammaticali. Tantissime. Ho davanti a me una grammatica della lingua italiana, quella di Serianni: 650 pagine. La University of Information Technology and Services in Bangalore, India, ha in progetto la redazione di una grammatica della lingua inglese. Si prevedono più di 2000 pagine. Più andiamo avanti più regole di grammatica si scoprono.
Insomma l’idea che “l’unico modo per imparare una regola grammaticale è che un insegnante te la insegni” non funziona più. Non c’è tempo. Ci sono troppe regole.
Allora, se non è per insegnare la regola, a che serve fare grammatica in classe? Secondo noi, per lo stesso motivo per cui facciamo altre attività in classe: per far sì che lo studente diventi più bravo a farle. Se lo studente si esercita a parlare liberamente diventerà più bravo a parlare liberamente. Se passa del tempo a cercare di capire ascoltando diventerà più bravo a capire il parlato. Eccetera. Tutto qui. Riconosciamo la capacità di fare grammatica come un’abilità e, come le altre abilità, anche questa si sviluppa con l’uso.
L’altro motivo per il quale non potevamo continuare a fare grammatica nel modo classico è che, nonostante le convinzioni – espresse o implicite – di gran parte delle autorità che impongono programmi più o meno uniformi per tutti, se osserviamo attentamente gli studenti, constatiamo che all’inizio della lezione la conoscenza riguardo al tema grammaticale oggetto della lezione è diversa da studente a studente. Nel senso che le convinzioni degli studenti possono variare da “non ne so niente” a “l’abbiamo già fatto quindi io, che sono sempre attento, lo so bene”. Ad una osservazione più attenta, però, le convinzioni sopradescritte risulteranno entrambe inesatte (così come per tutte le convinzioni intermedie). Anche lo studente che “non sa niente”, per esempio, se si troverà a poter usare la propria intuizione, scoprirà che essa non è insensata quanto gli sembrava. E lo studente che pensa di sapere tutto si troverà a dover rivedere alcuni aspetti di un sapere troppo “ricevuto”.
Quindi per fare grammatica basta adottare lo schema Lettura Analitica Morfosintattica come descritto da Roberto Aiello nell’articolo precedente e dopo pochissime lezioni ci troveremo davanti studenti che si comportano sempre più come veri e propri ricercatori?
Eh no! Purtroppo non basta! Il modello può facilmente perdere efficacia se non si bada ai dettagli. Ricordate che l’obiettivo è “cambiare lo status dello studente”. Status rispetto a chi? Rispetto agli altri studenti? No, rispetto all’autorità: all’insegnante. Se l’insegnante non cambia il suo di status, il cambiamento di status dello studente non può aver luogo. Dobbiamo portare l’attenzione al comportamento dell’insegnante: ogni microcomportamento dell’insegnante manda segnali allo studente riguardo allo status che è previsto per lui.
I sette errori
Immaginiamo l’avvio di una Lettura analitica morfosintattica. L’insegnante, rispettando i principi della semplicità e della chiarezza, dà la prima consegna. Per esempio, l’insegnante dice alla classe: “sottolineate tutte le preposizioni” e scrive alla lavagna “preposizioni”.
Il primo errore tipico a questo punto della lezione è:
1. l’insegnante ripete la consegna.
Mi direte che è un comportamento normalissimo attuato di routine da tutti gli insegnanti; che serve nell’eventualità che gli studenti non abbiano sentito; che si tratta del comportamento di un insegnante “buono”. A mio avviso, però, questo insegnante “buono” non sta trattando lo studente come un ricercatore. Dovrebbe sapere che un ricercatore, se ha bisogno di risentire ciò che gli è stato detto, chiederà lui la ripetizione.
Il secondo errore tipico, commesso nello stesso momento della lezione, è:
2. l’insegnante chiede se hanno capito.
Ci risiamo! Questo insegnante così buono, così premuroso, non convincerà mai lo studente che lo vede come un ricercatore.
Il terzo errore tipico, sempre al momento della prima consegna, è:
3. l’insegnante chiede se hanno delle domande riguardo alla consegna.
Ad un ricercatore non si chiede se ha delle domande riguardo alla consegna: sarà lui a porle se ne sente il bisogno, senza aspettare l’autorizzazione da parte della “mamma”.
Insomma, la proposta sul tavolo non è una piccola variante, una piccola aggiunta al repertorio di attività da svolgere in classe. L’innalzamento dello status dello studente a quello di ricercatore non si ottiene senza occuparsi delle convinzioni profonde dell’insegnante. Sono queste convinzioni profonde che determinano il comportamento dell’insegnante. L’insegnante che ripete la consegna o chiede agli studenti se hanno capito la consegna non crede fino in fondo che questi siano capaci di essere ricercatori.
Qual è il comportamento appropriato, allora, dopo aver dato la consegna? Andare a sedersi in disparte. La prima volta che lo fai ci vuole coraggio e autodisciplina. Niente di più normale essere preoccupati; essere afflitti di dubbi sulla correttezza del proprio comportamento. “Non sono sicuro che abbiano capito ciò che devono fare”. “Tocca a me verificare”. Ecco che è entrato dalla finestra ciò che si pensava aver cacciato dalla porta: “tocca a me verificare”. No: non tocca a te: tocca allo studente. Perché? Perché se non lo vedi tu come ricercatore come potrebbe lui percepirsi tale? Se riesci a dimostrarti coerente, sedendoti in disparte come vuole il copione, succede una cosa apparentemente insignificante, ma che in realtà ha una grande importanza.
Lo studente che non è stato attento al momento della consegna dovrà ora prendere una delle seguenti decisioni:
- aspettare nella speranza che l’insegnante, vedendolo inattivo, si ripeta;
- chiedere ad un compagno; o
- chiedere all’insegnante.
Solo nel terzo caso l’insegnante ripeterà la consegna. Che differenza fa rispetta al comportamento “normale”? obietterà qualcuno. Tutta la differenza del mondo: in questo caso la ripetizione della consegna è stata richiesta dallo studente. Ha preso una decisione, sta cominciando a comportarsi come un ricercatore.
Il secondo momento in cui il progetto di promuovere gli studenti allo status di ricercatori può fallire è quando l’insegnante, avendo giustamente scritto alla lavagna “preposizioni”, pensa che forse non sappiano bene bene che cosa sia una preposizione e quindi
4. decide di dare degli esempi.
Invece chi vede lo studente come ricercatore lascia a quest’ultimo la facoltà di decidere se ha bisogno di spiegazioni o meno. Se sì, chiederà all’insegnante.
In questo caso l’insegnante coerente con il progetto di promuovere lo studente allo status di ricercatore risponderà, sì, alla richiesta, ma si limiterà ad indicare il primo esempio nel testo. Nient’altro. Con questo esempio lo studente riceve due informazioni: 1) un esempio, 2) numerosi esempi negativi (cioè tutte le parole del testo che precedono il primo esempio). Con queste due informazioni è in grado di formulare una prima bozza di definizione di ciò che costituisce una preposizione. E con questa bozza di definizione è in grado di svolgere – anche se in modo approssimativo – la consegna. Più in là, quando confronterà il suo lavoro con un compagno (e poi con altri), sarà lui stesso a giudicare quanto e se la sua prima bozza vada modificata.
Il fatto che l’insegnante si sieda in disparte è per segnalare simbolicamente che ha affidato un compito di ricerca alla classe. La sua posizione significa che ha fiducia nelle capacità degli studenti-ricercatori di farcela. Se uno studente chiama l’insegnante, quest’ultimo fa bene ad andare da lui e dimostrarsi disponibile perché ci possono essere tanti motivi per averlo chiamato (che vanno dalla richiesta di andare al bagno alla richiesta di chiudere la finestra passando per l’espressione di un malessere, ecc.) ma diventa un errore se
5. l’insegnante risponde anche quando lo studente chiede se “xxx” è una preposizione.
L’insegnante coerente con il progetto di promuovere lo studente allo status di ricercatore, infatti, non dà la risposta. Che fa, allora? Può, per esempio, sorridere, dirgli che questo è compito suo e tornarsene subito al suo posto. Come abbiamo detto, ci vuole coraggio e autodisciplina!
Un altro momento in cui il progetto di promuovere gli studenti allo status di ricercatori può fallire è alla fine della lezione. Un ricercatore è efficace proprio perché è consapevole di non avere mai in mano tutta la verità; sa che il suo sapere è provvisorio, è incompleto, è migliorabile. È proprio questa mentalità che lo rende più veloce nel riconoscere eventuali prove contrarie che portino a migliorare le sue ipotesi. L’errore tipico a questo punto della lezione è che
6. l’insegnante, sentendosi in colpa nel mandare via lo studente senza una visione completa dell’area di sapere sotto esame, avvii una fase di “verifica”.
Cioè, per esempio, raccogliendo e scrivendo alla lavagna tutti gli elementi trovati, magari classificati per tipo, creando un bello schema ordinato con tanto di righe e colonne, e rivelando poi i pochi sbagliati.
Con un solo colpo questo insegnante azzera tutto il paziente lavoro fatto prima per aiutare lo studente a vedersi ricercatore e a cominciare a prenderci gusto nel sentirsi gestore del suo crescente sapere. Il modo più appropriato di concludere l’attività invece è di interromperla durante il suo svolgimento, informare la classe che il tempo è finito e che c’è giusto il tempo per rispondere a pochissime domande.Anche qui l’insegnante può rovinare tutto lanciandosi in dotte e sovrabbondanti spiegazioni, nella speranza di fornire allo studente ciò che egli (l’insegnante) pensa che lo studente debba sapere.
Dovrebbe invece limitarsi a rispondere alle domande. Evitando di perdere ancora una volta l’occasione di lasciare che sia lo studente-ricercatore a decidere se vuole ulteriori informazioni o meno.