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Risposta di Rita Luzi Catizone alla lettera aperta

Lettera aperta al Bollettino Dilit
A proposito degli esempi di “Costruzione di conversazione” [leggi
Ricostruzione di conversazione, Ndr] riportati nel Comunicare meglio*, con la ricerca eccessiva dell’autenticità non si corre forse il rischio di insegnare brani di lingua che appartengono esclusivamente al bagaglio linguistico del parlante? Quanto, cioè, è legittimo rendere trasmissibile, e quindi tradurre in materia di insegnamento, ciò che appartiene a un solo individuo? Esperienze, emozioni, stati d’animo, ecc., nelle forme che li esprimono, non sono forse un patrimonio linguistico così personale da non trovare necessariamente un corrispettivo interesse in chi deve fare “esperienza” di forme linguistiche “plurali”, forse anche “anonime”, per poter scegliere quali usare in modo personale? E, in generale, come è possibile selezionare i brani da insegnare? L’autenticità è sufficiente a garantire la scelta?
Il criterio di chi sceglie il brano da insegnare non comporta forse il rischio di un appiattimento selettivo nella scelta dovuto a quei linguaggi che più si avvicinano alle forme linguistiche correntemente praticate dall’insegnante?
Quanto, insomma, la familiarità con alcune forme linguistiche correntemente praticate dall’insegnante pesa nella scelta dei brani “autentici”?
Maurizio Gargano 
* Humphris, C., Luzi Catizone, R., Urbani, S. 1985 Comunicare meglio, Corso di italiano per stranieri – livello intermedio, Roma, Bonacci Editore

Risposta di Rita Luzi Catizone

Quando circa 17 anni fa cominciai a insegnare l’italiano a stranieri mi sembrò doveroso controllare il mio modo di parlare e correggermi laddove il mio linguaggio lasciava intuire la mia origine marchigiana. Per un insegnante di lingua non era corretto, non era professionale avere un accento. Tendevo quindi a raggiungere un linguaggio senza cadenze, “asettico” per così dire, ed ero anche abbastanza soddisfatta di me quando dopo qualche tempo qualcuno mi ha detto “Ma lei non è italiana?”, “Sì, perché?”, “Perché parla troppo bene italiano per essere italiana”.

Ci ho messo un po’ di tempo per capire che quello non era un complimento.

Oggi condivido pienamente ciò che A.L. Lepschy e G. Lepschy scrivono nel loro libro La lingua italiana: “…è più realistico parlare di varietà, locali e settoriali, dell’italiano che non di un preteso modello, che non solo non esiste di fatto, nell’uso reale, ma non è neppure un ideale a cui i parlanti delle varietà esistenti cerchino di adeguarsi [a parte giovani insegnanti dannosamente zelanti, Ndr]. Le varietà locali non sono forme in qualche modo inferiori, che vivano, per così dire, all’ombra di un modello nazionale; esse sono invece ciò di cui l’italiano consiste”.

Con questo presupposto, dovendo fare un libro di testo per l’insegnamento dell’italiano a stranieri, mi è sembrato coerente presentare agli studenti un numero di esempi il più possibile vasto di varietà dell’italiano.

Comunicare meglio contiene 24 lezioni in cui la lingua orale viene presentata non solo attraverso le attività di Ricostruzione di conversazione, ma anche attraverso tutti gli ascolti analitici di vario genere, morfosintattico, fonologico, semantico, funzionale, ecc., e dove si “traduce in materia di insegnamento” non “ciò che appartiene ad un solo individuo” ma ciò che appartiene al bagaglio linguistico di ben 34 persone di ceto medio colto provenienti da 15 differenti regioni italiane.

Mi pare che in 24 lezioni il materiale linguistico di cui lo studente fa esperienza sia veramente molto, visto anche che stiamo considerando solo la lingua orale. Mi pare inoltre che lo studente abbia la possibilità di scegliere, in tanto materiale, le forme più idonee all’espressione della sua propria personalità, delle sue emozioni, della sua affettività. Non capisco quali potrebbero essere le forme linguistiche “plurali” e “anonime” che faciliterebbero lo studente. Parliamo forse di quelle forme linguistiche grammaticalmente corrette, presenti in tutti i testi tradizionali, le quali non si sa da chi, in quale situazione e con quale stato d’animo vengono dette? Credo che nessuno userebbe frasi “anonime” nell’espressione di sé. Lo studente ha certamente un modo personale di comunicare, ma ce l’ha nella sua lingua. Esiste un modo italiano di dare peso, colore, senso, sfumature, ad una frase “anonima” e questo modo va insegnato.

Per quanto riguarda la scelta dei brani di discorso da sottoporre agli studenti i criteri usati sono diversi: la pertinenza o l’interesse culturale dell’argomento trattato, la vivacità, la presenza di forme linguistiche di elevata utilità, certamente la presenza di forme linguistiche correntemente praticate da me e dai miei due colleghi Stefano Urbani e Christopher Humphris, ma i brani scelti contengono anche forme linguistiche per niente frequenti nel mio modo di parlare e di quello dei miei due colleghi. Insomma, non abbiamo affatto privilegiato un tipo di linguaggio anziché un altro con il criterio della familiarità.