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A cosa serve insegnare una lingua? Qualche riflessione a partire da Volare

Ricerca e didattica

In questa relazione non intendo proporre qualche nuovo modo di insegnare le lingue, ma vorrei piuttosto invitare a riflettere su come esse vengono insegnate. Sono infatti d’accordo con Prabhu (1990) quando sostiene che l’utilità delle ricerche e delle teorie sulla seconda lingua per chi insegna non consista nel suggerire il metodo migliore, ma nel contribuire a creare un “senso di plausibilità” verso ciò che uno fa nella pratica di classe quotidiana. In altri termini, un buon insegnante non è quello che applica un “buon metodo” (che, in astratto, non esiste), ma quello che nell’applicare il suo metodo lo trova plausibile, perché è in grado di riflettere su come e perché funziona, su quali sono i suoi punti di forza e le sue debolezze, quali sono gli obiettivi e i mezzi per raggiungerli, insomma sa cosa sta facendo e perché.

Vorrei che le riflessioni che presenterò nelle prossime pagine venissero intese in questo modo: si tratta di una serie di risultati empirici e costruzioni teoriche che possono contribuire a rendere più plausibili alcune pratiche di classe, inclusa la costruzione di un libro di testo. Si potrà obiettare che si tratta di dati provenienti da ricerche che non si svolgono mai o quasi mai nelle classi di lingue. È vero. Parlerò di apprendenti che hanno imparato l’italiano ‘per la strada’ e sono stati poi intervistati da ricercatori universitari, di esperimenti svolti in laboratorio, di teorie costruite da psicologi e linguisti che forse non hanno mai insegnato neanche per un’ora una lingua straniera. Eppure credo che si tratti di dati rilevanti per chi opera in classe, che li potrà utilizzare liberamente per le sue riflessioni, senza sentirsene in alcun modo condizionato. È lo stesso rapporto che esiste tra un libro di ricette di cucina e un trattato sulla chimica degli alimenti.

Molti miei colleghi usano la parola ‘ricette’ con disprezzo: ‘noi non diamo ricette, non chiedeteci ricette’ e così via. Io invece non ho nulla contro le ricette: sono anzi un appassionato lettore di ricette di cucina. Ma a un buon cuoco non serve solo sapere che l’arrosto deve cuocere prima a fuoco vivo e poi a fuoco dolce, ma anche perché: gli serve quindi una qualche idea di come la composizione chimica della carne si trasforma a contatto col calore, di come è fatto un pezzo di carne e così via. I grandi autori della cucina classica, dall’Artusi a Escoffier, accompagnano alle loro ricette le spiegazioni necessarie per comprenderne il funzionamento, in modo che ognuno possa poi applicare i principi generali per creare le sue ricette. La chimica in sé non ti dice come cuocere l’arrosto, ma è utile per cuocerlo meglio. Lo stesso vale per le ricerche sulla seconda lingua: non ti dicono immediatamente cosa fare in classe, ma sono utili per riflettere su quello che fai e per provare a cambiare qualcosa con cognizione di causa.

Ma a cosa serve una scuola di lingue?

Gli studenti che frequentano i corsi Dilit a Roma sono già in Italia, sono circondati dalla lingua italiana, hanno l’opportunità di usarla in centinaia di incontri ogni giorno: le occasioni di apprendimento non gli mancano. Allora perché decidono di iscriversi a una scuola di lingue? Domanda banale, a cui può seguire la risposta ugualmente banale: perché credono di imparare meglio (cioè di più, più in fretta, più facilmente). Ma qui sorge una domanda meno ovvia: perché in una scuola si dovrebbe imparare meglio che per la strada? Cosa mi dà in più la scuola? Si noti che queste domande valgono anche per chi insegna l’italiano all’estero: è vero che gli studenti non hanno intorno a sé tutte quelle occasioni di usare l’italiano, però l’insegnante può chiedersi se il suo compito è esclusivamente quello di ricreare una ‘strada italiana’, con tante occasioni d’uso della L2, o se oltre a questo può dare qualcosa di più e di diverso.

Per rispondere a queste domande torniamo agli studenti Dilit di Roma. È chiaro che la scuola non fa altro che dare un contributo ai loro processi di acquisizione spontanea dell’italiano, che hanno luogo anche nelle ore extrascolastiche. In altri termini, gli studenti imparano l’italiano anche da soli (in proporzioni diverse a seconda dei livelli, degli atteggiamenti e delle preferenze di ciascuno). Ma anche nelle classi di lingua straniera all’estero l’apprendimento avviene a partire da processi spontanei, naturali, e non è un semplice condizionamento dell’insegnante. Si ricordi che nella parola ‘apprendere’ c’è il verbo ‘prendere’: la lingua viene innanzitutto presa dagli studenti, e non tanto data dall’insegnante.

Dobbiamo quindi partire dai processi naturali grazie ai quali le persone imparano le lingue. Insegnare una lingua significa infatti aiutare qualcuno a ‘prenderla’, nel modo migliore e più facile possibile. I processi naturali messi in atto da ogni apprendente consistono nell’osservare la L2, identificare degli aspetti che paiono salienti e utili, cercare di comprenderne il funzionamento, cercare di memorizzarli e infine provare a usarli. Per esemplificare con una struttura come il participio passato, un processo naturale di apprendimento potrebbe essere il seguente (cercando di ripercorrere i pensieri di un apprendente, che ovviamente li formulerà nella sua lingua materna o che rimarranno forse in buona parte inconsci e inarticolati).

  1. Guarda un po’: ci sono tante parole che finiscono con -to: mangiato, imparato, detto, fatto, visto. (IDENTIFICARE LA STRUTTURA, accorgersi che esiste)
  2. Mi sembra che queste parole siano dei verbi. Mi sembra anche che quando hanno -to si parli del passato. (ANALIZZARE LA STRUTTURA, formulare ipotesi per comprenderne il significato e l’uso)
  3. Proviamo a fare qualche esperimento e usare questo -to: provo a dire ieri mangiato bene, no io fatto questo cosa. (UTILIZZARE LA STRUTTURA, vedere come reagiscono gli altri, mettere a punto le ipotesi)
  4. Mi sembra che funzioni. Anzi, adesso noto tanti verbi con questo -to, usati per esprimere il passato: finito, avuto, camminato, comprato. (VERIFICARE LE IPOTESI)
  5. Anch’io uso -to tante volte, ormai non è più necessario pensarci, viene quasi da solo (AUTOMATIZZARE LA STRUTTURA)
  6. Mi sembra però di notare che quando incontro una parola che finisce con – to ed esprime il passato, ci sia davanti sempre un verbo come avere essere. Mi sembra anche che quando si parla di una donna a volte si dice lei è arrivata. (RIMETTERE IN DISCUSSIONE LE IPOTESI, mettere a punto il sistema, ristrutturarlo).

Questa è una semplificazione, ma dà un’idea di come si imparano naturalisticamente le strutture della L2. La semplificazione consiste innanzitutto nel fatto che il participio passato entra in una configurazione verbale più complessa che è il passato prossimo: il nostro apprendente si accorgerà che queste parole con -to sono accompagnate da un ausiliare, che in certi casi invece che con -to finiscono con -ta o -ti, che prima del -to cambia la vocale tematica (mangiato, bevuto, capito). Queste scoperte si verificheranno insieme alla sequenza di processi illustrati in precedenza, per cui mentre si sta consolidando il pensiero che in italiano esiste -to e serve per esprimere il passato, starà contemporaneamente nascendo anche il dubbio che forse non si dice sempre -to, oppure che occorre premettere qualcosa al verbo e così via. Inoltre, mentre pensa ad acquisire il passato prossimo, l’apprendente starà anche allargando il suo repertorio lessicale, starà mettendo a punto il sistema degli accordi nominali, starà prestando attenzione alla coniugazione del presente e osservando tanti altri aspetti della lingua italiana.

Insomma, questi processi di scoperta, comprensione e automatizzazione di una struttura non avvengono in serie, una struttura dopo l’altra, ma normalmente in parallelo: imparare una lingua significa prestare attenzione a tante regole contemporaneamente, ciascuna delle quali si troverà a diversi livelli di analisi e produzione. Fatte queste premesse, lo schema precedente offre una rappresentazione schematica ma plausibile di ciascuno dei percorsi di scoperta.

Questi percorsi funzionano secondo alcuni principi molto generali della psicologia dell’apprendimento, e in particolare dell’apprendimento delle lingue. Vediamoli qui, riprendendo alcune considerazioni di B. MacLaughlin (1987, 1990), uno psicolinguista che si occupa di acquisizione delle lingue seconde. Il modello di apprendimento proposto da McLaughlin può essere sintetizzato nei quattro punti seguenti.

1) Le capacità di attenzione sono limitate: si può rivolgere la propria attenzione solo a pochi aspetti della situazione comunicativa allo stesso tempo, i rimanenti rimangono alla periferia del campo attentivo. Ad esempio, se si presta attenzione al contenuto comunicato certi aspetti della forma linguistica potranno passare inosservati; se invece ci si concentra sulla forma, sarà più difficile seguire il contenuto di ciò che si dice o si ascolta.

2) Il linguaggio è un’abilità cognitiva complessa. Parlare implica l’attivazione simultanea e l’integrazione di molte sotto-procedure: tutte le volte che pronunciamo una frase coordiniamo simultaneamente a) il sistema concettuale, per la scelta delle idee; b) il sistema grammaticale, per ordinare le unità linguistiche in sequenze lineari che rispettino le regole della grammatica; c) il movimento degli organi fonatori, per articolare i suoni. Il compito cognitivo “parlare” richiede dunque lo svolgimento simultaneo di vari tipi di sotto-compiti, a loro volta estremamente complessi, il tutto nello spazio di pochi secondi.

3) L’automatizzazione consiste nell’integrazione di varie sotto-procedure e deriva dall’uso ripetuto. I processi automatici richiedono meno attenzione di quelli non automatici. Quando iniziamo a guidare la macchina – un’altra attività cognitiva complessa – pensiamo a tutte le cose da fare una alla volta: non riusciamo a pensare alla frizione, all’acceleratore, al volante, allo specchietto retrovisore, nello stesso tempo; queste procedure, infatti, non sono automatizzate, così come non è automatizzata la macro-procedura del guidare. Diventando esperti, invece, l’integrazione di tutte le sotto-procedure è assai veloce e ci rimangono ancora risorse di attenzione per guardare il paesaggio, ascoltare la radio, discutere con qualcuno. Lo stesso avviene con l’apprendimento di una lingua straniera: all’inizio dedicheremo molta attenzione a ciascuna sotto-procedura, come la pronuncia dei suoni, l’ordinamento grammaticale, l’accordo, la scelta delle parole. Gradualmente, questi processi diverranno automatici e potremo parlare senza prestare particolare attenzione a ciò che stiamo facendo.

4) L’apprendimento si basa, oltre che sull’automatizzazione, sulla ristrutturazione. I mutamenti dell’interlingua non sono solo quantitativi (maggiore velocità), ma anche qualitativi (diverse rappresentazioni della L2, sempre più adeguate). Se l’apprendimento fosse solo una crescente automatizzazione, si finirebbe col pronunciare rapidamente e senza sforzo frasi che seguono le regole dell’interlingua di base, senza articoli, coniugazione verbale, accordo: si tratterebbe di un esito di fossilizzazione, in cui un sistema interlinguistico provvisorio diventa definitivo. Quello che accade quando tutto va bene, invece, è che le regole provvisorie dell’interlingua di base vengono sostituite da altre, più vicine a quelle della lingua d’arrivo, in un processo di continua ristrutturazione.

Il nostro apprendente nella sua scoperta del participio passato fa precisamente questo: prima dirige la sua attenzione verso la struttura, per identificarla. Poi cerca di produrla, ma ciò gli richiede ancora molta attenzione, trattandosi delle prime volte. Un po’ alla volta, il processo diventerà automatico, liberando risorse di attenzione per concentrarsi su altri aspetti della L2. Tuttavia, questa automatizzazione non impedirà che il sistema possa ristrutturarsi: ad esempio, la regola semplice ‘per fare il passato aggiungi -to’ diventerà qualcosa di assai più complesso, che terrà conto degli ausiliari, dell’accordo del participio col soggetto in certi casi, dei verbi irregolari e così via.

In tutta questa esposizione non abbiamo parlato di un insegnante: infatti, i processi esposti hanno luogo anche in chi apprende la lingua spontaneamente, senza maestri, libri, lezioni. Torniamo quindi alla domanda: ma a cosa serve una scuola? La scuola serve, semplicemente, ad agevolare questi processi di automatizzazione e ristrutturazione. Per fare ciò si può intervenire sull’input, sull’output e sulla conoscenza esplicita, secondo lo schema seguente (da Ellis 1998, modificato).

Figura 1

Nella parte inferiore della figura 1 viene mostrato il percorso di acquisizione, quale può verificarsi anche in assenza di interventi didattici (il riquadro racchiude processi che avvengono nella mente dell’apprendente). L’input ricevuto è solo in parte trattenuto nella memoria di servizio, diventando così intake, quella parte dell’input su cui l’apprendente compie qualche tipo di operazione cognitiva; altri aspetti dell’input non vengono invece nemmeno notati. L’intake è il materiale con cui viene formato e ristrutturato il sistema interlinguistico, grazie al quale è possibile produrre nuove frasi nella seconda lingua (output). La conoscenza esplicita della L2 può intervenire in questo processo a vari livelli. In primo luogo, può favorire l'”accorgersi” di certe strutture nell’input, facendo sì che queste entrino a far parte dell’intake. Poi, può fare “notare una differenza” tra queste strutture e quelle prodotte dal sistema interlinguistico: attraverso questo confronto cognitivo si avvia la ristrutturazione dell’interlingua in direzione della lingua d’arrivo. La conoscenza esplicita serve infine per “monitorare” le proprie frasi prima di produrle apertamente: uno potrebbe ad esempio controllare se una frase ancora a livello di “linguaggio interiore” risponda a certe regole apprese esplicitamente.

Se questo è il percorso dei dati linguistici – dall’input, al sistema interlinguistico, all’output – vediamo ora come vi si può agire mediante l’istruzione: nella figura 1 gli interventi didattici sono rappresentati con delle frecce tratteggiate.

Gli interventi didattici: il caso di Volare

Per discutere il ruolo degli interventi didattici nell’acquisizione della seconda lingua, prenderò come esempio alcune attività tratte dal libro Volare (Catizone, Humphris, Micarelli 1997 e sgg.), che hanno come obiettivo l’insegnamento del passato prossimo. Si tratta di una struttura relativamente facile (anche se vedremo che non è così facile e lineare come può apparire), che viene introdotta presto in quasi tutti i libri di testo. Nella mia analisi mi concentrerò esclusivamente sui volumi del corso, e non sui fascicoli complementari di esercizi.

In primo luogo, è possibile fornire un input speciale, arricchito, che favorisca la sua trasformazione in intake. Si tratta cioè di favorire quel processo cognitivo che è l'”accorgersi” (Schmidt 1990) delle strutture nell’input. In molti libri, così come in molte ricerche sperimentali (ad es. Doughty 1991, White 1998), questo accorgersi viene favorito mediante qualche forma di evidenziazione grafica: la struttura in esame viene rappresentata in grassetto, in corsivo, con sottolineature e colori che attraggano su di essa l’attenzione. Un altro modo in cui si può rendere l’input ‘speciale’ è quello di selezionare testi in cui la struttura che si vuole insegnare sia presente con una frequenza particolarmente alta: si parla in questi casi di “inondazione” (input flood, cfr. Trahey & White 1993; Williams & Evans 1998).

Non mi pare che Volare utilizzi molto questa modalità: quando si decide di attrarre l’attenzione degli allievi su una certa struttura, questa non riceve particolari forme di evidenziazione grafica. Forse si può notare qualche tentativo di inondazione, nel senso che i brani vengono scelti in modo da contenere la struttura un certo numero di volte. Tuttavia, trattandosi sempre di brani autentici, o comunque molto naturali, siamo lontani dai testi o dialoghi artificiali che si incontrano in molti libri di testo, il cui scopo sembra essere, ed è, quello di utilizzare quante più volte sia possibile in un certo numero di righe la struttura-bersaglio.

Per favorire l’accorgersi della struttura, in Volare si preferisce chiedere all’allievo di svolgere alcune attività, anche molto semplici da un punto di vista cognitivo, ma che richiedono sempre un certo livello di coinvolgimento attivo. Ad esempio, la prima volta in cui viene tematizzato l’argomento del passato prossimo, si chiede all’allievo di notare verbi al passato prossimo in una lettura e copiarli accanto al loro infinito (vol I, lez. 15, p. 107). Poco oltre, nella lezione 20 a pag. 137, si chiede di nuovo di notare i verbi al passato prossimo in una lettura. In entrambi i casi, si tratta di attività molto semplici, il cui scopo è essenzialmente quello di far rilevare agli allievi che in italiano esiste un determinato fenomeno grammaticale.

Passiamo ora al confronto cognitivo, vale a dire ai processi mentali mediante i quali gli apprendenti analizzano la L2, formulano ipotesi in base a ciò che hanno osservato e le mettono a confronto con le ipotesi precedenti su cui si basa il loro sistema interlinguistico. Anche qui l’istruzione può cercare di favorire e guidare questi processi naturali. In Volare, fin dalla lezione 19 del primo volume troviamo un’attività simile a proposito del passato prossimo: a pag. 130 si chiede di formulare ipotesi sull’accordo del participio e controllarle su una lettura che si trova nella pagina precedente. Qui è il libro di testo a sollecitare il discente a notare qualcosa di non ovvio e iniziare a sviluppare una sua conoscenza esplicita in materia. Per ora non importa che questa conoscenza esplicita sia ‘corretta’ ed esaustiva, nel senso in cui lo sono le spiegazioni che si incontrano nelle grammatiche (e che Volare fornisce alla fine del primo volume, nella sintesi grammaticale). L’importante è che lo studente inizi a fare le sue ipotesi, a costruire una sua grammatica.

Una simile strategia la troviamo anche in un’attività proposta molto più avanti, nel secondo volume, lezione 12, p. 85: viene chiesto di notare in una lettura le occorrenze di passato prossimo e imperfetto e formulare un’ipotesi sul loro uso. Qui si suppone che l’apprendente abbia già fatto progressi nell’analizzare e produrre il passato prossimo: ciò che gli si chiede ora è di comprenderne il significato, cioè il valore d’uso, all’interno di un sistema verbale complesso in cui si oppone ad altre forme, come l’imperfetto. Ma il principio rimane lo stesso: stimolare una riflessione che porti lo studente a costruire le sue ipotesi personali, prima che sia l’insegnante a esporgliele. L’approccio, quindi, è essenzialmente induttivo.

Nella figura 1 si vede che un altro modo in cui si possono aiutare gli apprendenti ad acquisire le regole della seconda lingua consiste nel far fare loro pratica delle strutture. Qui il repertorio di attività è smisurato e va dai più tradizionali esercizi strutturali alle attività più creative e ludiche proposte in Volare. Quali che siano le attività prescelte, il fine è sempre lo stesso: far utilizzare in modo controllato e sistematico certe strutture, in modo che l’apprendente possa focalizzare la sua attenzione su di esse un po’ per volta. Ricordiamoci infatti che le capacità di attenzione sono limitate: specie nelle prime fasi, si potrà cercare di usare la nuova regola solo in contesti definiti e abbastanza controllati, in modo da non dover pensare a tante cose allo stesso tempo.

Vediamo qualche esempio da Volare, sempre per quanto riguarda l’insegnamento del passato prossimo. La prima attività che richiede di fare pratica su questo tempo si trova nell’ultima lezione del primo volume, a pag. 138. Qui viene proposta una lettura, già affrontata nelle pagine precedenti, a cui sono stati tolti tutti i verbi: alcuni di essi devono essere coniugati al presente, altri al futuro, altri al passato prossimo. Il compito è facilitato: oltre a trattarsi di un brano familiare, vengono forniti tutti i verbi all’infinito e nell’ordine in cui devono essere inseriti; inoltre, tre diversi formati di tratteggio indicano quale tempo deve essere usato in ciascuno spazio vuoto. Tutte queste facilitazioni hanno lo scopo di lasciare che l’attenzione dello studente si concentri tutta su un aspetto, la coniugazione del verbo, non preoccupandosi di altre questioni come la scelta del tempo giusto o la ricerca della parola appropriata. Attività simili sono proposte anche nel corso del secondo volume (ad es. pag. 17 e 79).

Il secondo volume riprende il passato prossimo a varie riprese e con attività di difficoltà crescente. Ad esempio, nella seconda lezione, a pag. 21, si chiede di inserire solo gli ausiliari in una lettura già affrontata nelle pagine precedenti: anche qui si cerca di tenere sotto controllo la difficoltà, portando l’attenzione solo sull’aspetto degli ausiliari. Più complesso è l’esercizio che si trova a pag. 33, nella quarta lezione, in cui occorre riscrivere una lettera dal presente al passato. È vero che almeno il lessico e i contenuti sono già dati, ma i verbi devono essere coniugati per intero (non solo l’ausiliare o solo il participio). Qualche unità più avanti, nell’undicesima lezione, a pag. 81, troviamo un ascolto analitico: lo studente, mentre ascolta una registrazione, deve inserire i verbi al passato prossimo negli spazi di una lettura.

Solo nell’ultima unità del secondo volume, a pag. 142, si chiede di inserire i verbi al passato prossimo dopo i pronomi atoni, in costruzioni come Dove li hai presi? Anche qui si tratta di fare pratica sistematica di una regola particolare, quella che richiede l’accordo del participio quando il complemento è un pronome atono pre-verbale. È una regola complessa, che di solito viene appresa tardi: è quindi giusto chiedere agli studenti di rivolgervi la loro attenzione solo ora, quando hanno già notato, compreso e automatizzato diversi aspetti del passato prossimo.

Tutte queste che abbiamo visto sono attività piuttosto guidate, in cui si chiede all’allievo di dirigere tutta o buona parte della sua attenzione verso una certa regola alla volta. Sono quelle attività che in Volare vengono dette “analitiche” o “controllate”, in cui prevale l’attenzione verso la forma linguistica. Naturalmente è possibile far fare pratica della struttura anche in attività più “libere”, o “autentiche”, sempre per riprendere la terminologia di Volare. Ne troviamo un esempio nel secondo volume a pag. 115, in cui si chiede agli studenti di raccontare una storia accaduta durante la loro infanzia. In questo modo è chiaro che si richiede di utilizzare i tempi passati, ma l’attenzione non è tutta puntata sulla precisione formale, ma anche, e forse soprattutto, sull’efficacia comunicativa. È un fare pratica più impegnativo: le risorse di attenzione dovranno essere suddivise tra attenzione alla forma e attenzione al contenuto ed è naturale attendersi, in questo tipo di attività, un maggior numero di errori che in quelle più selettive e controllate. Se anche queste attività più libere vengono svolte senza commettere tanti errori, vuol dire che l’automatizzazione delle struttura è già abbastanza avanzata, essa cioè viene prodotta correttamente anche senza richiedere grandi sforzi di concentrazione. Si noti però che questo vale soprattutto per l’orale: nelle produzioni scritte, alcuni studenti più analitici e scrupolosi potranno curare sia forma che contenuto, ma in serie, un aspetto alla volta, e non in parallelo, come invece può fare chi ha veramente automatizzato la struttura. In altri termini, è solo una produzione libera orale che ci dà un’indicazione attendibile del grado di automatizzazione delle strutture grammaticali.

Nello schema di figura 1 compaiono anche altri due modi in cui l’istruzione può favorire l’apprendimento di determinate regole della L2. Il primo è fornire spiegazioni su come funziona la lingua. Volare ha, a questo proposito, una linea molto coerente: nessuna spiegazione all’interno delle lezioni, ma schemi grammaticali molto espliciti ed esaustivi alla fine di ciascun volume. Il secondo modo in cui l’insegnante può aiutare l’allievo a mettere a punto le regole della L2 è fornire correzioni o, meglio, feedback. Significa in pratica fornire un ‘responso’, che può essere positivo o negativo, sulle produzioni dello studente e quindi sulle sue ipotesi. È difficile verificare se un’ipotesi è corretta solo osservando l’input, mentre un’indicazione esplicita da parte dell’insegnante può essere di grande aiuto. Si prenda un esempio studiato in un esperimento di Trahey & White 1993: se gli studenti che hanno il francese o l’italiano come madrelingua producono frasi in inglese come He goes quickly into the kitchen, essi potranno notare che nell’input inglese frasi del genere non si trovano, ma sono piuttosto del tipo He quickly goes into the kitchen. Ma ‘assente’ non significa automaticamente ‘sbagliato’: gli apprendenti potrebbero pensare che le loro forme siano semplicemente insolite, ma non scorrette. Inoltre, è molto più difficile notare un’assenza, che non la presenza di una struttura nell’input. I risultati dell’esperimento sembrano suggerire proprio questo: gli apprenenti, pur ricevendo un’inondazione di frasi inglesi corrette contenenti la struttura Soggetto-Avverbio-Verbo, continuavano a compiere errori. Un successivo esperimento di Williams e Evans (1998) ha confrontato due gruppi: uno che riceveva solo l’inondazione di forme corrette, l’altro che riceveva anche delle correzioni ai propri errori; il secondo gruppo otteneva risultati migliori del primo.

Le attività analitiche e controllate servono? Sì, con qualche precisazione

La domanda che ha attraversato questa relazione è: le attività analitiche e controllate servono? Chi ha scritto Volare evidentemente pensa di sì, visto che circa metà del libro è dedicato a esse. Anche i risultati teorici e sperimentali più recenti paiono andare in questa direzione. È tuttavia circolato, soprattutto negli anni ’70 e ’80, quello che Larsen-Freeman chiama il “mega-mito”: dato che la ricerca mostra che è possibile apprendere una L2 in condizioni naturali assolutamente non guidate, allora queste sono le condizioni ideali per apprendere una L2; tutto ciò che non è ‘naturale’ (esercizi, spiegazioni, attività controllate), è inutile se non dannoso. Vale la pena riportare le parole di Larsen-Freeman per intero.

“Un mega-mito è assumere che ciò che funziona nell’acquisizione naturale delle lingue dovrebbe automaticamente diventare la pedagogia della classe. Definisco ciò la fallacia del riflesso, consistente nell’idea che l’insegnamento sia un riflesso involontario dell’acquisizione naturale tale per cui ciò che è presente nell’acquisizione naturale non guidata dovrebbe essere largamente presente nell’istruzione in classe e ciò che è assente nell’acquisizione naturale dovrebbe essere bandito dalla classe. L’obiettivo delle teorie sulla seconda lingua è di stabilire cosa è minimamente necessario perché si verifichi l’acquisizione, ma ciò che è minimamente necessario per l’acquisizione della seconda lingua al di fuori della classe [di lingue] non rappresenta automaticamente il modo più efficace di apprendere in classe. Si spera cioè che un insegnamento efficace possa accelerare i processi naturali o, come dice Widdowson, “l’istruzione si basa sul presupposto che la natura possa essere migliorata dall’artificio”. Eppure gli studiosi della seconda lingua talvolta hanno compiuto il passo non giustificato di prescrivere o proscrivere certe pratiche pedagogiche in base ai risultati degli studi sull’acquisizione non guidata. Come insegnante, non mi chiedo cosa sia minimamente necessario perché i miei studenti apprendano, ma cosa posso fare affinché il loro apprendimento risulti ottimale”. (Larsen-Freeman 1995, pp. 135-6)Se le considerazioni di Larsen-Freeman riguardano un piano più pedagogico, sono molti gli studi che hanno dimostrato sperimentalmente, sia in classe che in laboratorio, l’utilità di attività che attirano l’attenzione degli studenti sulle forme linguistiche per favorirne l’apprendimento. Gli studi sono ormai nell’ordine delle centinaia e non è possibile tentare qui nemmeno una sintesi (per rassegne si vedano Doughty & Williams 1998, Norris & Ortega 2000, Pallotti 1998, Spada 1997). Ne riporto solo uno a titolo esemplificativo, anche perché è l’unico che mi risulti essere stato condotto sull’italiano.

Lo studio (Lando 1998) aveva come soggetti 100 studenti universitari australiani, che avevano studiato l’italiano per 4-9 anni. Gli studenti venivano divisi in due gruppi. Il gruppo di controllo riceveva le lezioni usuali, di tipo sostanzialmente comunicativo, in cui venivano impiegati i tempi passati dell’italiano in attività sia ricettive che produttive, senza che però venisse attratta in modo particolare l’attenzione degli allievi su di esse. Il gruppo sperimentale riceveva invece un trattamento di 15 ore di lezione in tre settimane sui tempi passati. Le lezioni includevano: a) spiegazione esplicita delle regole; b) esercizi strutturali; c) discussione e spiegazione tra studenti delle regole più difficili; d) prove in classe con correzione degli errori. Dei due gruppi veniva misurata l’accuratezza nel produrre i tempi passati in tre momenti distinti: prima del trattamento, subito dopo e cinque mesi più tardi. La tabella seguente riporta i risultati.

Tempo Gruppo sperimentale Gruppo di controllo
Prima delle lezioni 65,9 67,9
Subito dopo le lezioni 71,7 68,3
Cinque mesi dopo le lezioni 75,2 69,0
Totale progresso + 9,2 + 1,1

Tabella 1. Accuratezza nella produzione scritta dei tempi passati (imperfetto, passato prossimo e trapassato prossimo)

Come si può vedere, le 15 ore di trattamento hanno avuto ricadute positive non solo nell’immediato, ma anche nel lungo periodo. Questo è importante per due motivi. In primo luogo dimostra che, contrariamente a quanto sostenuto da Krashen (1993), l’istruzione ha degli effetti duraturi, e non solo effimeri. In secondo luogo, il maggior incremento di accuratezza da parte del gruppo sperimentale anche nel periodo successivo allo studio porta a concludere che gli interventi didattici innescano dei processi di riflessione e acquisizione che rimangono attivi anche al di fuori della situazione di istruzione. In altre parole, chi ha potuto riflettere ed esercitarsi su una certa forma con l’aiuto dell’insegnante, continua a farlo in seguito anche da solo, compiendo ulteriori progressi.

La ricerca ci mostra quindi che frequentare un corso di lingua, essere guidati da un insegnante e da un libro di testo che ci forniscono spiegazioni e opportunità di uso sistematico e controllato della L2, presenta dei vantaggi rispetto a un apprendimento puramente spontaneo. Occorre però fare qualche precisazione, perché non vorrei che queste conclusioni suonassero come un ‘torniamo ai bei vecchi metodi’.

In primo luogo, nessuno oggi intende sminuire l’importanza della competenza comunicativa, di cui la competenza linguistica è solo una parte. In altri termini, l’obiettivo di un corso di lingue non è più solo far produrre agli studenti delle frasi grammaticalmente corrette, ma anche degli enunciati appropriati ed efficaci, da usare all’interno di situazioni comunicative reali, e lo stesso vale per la competenza comunicativa in ricezione. Gli obiettivi della fluenza e dell’accuratezza sono ugualmente importanti: non vanno confusi (e Volare, da questo punto di vista, è molto chiaro) ma integrati. Molte attività saranno proposte per il loro valore comunicativo, senza pensare che debbano necessariamente servire allo svolgimento del ‘programma di grammatica’.

Un’altra differenza tra l’approccio che oggi va sotto il nome di focus on form – cioè attenzione alle forme linguistiche – e i metodi grammaticali tradizionali è che tutte le ricerche sullo sviluppo dell’interlingua ci mostrano che gli errori, certi tipi di errori in particolare, sono ad alcuni livelli inevitabili. L’errore può essere corretto all’interno di certe attività e comunque sempre in modo selettivo; in altri casi, invece, potrà essere tollerato anche per un lungo periodo di tempo.

E veniamo qui alla terza novità rispetto agli approcci tradizionali. Gli studi sull’interlingua riportano che alcune strutture sono apprese prima di altre indipendentemente dall’età, dal livello socio-culturale, dalla L1 e persino dal tipo di percorso, naturale o guidato, degli apprendenti. Si potrebbe concludere che queste strutture siano, in qualche senso del termine, universalmente più facili di altre. L’istruzione dovrà cercare di seguire il più possibile questo “sillabo incorporato nell’apprendente” (Corder 1967), una sorta di sillabo naturale. Ad esempio, le ricerche hanno mostrato che nell’italiano L2 i tempi vengono appresi nel seguente ordine (cfr. Giacalone Ramat 1993):

forma basica non coniugata > participio passato > imperfetto > futuroSarebbe opportuno attrarre l’attenzione degli allievi su queste forme nell’ordine in cui compaiono naturalmente: in questo modo gli interventi didattici avranno più possibilità di successo. In Volare l’imperfetto segue effettivamente il participio passato; il futuro, però, è introdotto piuttosto presto e sarei curioso di sapere quanto effettivamente rimanga di queste lezioni nelle produzioni spontanee orali degli studenti semi-principianti. Un altro punto in cui la presentazione di Volare si allontana dalle sequenze naturali riguarda la riflessione sull’accordo del participio passato con il soggetto quando il verbo al passato prossimo ha l’ausiliare essere: questa riflessione viene proposta già molto presto (Vol. I, pag. 129), mentre le ricerche mostrano che questo tipo di accordo viene acquisito spontaneamente molto tardi (Chini 1995). Queste e altre considerazioni dovrebbero portare il ‘programma di grammatica’ ad avvicinarsi il più possibile ai programmi naturali di cui dispongono gli apprendenti.

Infine, un insegnamento della grammatica basato sulle ricerche sull’interlingua tiene conto del fatto che le ‘regole’, così come sono definite nelle grammatiche, non si imparano tutte in una volta, come si impara in una sola settimana la Rivoluzione francese. Abbiamo visto che tra l’accorgersi di una certa regola della L2, capire come funziona e integrarla nel proprio sistema interlinguistico passa molto tempo: possono essere settimane, mesi, anni. Ma abbiamo visto anche che ciò che la grammatica considera una regola sola, ad esempio il ‘passato prossimo’, è in realtà una serie di sotto-regole, di varia complessità: una cosa è accorgersi che esiste, e usare, il suffisso -to, altra è capire le sottigliezze dell’accordo tra participio e soggetto con certi verbi e tra participio e complemento con certi pronomi. Volare, a differenza di quasi tutti gli altri libri, ha un approccio molto più graduale, e quindi naturale, alle ‘regole’: il passato prossimo, che in altri libri viene compresso e liquidato in una sola unità didattica, in Volare viene ripreso ciclicamente, nei suoi diversi aspetti, dalla fine del primo volume per tutto il secondo, e di nuovo nel terzo, in un arco di oltre duecento pagine. In altri termini, una regola grammaticale non è un contenuto da imparare dichiarativamente, come se fosse un’unità didattica di storia o geografia (e che quindi può essere insegnato tutto in una volta), ma è un’abilità da sviluppare gradualmente, come saper nuotare a farfalla o saper fare la maglia.

Queste sono solo alcune considerazioni su come sia possibile impostare un discorso sull’utilità delle attività analitiche che si basi sui risultati delle ricerche. Non intendono essere verità definitive, la voce della scienza da applicare immediatamente alla didattica. Da un punto di vista scientifico, c’è ancora molto da scoprire; da un punto di vista didattico, le considerazioni da fare sono molte e complesse e non possono essere l’applicazione meccanica di alcuni risultati sperimentali. In particolare, una dimensione che è rimasta fuori da questa relazione non perché la consideri poco importante, ma perché non è possibile parlare di tutto in una volta, è quella affettiva: insomma, chiedersi perché gli studenti vogliono imparare la L2, e in particolare la sua grammatica, cosa fa aumentare questa loro motivazione, cosa la scoraggia e così via (per mia fortuna buona parte della relazione di Claudio Chiavegato è dedicata proprio a questo tema del “sogno”).

Per concludere, vorrei quindi sottolineare come, nel discutere di scelte didattiche alla luce delle ricerche, l’importante è non essere dogmatici: bisogna essere disposti a sperimentare, a cambiare idee e atteggiamenti, chiedendosi sempre cosa è plausibile, non cosa è certo. Come diceva il filosofo Charles Sanders Peirce, quando abbiamo un dubbio che ci fa sentire incerti, e questo ci irrita, ci sono tre modi per arrivare a una situazione di relativa tranquillità: la via dell’ostinazione (è così perché è così, e basta); la via della religione (è così perché l’ha detto Tizio, e io ci credo); la via della scienza (è così perché questa è la conclusione a cui sono arrivato dopo aver compiuto osservazioni e formulato ipotesi, ma potrei sempre sbagliarmi).

Riferimenti bibliografici

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