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Viva la sovversione!

Se si crede che il processo di apprendimento di una lingua sia un percorso individuale, unico, diverso anche da quello degli altri sottoposti agli stessi stimoli linguistici, e se non si crede che questo funzioni secondo una modalità azione-reazione (un determinato stimolo produce necessariamente un determinato risultato, ad es. l’acquisizione di una informazione linguistica), allora bisogna rassegnarsi alla realtà che non possiamo prevedere cosa ci sia nella testa dei nostri studenti. A rendere questo ancor più vero questo è il fatto che, se nelle attività di ricezione della lingua si usano testi autentici, le problematiche linguistiche presentate sono innumerevoli e l’attenzione di ogni studente potrà essere catturata da elementi molto diversi.

È quindi una realtà che in una classe, come scriveva Christopher Humphris in “Dare la priorità agli studenti” (Bollettino Dilit 2000/1) sono presenti tante lingue quanti sono gli studenti più una, la lingua bersaglio. Per proseguire nel suo lavoro, l’insegnante ha dunque bisogno di misurare e analizzare le differenze tra le varie interlingue e la lingua bersaglio; bisogna quindi andare a vedere che cosa “hanno in testa” gli studenti.

Per farci un’idea di ciò, possiamo sì origliare durante le produzioni orali degli studenti, leggere le loro produzioni scritte, sfruttare ogni occasione di interazione con loro; tutto questo è sicuramente utile. Ma altre, e forse più precise, indicazioni ci possono venire dai dubbi di fronte ai quali si trova uno studente. Ho usato le parole “più precise” perché un’incertezza è lo specchio della situazione di un’area dell’interlingua. Se si dà allo studente la possibilità e l’opportunità di esprimere il dubbio si può avere una visione di quello su cui sta lavorando. Per questa ragione uno degli strumenti migliori per acquisire informazioni sono proprio le sue domande.

Il momento in cui lo studente si pone un problema, ha un dubbio su un elemento linguistico è inoltre un momento cruciale: lui sente la necessità di sistemare una parte, un ramo della sua interlingua. Questo rappresenta la migliore disposizione ad un reale apprendimento.

Mettendo da parte – non certo per mancanza di importanza ma di un’analisi sufficientemente rigorosa – il problema di come stimolarle, i problemi che si pongono sono che cosa possiamo accettare come domande e come rispondiamo.

Domande generiche o troppo generali corrispondono alla percezione di un’area problematica all’interno dell’interlingua, non all’individuazione di un problema. Se non si individua il punto esatto sul quale intervenire, sarà difficile utilizzare le informazioni che si possono avere perché non si sa dove inserire gli eventuali aggiustamenti o cambiamenti. Inoltre, ad una domanda generica o generale si può dare solo una risposta che contempli vari argomenti: allora rimarrà sicuramente l’indecisione su quali considerare, quali sono quelli utili. La situazione ottimale sarebbe la specificazione di una ramificazione e lo studente si chiede quale parte debba eliminare. Dovrebbe essere simile al mettere in ordine: si buttano le cose che non servono più e si sistemano quelle utili; bisogna quindi sapere esattamente che cosa gettare e cosa tenere.

Nella maggioranza dei casi, tranne forse la semplice richiesta di vocaboli (a volte anche la richiesta di forme del verbo o di un elemento linguistico è il risultato di una precedente analisi), riuscire a formulare una domanda richiede di aver formulato alcune ipotesi, di aver analizzato il problema. Quindi la pretesa che le domande siano il più possibile circostanziate, precise, oltre alla loro maggiore utilità, va nella direzione di stimolare lo studente a riflettere sulla lingua, a farsi domande su di essa, un compito fondamentale del nostro lavoro come insegnanti.

Un altro aspetto pericoloso delle domande non precise è che lasciano spazio alla “creatività” e alla “generosità” dell’insegnante.

Capita spesso che un nostro interlocutore, che conosce la lingua usata come noi, ci dica “Non hai capito! Io stavo dicendo… “. Ciò accade non solo per mancanza di chiarezza o perché i significati sono il risultato di una contrattazione ma, soprattutto, perché la nostra mente è abituata ad anticipare le conclusioni sulla base del nostro universo culturale. Davanti a domande di uno studente formulate in un modo incompleto e confuso, c’è la pericolosa tendenza a colmare il vuoto di informazione e a completarle nella mente, dando una propria interpretazione rischiando così di rispondere a qualcosa che non corrisponde all’informazione che lo studente richiedeva. Questo è veramente un terreno scivoloso e per ovviare a ciò non è sufficiente prestarvi attenzione, ma è necessario elaborare una vera e propria tecnica, una disciplina dell’ascolto. Una volta, parlando di questo problema con Christopher Humphris, lui mi aveva consigliato di lasciar passare un minuto di silenzio prima di prendere la parola: mettendola in pratica ho sperimentato che quel minuto è molto prezioso, per me perché ho il tempo di valutare bene la domanda ed eventualmente chiedere chiarimenti, ma anche per lo studente tanto che a volte, prima che glielo chieda, riformula in modo più preciso la domanda.

Se è importante che un insegnante sia rigoroso nel considerare una domanda di uno studente, deve pretendere tale rigore anche da se stesso. Una risposta troppo “generosa”, che fornisce più informazioni di quelle richieste o di quelle necessarie, in realtà non rappresenta un aiuto ma una complicazione: lo studente dovrà districarsi tra tutte queste cercando di selezionare ciò che gli interessa; anche l’utilizzo di molti esempi, che a noi può sembrare molto esplicativo, può rivelarsi controproducente per lo studente perché quando si ascolta una lingua diversa dalla propria è difficile percepire le costanti. Proprio perché la questione è la comprensione della lingua, meno parole si utilizzano meno si rischia di moltiplicare i problemi.

Si consideri ora la questione dal punto di vista relazionale.

Nella maggioranza dei casi, l’interazione studente-insegnante ha un andamento di questo tipo:

  1. l’insegnante prende l’iniziativa (fa una domanda; dice qualcosa, un’istruzione; dà qualcosa, un foglio da leggere, un esercizio);
  2. lo studente “reagisce” (risponde, si mette a leggere, prende una penna);
  3. l’insegnante chiude l’interazione (fa un commento o altro).

Cosa succede, invece, quando uno studente fa una domanda?

Se si immagina anche la situazione più banale, uno studente chiede come si dice una parola nella lingua bersaglio, la sequenza che si presenterà sarà del tipo:

  1. Studente: “Come si dice fish in italiano?”.
  2. Insegnante: “Pesce”.
  3. Studente: “Ah, pesce”.

In questa situazione è lo studente che “agisce”, è lui che prende l’iniziativa. L’ordine è sovvertito o, meglio, è ristabilito se si ritiene che il processo di apprendimento venga realmente portato avanti dallo studente, che senza il suo agire non esista. Nel momento in cui fa una domanda lo studente si appropria del suo ruolo e impone all’insegnante di prendere il proprio, quello dell’esperto.

Da quanto detto, si può concludere che le domande degli studenti possono darci importanti indicazioni su che cosa utilizzare in classe, sono un buon strumento di riflessione sulla lingua, una buona occasione per l’apprendimento e permettono allo studente di riprendersi il ruolo che gli è proprio. Quindi, considerando come fattori dell’efficacia il chi, il cosa, il quando e il come, si può ritenere che il favorire e gestire le domande degli studenti sia un ottimo strumento per la pratica didattica.

Ma, nelle nostre lezioni quanto favoriamo la “sovversione”?