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Centralità del discente o centralità del sapere?

“Fra uomo e uomo è questa la situazione più alta:
il discepolo è l’occasione perché il maestro
comprenda se stesso, e viceversa il
maestro è l’occasione perché il
discepolo comprenda se stesso.”
Søren Kierkegaard, Briciole di filosofia, cap. II.

Il lavoro di preparazione e realizzazione del laboratorio dedicato al colloquio insegnante/studente è stato per me così stimolante, le riflessioni maturate nel gruppo così varie, ampie e pregnanti, che seguirle tutte significa avere temi di approfondimento per lungo tempo. Perciò si impone qui una scelta di cui mi rammarico, anche perché i pensieri stessi che verranno espressi ‑ legati come sono ai molti altri temi toccati nel gruppo ‑ potranno soffrirne per oscurità e unilateralità.

Benché il patrimonio di “concreti” spunti didattici lasciatomi dal seminario sia veramente cospicuo, mi sono comunque risolto a seguire ancora una volta la mia indole “astraente”, per scrivere qualcosa di “generale” ‑ spero non generico. Dirò anzitutto qualcosa sulla centralità del discente, anche per tentare di capire in quale misura e soprattutto sotto quale profilo il colloquio insegnante/studente sia da considerare elemento importante di una didattica centrata sul discente. Passerò poi alla conclusione con una provocazione sempre in tema di “soggetto centrale della didattica”. Sono conscio dell’astrattezza di quanto segue, a cominciare dal fatto che parlo della didattica in generale, non della glottodidattica che pure mi ha dato l’occasione per sviluppare, qualunque sia il loro valore, questi pensieri. Se essi daranno occasione ad altri pensieri, non saranno stati pensati invano.

A mio parere, è anzitutto indispensabile inquadrare il nostro laboratorio nel più ampio tema della centralità del discente, tema che ha dato il titolo all’intero seminario. Ma a questo scopo, non possiamo dare per scontato il senso di questo tema, ritenendo che sia a noi e a tutti chiaro cosa significhi “centralità del discente”, e cosa comporti modellare il proprio insegnamento intorno a questo concetto. È necessaria, dunque, anche al nostro livello, una riflessione generale e un esame di questo stesso concetto della centralità del discente.

Esaminiamo anzitutto la formula “centralità del discente” per vedere cosa ci suggerisce: “discente” è concetto contrapposto a “docente”, e in questo senso possiamo dire che già di per sé, dalla specifica formulazione del tema, siamo indotti a indagare in una direzione determinata, la quale ‑ ove non se ne abbia consapevolezza – viene semplicemente presupposta, e rende la riflessione in qualche misura acritica. La situazione discente/docente, infatti, non esaurisce l’intero ambito dell’apprendimento, sebbene possa costituirne il luogo privilegiato (e questo per almeno due motivi: a) è il luogo specificamente e tematicamente, quindi intensivamente e in modo guidato, dedicato all’apprendimento; b) è il luogo dell’acquisizione metodologica dell’apprendimento: dove cioè si impara ad imparare e si sviluppa la vis critica).

Se è così – anche se poi, ai nostri fini, si debba ritornare a considerare il settore dell’apprendimento che ha luogo sulla base del rapporto “istituzionalizzato” discente/docente – è bene dapprima, per le ragioni dette, ampliare la prospettiva, e considerare anzitutto il discente entro il concetto più ampio dell’“apprendente”, della persona cioè che nelle più diverse situazioni muove autonomamente verso la conoscenza: il “ricercatore”. È questa la figura ideale che la metodologia didattica deve tenere sullo sfondo. In questo senso l'”essere discente” va visto come “in cammino” verso l'”essere apprendente” autonomo, o ricercatore. Questo significa anche prevedere il progressivo, ideale, tramonto della figura, non della persona, del docente. Quando questo ideale traguardo si pone al centro della nostra riflessione sul significato della centralità del discente, e guida la riflessione stessa, allora possiamo forse “leggere” il titolo del nostro tema con occhi diversi, più criticamente avvertiti e meno “orientati”. Possiamo leggerlo, ad esempio, anche nel senso – apparentemente inverso, ma che conserva invece l’autentico nucleo concettuale quale è stato appena conseguito – di un progressivo scivolare verso la periferia della figura del discente come tale, fino a una sua ideale uscita dall’orizzonte dell’apprendimento, corrispondente a una progressiva, e idealmente totale, conquista del centro da parte della figura del ricercatore.

Fatta questa premessa, che terremo sempre sullo sfondo, possiamo tornare con maggiore consapevolezza al tema specifico. E considerare che se “discente” è concetto correlativo a “docente”, il tema della centralità del discente assume una varietà di forme a seconda del punto di vista che assumiamo, e del termine con il quale questo punto di vista si relaziona, in prima istanza e poi in modo riflesso.

Premesso che la prospettiva di fondo da cui non possiamo prescindere è quella di chi riflette sull’argomento a fini didattici, i punti di vista che si possono considerare sono due: quello del discente e quello del docente. Cosa deve significare per il discente “centralità del discente”? E cosa per il docente? Cosa invece il più delle volte significa, per entrambe le figure?

In senso generale, lo abbiamo già visto: il più delle volte “centralità del discente” significa appunto che chi sta al centro è un discente: per lui questo significa dover ricevere il sapere dal docente, per il docente significa dover elargire sapere; e dovrebbe significare in realtà, secondo quanto si è detto, il contrario di quello che le parole sembrano esprimere, e cioè: il discente, inteso come atteggiamento passivo di chi riceve conoscenze dal docente, si deve tendere a scalzarlo dal centro e a emarginarlo sempre più. Ma appunto, avendo questo come significato generale e traguardo ideale, cosa significa più in concreto “centralità del discente”? Cioè, come tendiamo concretamente alla “centralità dell’apprendente”?

Centralità e colloquio

Ben si comprenderà, qui il salto concettuale che a questo punto si impone, per avvicinarci finalmente all’argomento specifico del laboratorio su Il colloquio insegnante/studente. Il salto si impone, perché la domanda precedente pone in questione la didattica nella sua globalità e in tutti i suoi aspetti! Il seminario di quest’anno si è occupato appunto di inquadrare alcuni aspetti della didattica all’interno del concetto generale della centralità del discente, procurando di esaminarli e definirli meglio, ma anche di ridefinire ‑ con l’aiuto della riflessione su aspetti particolari ‑ il concetto generale di partenza, questa famosa centralità del discente. Per ciò che riguarda il colloquio insegnante/studente, questa riflessione ha portato a configurare una sorta di generale “modello” di colloquio con caratteristiche piuttosto inusuali rispetto a quella che potrebbe essere un’idea “tradizionale”.

Se ad esempio si pensa a un colloquio dove il discente dice genericamente qualcosa di sé ed espone “problemi” a un altro, il quale ‑ giusta la sua funzione istituzionale ‑ elargisce risposte e soluzioni, abbiamo un modello tradizionale di colloquio, che già a prima vista sembra rischiare tanto artificiosità quanto infruttuosità. Se invece ci liberiamo del “discente”, e al suo posto impariamo a vedere un “ricercatore”, il colloquio sarà allora un’occasione perché lui stesso rifletta su se stesso ed esponga a se stesso la propria valutazione di sé. È la sua risposta, la sua valutazione che conta, ed è essa l’unica che in quella occasione deve avere diritto di cittadinanza. Se questo è posto in chiaro, l’artificiosità dovuta alla asimmetrica autorità dei dialoganti viene attenuata fino a scomparire, perché in realtà qui non rimane che una sola autorità, quella dello studente. Il colloquio come occasione di autoriflessione e autovalutazione sembra essere una buona opportunità per quel percorso ideale che va dal discente all’apprendente autonomo. Dal punto di vista dello studente, il colloquio con l’insegnante dovrebbe essere soprattutto un colloquio con se stesso “sotto mentite spoglie”, perché la sua vivacità analitica e la sua vis critica si eserciti sull’oggetto più importante di tutti: il proprio cammino intellettuale.

Ma cosa resta da fare all’insegnante in questa situazione? E a cosa serve il colloquio dal suo punto di vista? L’insegnante ha qui un compito di notevole impegno: deve ascoltare. Tutto qui? In realtà non è affatto poco, come i partecipanti al laboratorio hanno constatato. Quella che con formula felice è stata definita “disciplina dell’ascolto”, richiede consapevolezza ed esercizio (alcune indicazioni in merito sono state date in sede di laboratorio). Del resto, chi non sa quanto è difficile trovare ascolto “autentico” anche presso le persone che ci sono “vicine”? Chi non ha sperimentato quelle comiche situazioni in cui le repliche non si legano con le precedenti locuzioni, semplicemente perché non ci si ascolta, non ci si capisce, ma si va, con il pensiero, ognuno per la propria strada? E chi è che, ripensando agli anni della scuola, può dire di essersi sentito ascoltato, come studente?

L’insegnante dunque ascolta. Ma a lui quale vantaggio porta questo ruolo “passivo”, questo ascolto inerme? Cosa singolare: esattamente lo stesso vantaggio che allo studente porta il proprio ruolo di attiva autoriflessione. Il vantaggio di capire. L’insegnante finalmente può capire qualcosa di un singolo nella sua individualità. Se non capisce il singolo, quale significato darà al concetto di “centralità del discente”? Cosa significherà questo concetto dal suo punto di vista? Non, forse, che chi sta al centro è, ovviamente, un discente? E l’ascolto non gli darà invece l’occasione di vedere un singolo che si sforza di apprendere, e lo fa con caratteristiche del tutto peculiari ‑ sì che forse ora comincia ad apparire un soggetto concreto su cui centrare, per quanto possibile, l’insegnamento?

Ma l’ascolto gli dà anche l’occasione di capire se stesso, e non solo come insegnante, ma anche come apprendente: gli dà l’occasione di capire quanto è importante, per capire, l’essere in atteggiamento di ascolto.

Chi crede che si sopravvaluti il colloquio, pensi alla propria esperienza di insegnante. Pensi anche solo al lato che concerne, diciamo così, il “clima” interpersonale (lato che è stato qui del tutto taciuto per ragioni di spazio): difficilmente un insegnante non avrà notato l’importanza di qualche parola “a tu per tu” con lo studente (non parlo di un colloquio “disciplinato”, come si propone qui). Per me è stata la prima sorprendente scoperta nella mia esperienza di insegnante di lingua: le persone a cui avevo rivolto qualche domanda, con cui avevo parlato insomma, non erano più le stesse in classe: da un momento all’altro erano diventate più partecipi, più sicure, più individui e meno elementi di una classe.

Conclusione

Per concludere, riprendendo il tema dell’ascolto, vorrei lanciare la mia provocazione. Chiamando provocazione quanto mi accingo a dire, non intendo ‑ come si sente spesso ‑ che sia “solo” una provocazione, una qualsiasi trovata azzardata, cioè, e lanciata a casaccio (non si sa bene perché), di cui mi alieno con quel “solo” ogni responsabilità: è così che di solito fanno gli incauti esibizionisti che ‑ dimostrataglisi l’idiozia di quanto affermano ‑ rispondono che, vabbè, era solo una provocazione. La mia è una provocazione, cioè una idea che sebbene incoativa e bisognosa di ulteriore riflessione, propongo responsabilmente a un dibattito didattico che va in altra direzione rispetto a essa. Quando poi si sia dimostrata inconsistente, non la guarderò come qualcosa che non mi è mai appartenuto perché era solo una provocazione: mi sentirò, diciamo così, “sconfitto”, ma anche arricchito.

Questa “idea” mi venne in mente proprio durante il seminario, ascoltando la bella e incoraggiante relazione di Martin Dodman, Alcune considerazioni sul concetto della centralità del discente . Vi si sottolineava l’importanza pionieristica della ricerca in campo glottodidattico nei confronti della didattica nella sua globalità. E questo vale, continuava Dodman, anche per ciò che riguarda la centralità del discente, cioè il sempre maggior spazio che la didattica tende a dare alla libera espressione e attività del discente. Se prima, come sappiamo per esperienza, la lezione frontale faceva dello studente un discente passivo ed quasi esclusivamente ricettivo, ora si vuole fare dello studente un attivo elaboratore di sapere. Si stimola quindi la sua attiva partecipazione alla situazione didattica, si tende a “guidare” sempre meno la lezione, a scivolare sullo sfondo, e a seguire sempre più i personali percorsi elaborativi dello studente; a promuovere ‑ per usare una terminologia “multimediale” (del resto, non si dice che la multimedialità ha rivoluzionato il nostro modo di apprendere?) ‑ un apprendimento “multilivello” e creativo, contro un apprendimento “lineare” e ricettivo. In questa prospettiva, la centralità del discente comporta la decentralità del docente.

Mentre ascoltavo il ragionamento qui parafrasato, pensavo a uno dei temi che nel mio gruppo erano stati affrontati con più impegno per la preparazione del laboratorio: quello, appunto, della “disciplina dell’ascolto”. La quale, come si è accennato, oltre che consentire la libera espressione dell’interlocutore (dello studente, nel caso del colloquio didattico), rivestiva importanza ben più ampia per noi, come autentico strumento di conoscenza: mettersi in ascolto, o più in generale educarsi alla disponibilità ricettiva; non anticipare la replica, o più in generale non affrettare la deduzione interpretativa (che è sempre basata sui nostri schemi mentali pregressi), sono preziose componenti di raffinazione della nostra “permeabilità” agli stimoli esterni, la quale è a sua volta un momento importante, a rigore imprescindibile, del processo conoscitivo. Noi, insomma, riteniamo importante in generale educarci all’ascolto, e non soltanto nella specifica situazione colloquiale, per fare una cortesia all’interlocutore ‑ allo studente nel caso specifico -: paradossalmente, anzi, interpretare la disciplina dell’ascolto come mero reprimere l’istintiva tendenza alla replica, affinché l’interlocutore possa dire la sua con più agio, falsa già il rapporto comunicativo (come è reso evidente da una pedissequa, irrealistica, applicazione della tecnica psicoterapeutica della riformulazione), perché rimane una tecnica esteriore, che porta semplicemente a una situazione in cui uno parla di più e l’altro parla di meno, una situazione guidata dal principio, ancora esteriore, di “lasciar parlare” l’altro. Paradossalmente, questa interpretazione ristretta della disciplina dell’ascolto ostacola la comunicazione, perché inconsapevolmente non lascia l’altro libero di esprimersi (o di non esprimersi), ma gli assegna il ruolo di colui che deve esprimersi; e ancora, non lascia libero me di capire, perché semplicemente mi assegna il ruolo di colui che deve reprimere il proprio interesse comunicativo, che deve “neutralizzarsi” fino a giungere al silente ascolto proprio di… un tronco! Paradossalmente, poi, questa assegnazione di ruoli contraddice una volta di più al nostro obbiettivo della centralità dell’apprendente, proprio perché ‑ come prima gli si assegnava il ruolo di chi tace e riceve ‑ così ora gli si assegna, benché quello opposto, ancor sempre un ruolo: di esprimersi ed essere attivo. Si invertono i ruoli, ma rimane il divario[1].

Saper “ascoltare”, dunque (cioè, ripeto, affinare la nostra permeabilità, la nostra sensibilità ricettiva), è momento fondamentale di ciò che chiamiamo apprendere (inteso non solo come imparare ‑ convogliare contenuti entro schemi mentali pregressi ‑, ma come imparare a imparare ‑ saper raffinare e riplasmare i nostri schemi mentali per articolare sempre meglio la nostra interpretazione della realtà). La disciplina dell’ascolto, in questo senso ampio (non solo come ascolto “auditivo” di un interlocutore che parla), è dunque di primaria importanza ai fini dell’apprendimento, della conoscenza.

Ma se è così, perché privare il discente di questo fondamentale strumento di conoscenza, inducendolo sempre e comunque all’attività, alla creatività, alla espressione pur che siano ? Perché il discente dovrebbe essere d’ora in poi educato all’intervento attivo sempre e comunque, in base alla semplicistica equazione “più spontaneità creativa (qualunque essa sia ) uguale più conoscenza”?

Si potrebbe dire che, comunque, la disciplina all’ascolto, la ricettività, viene da sé: io non ne sono convinto, vedendo quanto poco siamo permeabili e sensibili alla ricezione, e quanta fatica costa il renderci un poco più ricettivi, il che è insieme causa ed effetto dell’uscire un poco dai nostri schemi. Perché non facilitare gli studenti, educandoli all’ascolto?

Sento già le critiche: “Ma questo qui è un tradizionalista! Ci propone il ritorno al discente passivo che tace, incamera nozioni aliene di cui non si appropria veramente, perché non le ha elaborate personalmente”. Ma io mi domando se conoscere sia esporre in modo scomposto qualsiasi fantasia si affacci alla nostra mente, o se non sia un complesso percorso di mediazione che tende idealmente all’oggettività. Sì, all’oggettività: non un’oggettività estrinseca, che sta già da qualche parte, ma un’oggettività che vive essenzialmente nella intersoggettività, e che tende idealmente all’assoluto.

Il discente tradizionale non era colui che ascoltava ed era educato all’ascolto[2], ma colui che semplicemente doveva star zitto. Al centro c’era il docente. Ora al centro si vuole mettere il discente, decentrando il docente: ma appunto, le due figure restano, nella contrapposizione concettuale che abbiamo ereditato dalla tradizione, la quale spezza innaturalmente il processo conoscitivo in due tronconi separati. È chiaro invece che l’educazione all’ascolto non va disgiunta dall’educazione alla elaborazione attiva: sono in realtà due facce della stessa medaglia. E di fatto nella pratica didattica teniamo spesso conto di entrambe queste due facce. Quello che io mi chiedo è se non sia il caso che “l’altra faccia della medaglia” venga resa esplicita a tutti i livelli, che si sottolinei l’importanza del “saper ascoltare”, oltre che quella del proporre coraggiosamente e con forza, come deve essere, le proprie obiezioni, domande, opinioni.

[1] Resti inteso che non propongo un annullamento in generale di ruoli tra docente e discente, e una situazione “indifferenziata”. Tra docente e discente vi è certamente, e rimane, un divario di competenze, riguardo ai contenuti, e un divario di ruoli giocati entro la specifica situazione didattica, ma non dovrebbe esserci divario per ciò che concerne l’atteggiamento di entrambi, in quanto apprendenti, nei confronti del sapere, cioè nel caso in cui entrambi siano considerati come ricercatori: ciò che vale per l’uno dovrebbe valere anche per l’altro.

[2] Devo ripetere che qui il termine “ascolto” è inteso non tanto in senso letterale, ma anzitutto come metafora di “sensibilità ricettiva”?