Perché mio figlio non legge
Mio figlio si chiama Simone; ha 11 anni e sta per terminare la prima classe delle scuole medie inferiori. La supererà con giudizi molto buoni. Lo scorso anno si è meritato anche una borsa di studio: si può dire che è nella schiera dei ragazzi che “vanno bene” a scuola. Ma mio figlio non legge, cioè legge unicamente ciò che gli serve per la lezione che sta preparando, quindi i testi di cui ha esperienza sono solo quelli richiesti ed usati dai suoi insegnanti. Pur avendo molteplici interessi, non legge altro di sua iniziativa. Per favorire un suo rapporto con i libri ho applicato la stessa strategia già usata con gli strumenti musicali: sono disseminati per la casa e fin da piccolo ha avuto l’opportunità di maneggiarli, di entrarci in confidenza e molte volte abbiamo suonato e letto in sua presenza. Con gli strumenti ha funzionato: da un anno va per sua decisione a lezione di pianoforte, con ottimi risultati, ed in casa spesso prova il flauto, il clarino, la chitarra, il mandolino ed altro. Con i libri no. Perché con la musica ha funzionato e con la lettura no? Perché mio figlio non legge? Questo stesso cruccio serpeggiava tra i convenuti al Seminario Internazionale di quest’anno: perché i miei studenti non leggono? perché non cedono al fascino delle pagine che propongo in classe?
Attenzione a come formuliamo le domande! Quelle che avete appena letto sono domande a trabocchetto. La loro natura e la loro funzione è di colpevolizzare. Se provate a rileggerle vi accorgerete che il modo che appare conseguente per trovare loro risposta è addossare la colpa: o agli studenti, o a noi stessi. Nel momento in cui addosso una colpa ne sottintendo anche le cause: o gli studenti sono superficiali, svogliati e, diciamolo, anche cretini o noi siamo incapaci di trovare vie efficaci di presentazione. Queste sono le conseguenze di una domanda mal posta: i sensi di colpa. Se invece ci interessa andare oltre e trovare delle soluzioni, dobbiamo semplicemente osservare il fenomeno cercando di non essere preda dei pregiudizi. È l’unico modo che conosco per formulare domande vere, quelle che portano, attraverso la modificazione, a risultati soddisfacenti.
Il primo passo è l’osservazione degli attori: da una parte Simone e gli studenti, dall’altra il padre di Simone e gli insegnanti. Per osservare in modo soddisfacente è necessario prima di tutto considerare la storia dei nostri personaggi cioè tener ben presente che i primi non partono da zero, esiste già un qualche rapporto con i libri e la lettura, hanno una loro storia di lettori alle spalle per quanto giovani siano; anche i secondi hanno la loro storia di lettori ma sono coinvolti anche nelle aspettative che entrano nel repertorio del loro ruolo.
L’osservazione tramite l’esade euristica
È necessario smontare nelle sue componenti la scena di cui sopra. Uno strumento che dà buoni risultati è quello che lo scrittore statunitense David Forest Wallace nel racconto “Dire mai” definisce esade euristica: chi, dove, quando, perché, cosa e come. Sembra banale ma è di grande efficacia.
Chi: partiamo dalla parte del quadro in cui ci sono Simone e gli studenti ma ci ritroveranno dentro anche tutti gli altri;
Dove: il loro rapporto con il libro, da lettori, muove i primi passi a casa ma sicuramente è a scuola che è impostato e si sviluppa. Considero qui scuola anche la sua estensione sotto forma di compiti a casa. Il luogo non è un luogo scelto, e non bisogna sottovalutare l’importanza di questa variabile. Nel 1300 re Edoardo III d’Inghilterra leggeva i suoi romanzi cavallereschi solo in camera da letto; San Gregorio, Henry Miller e Marcel Proust dicono di aver fatto le loro migliori letture al gabinetto; l’epicureo Omar Khayyam raccomanda di leggere poesia sotto gli alberi; Marguerite Duras scrive “Bisognerebbe leggere con la luce elettrica che illumina solo la pagina, in una stanza in penombra” e conclude Alberto Manguel nel suo Una storia della lettura “Sia che scegliamo prima il libro e poi l’angolo appropriato, oppure troviamo prima l’angolo e poi decidiamo quale libro andrà bene, non c’è dubbio che l’azione di leggere nel tempo richiede una corrispondente azione di leggere nello spazio ed il rapporto tra le due azioni è inscindibile”. Lo spazio, l’ambiente di lettura non rientra minimamente nelle preoccupazioni di un insegnante che si trincera dietro l’immutabilità della struttura che ha a disposizione. Basterebbe che si insinuasse un dubbio su questo elemento per considerare che anche la musica o la luce di colori diversi o semplicemente l’immaginazione opportunamente guidata creano ambiente e quindi possono modificare i contorni di un’aula scolastica.
Quando: in orario scolastico, quindi neppure il tempo è un tempo scelto. Inoltre la strutturazione dei luoghi e dei tempi della scuola (architettura, arredo, orari, programmi, giudizi, disciplina, …) crea una precisa gerarchia che vede lo studente in posizione subalterna. Non ha la possibilità di sviluppare proprie iniziative ma solo di subire quelle dei superiori (insegnanti, presidi e/o direttori, ministero) durante i cinque anni delle elementari, i tre delle medie e i cinque delle superiori per quanto riguarda l’Italia ma il periodo è grosso modo lo stesso negli altri paesi. Fin dalla più tenera età lo studente, a parte poche eccezioni, viene abituato all’aula in cui sono allineati i banchi che guardano la cattedra: questa disposizione è di per se una condanna. Dalla cattedra l’insegnante fa la sua lezione, e ciò sembra la cosa più naturale al mondo; non ci ricordiamo più che il vocabolo “lezione” deriva da “lectus”, azione di leggere: l’insegnante davanti agli studenti leggeva ad alta voce perché solo lui aveva il libro, dato che il papiro e la cartapecora erano estremamente costosi. Per una Bibbia in quarto erano necessarie le pelli di trecento pecore, per non parlare poi del lavoro dei copisti: in epoca bizantina occorrono mediamente tre mesi per copiare un manoscritto ed il copista è pagato 10-12 soldi d’oro a pagina; un legionario romano riceveva due denari ogni 10 giorni quando una copia dell’Eneide costava 24 denari, cioè quattro mesi di digiuno. Il libro era una rarità, era letto e riletto in classe affinché si memorizzasse e lo studente pendeva dalle labbra del lettore che parlava di luoghi e persone di mondi sconosciuti, considerando che il mondo di un ragazzo di allora era la sua casa ed il suo villaggio. La lezione nasce dalla ottimizzazione dello scarsissimo materiale a disposizione dei nostri avi ma diventa anacronismo oggigiorno che il telefono, la radio, la televisione e a volte altri sofisticati mezzi ci portano a casa il mondo e la sua storia, per non parlare dei viaggi turistici che ce li fanno toccare con mano: basta qualche ora di aereo e sopra di tutto i libri, adesso se li può permettere chiunque o con pochi soldi con le stampe in edizione economica (ho da poco comperato un ponderoso volume che contiene tutta l’opera di Dante Alighieri per 9.900 lire) o si possono avere addirittura gratis attraverso le biblioteche. Il quando leggere, da un pezzo ormai, non è più vincolato all’insegnante e al suo libro;
Perché: nei primi anni di formazione alla lettura, la si finalizza al giudizio dell’insegnante. La lettura a voce alta, per quanto forma desueta, è ancora valutata nella scuola elementare. Oppure si ricorre all’interrogazione ed al compito in classe per giudicare se lo studente ha studiato. Con “studiare” viene intesa la ripetuta lettura delle pagine del libro di testo al fine di memorizzare le informazioni contenute: per questa via ciò che si conosce su di un certo argomento è unicamente quanto riportato in quel libro di testo. Altra strada che ogni tanto viene proposta è la ricerca; viene proposta ma non si considera che il reperimento, la selezione, l’articolazione, la presentazione e il commento dei materiali raccolti attorno ad un tema specifico sono delle abilità di per sé ed in quanto abilità da sviluppare vanno presentate, spiegate e gradualmente proposte all’interno di un progetto didattico. Questo non viene fatto: non si insegna ai ragazzi come fare una ricerca, lo studente deve affidarsi alla “scienza infusa” o alla disponibilità dei suoi parenti, tanto che molte volte la prima vera ricerca che affronta, ancora da solo, è la tesi di laurea che i più accorti redigono dopo aver letto l’apposito testo di Umberto Eco. L’argomento comunque è studiato per essere presentato al giudizio dell’insegnante. Come genitore ho creato dei problemi a Simone perché gli ho insegnato a fare una ricerca, quindi ad arricchire con altri contributi il tema e a sviluppare personali riflessioni. Non è stato gradito dai suoi insegnanti lo sconfinamento dal libro di testo. Così ora Simone sa che l’interrogazione ed il compito in classe non sono la verifica delle conoscenze relative ad un argomento ma in quelle circostanze deve solo assecondare l’insegnante: si deve limitare a ripetere quello che l’altro si vuole sentir dire. La stessa cosa consiglio ai miei studenti che nel loro paese frequentano la facoltà di Italiano: la terza persona singolare maschile nelle accademie è “egli” e non “lui”;
Cosa: da quanto detto in precedenza l’ovvia conseguenza è che le letture su cui crescono i ragazzi sono i libri di testo. È da molto tempo che non date un’occhiata ai libri di scuola dei vostri figli o dei vostri nipoti? Fatelo ogni tanto e poi chiedetevi in tutta sincerità se voi, fatte le opportune proporzioni, leggereste mai libri di tale qualità. Ribadisco che sto parlando della mia personale esperienza di genitore e perciò non ha valore di ricerca su tutti i testi disponibili sul mercato per le scuole dell’obbligo, ma per motivi professionali conosco i testi che il mercato offre per l’insegnamento dell’Italiano agli stranieri e la mia opinione non cambia. Questa osservazione mi riporta alla mente una interessante ricerca che per lunghi anni è stata condotta negli Stati Uniti nelle scuole statali primarie da Bruno Bettelheim, riconosciuto come uno dei maggiori esperti di psicologia infantile, e da Karen Zelan, sua stretta collaboratrice presso la Scuola Ortogenica di Chicago e riportata nel volume Imparare a leggere del 1982. Il dodicesimo capitolo titola “Testi vuoti: bambini annoiati” e ci racconta che i titoli, le copertine, le illustrazioni di questi libri sono menzogneri in quanto fanno apparire che quanto presentano è divertente, tentando così di nascondere i reali scopi didattici. Dopo il primo inganno i ragazzi si accorgono da soli che l’apprendimento della lettura è un lavoro duro che richiede una seria applicazione. Per creare un rapporto franco con la lettura dovrebbero insegnare la sua grande importanza nel processo educativo. Inoltre la maggioranza degli studenti, in colloqui privati, si sono detti confusi ed addirittura indignati dal fatto che un loro coetaneo fosse descritto in modo così sciocco e definivano le letture del libro di testo come stupide e assolutamente lontane dalla realtà. In un altro capitolo Bettelheim e Zelan ci spiegano di aver introdotto alla lettura “ragazzi difficili” che la rifiutavano proprio proponendo loro testi che trattavano di argomenti presi dalla vita reale e nei quali i ragazzi potevano ritrovarcisi. Il loro invito è a produrre materiale scritto più fedele agli aspetti complessi ed ambivalenti della vita familiare e soprattutto più fedeli ai conflitti insiti nello sviluppo e nello stesso tempo in grado di offrire ai ragazzi suggerimenti su come cavarsela nelle difficoltà della vita. Io non ho mai trovato niente che si avvicinasse a questo nei testi elementari di mio figlio, e voi? Mi ricordo invece che Simone si entusiasmava ai racconti delle avventure di Ulisse, alle vicende di Cyrano o a storie inventate lì per lì infarcite di fatti della vita quotidiana familiare, rivissuti da personaggi fantastici;
Come: questo fattore è fortemente influenzato dal dove, dal quando e soprattutto dal perché e dal cosa. Volendo andare a cercare gli antecedenti si scopre che Quintiliano nel I° sec. d.C. nel suo manuale pedagogico in dodici volumi dal titolo Institutio oratoria ci racconta che è opinione di molti all’epoca insegnare a leggere solo dopo il compimento del settimo anno di età, ma lui è in disaccordo e sostiene, con Crisippo, che le balie dovrebbero insegnare l’alfabeto ai bambini fin dalla più tenera età. Nella pedagogia della Scolastica l’insegnante leggeva ripetutamente dal suo libro, come si è detto, o copiava alla lavagna senza alcuna spiegazione dato che secondo questa scuola la comprensione non era un requisito per la conoscenza. I testi erano soprattutto gli scritti dei Padri della Chiesa che dovevano essere affrontati secondo passaggi preordinati. Si iniziava con la lectio o analisi grammaticale e da questa si passava alla littera o senso letterale del testo. Attraverso la littera si arrivava al sensus, il significato del testo secondo interpretazioni stabilite. Si terminava con la sententia, esegesi in cui si discuteva l’opinione dei commentatori ortodossi. L’abilità non stava nell’interpretazione originale e personale ma nel citare e comparare le interpretazioni dei più autorevoli interpreti. E perciò di rivoluzione si tratta quando nel 1441 è nominato direttore della scuola latina di Sèlestat, in Francia, Louis Dringenberg che usa in classe solo parti selezionate dei testi e li sottopone alla discussione degli studenti, scartando glosse e commentari canonici ed inoltre, mirabile innovazione, spiega e rispiega su richiesta. Il suo successore, Crato Hofman, addirittura, sostituisce i testi dei Padri della Chiesa con i classici greci e latini, e arricchisce la lettura con una gran quantità di aneddoti archeologici, geografici e storici, utilizzandoli poi per delle letture di analisi grammaticale. Hofman chiedeva ai suoi allievi di “prosciugare il testo di ogni goccia di senso per arrivare a leggere in maniera fluente, accurata e intelligente” gettando così le basi di un nuovo modo di leggere: la lettura stava diventando una esperienza intima; ogni singolo lettore cominciava ad avere responsabilità e autorità individuale sopra ogni testo. Il metodo per imparare a leggere consisteva nell’associare intere parole ai suoni: sul finire del 1600 Nicolas Adam nel suo Vero metodo per apprendere qualsiasi lingua, chiamerà questa tecnica “metodo globale” sostenendo che quando si insegna a parlare ad un bambino gli si mostra l’intero oggetto e poi lo si nomina; così propone di gettare i sillabari ed i manuali operando attraverso l’esposizione dell’intera parola o gruppi di parole. Qualcosa di simile è utilizzato da qualche anno a questa parte in alcune scuole elementari italiane ed è considerato grande innovazione.
Queste sono, sommariamente, le esperienze ed i materiali che compongono il curriculum di lettore di Simone e dei nostri studenti e di ognuno di noi. Ora non riesco più a chiedermi perché mio figlio non legge. Dopo tali osservazioni, la domanda logicamente conseguente è perché dovrebbero leggere, dopo essere stati ingannati, offesi ed umiliati negli anni di formazione di questa abilità. E finalmente capisco perché durante le scuole medie mi ritiravo in una cantina con due amici per leggere di nascosto quello che ci piaceva ma che non era in programma, collezionando una insufficienza dietro l’altra.
Come ho imparato ad aver voglia di leggere
Il percorso di lettore di Simone e dei nostri studenti è stato anche il nostro e nonostante queste esperienze noi leggiamo ancora, alcuni leggono molto o addirittura moltissimo. Le mie stesse uscite voluttuarie sono dedicate per intero alla musica e ai libri. Non per gratuito narcisismo ma per riportare una cronaca esemplificativa ora vi racconto come ho imparato ad aver voglia di leggere. Nel 1964 avevo 11 anni e un pomeriggio, pur di non studiare, ho preso un libro dalla biblioteca di mio padre e mi sono chiuso in camera mia. Mio padre è uno splendido autodidatta. Gli autodidatti hanno un grande difetto, ma così grande che diventa un pregio: hanno la costante sensazione di dover recuperare, temono di essere partiti in ritardo e dato che si sentono in ritardo perenne si interessano, a volte in modo caotico, ad ogni argomento dello scibile; tutt’oggi mio padre alterna letture di astronomia a quelle di storia della musica o di filosofia piuttosto che di archeologia. Quel certo giorno del 1964 ho scorso i titoli dei romanzi e non so per quale motivo mi sono fermato su un volumetto in edizione economica, dal colore insignificante che portava sul dorso la scritta: “Il vagabondo delle stelle – Jack London”. Chissà cosa ha acceso in me quel titolo, ma quello che so è che non mi ha deluso. È la storia di un insegnante di agronomia di una università statunitense che conduce una vita regolare e tranquilla fino al giorno in cui trova sua moglie a letto con un altro. Li uccide, viene condannato e messo in prigione. Qui vive una serie di disavventure che lo portano non solo alla cella di isolamento ma anche alla camicia di forza, e proprio mentre stremato dalla vita del carcere e in carenza di ossigeno per la costrizione dei legacci ha la sensazione di morire, si sente allontanare dal suo corpo fisico: si può sdoppiare e vagare dove più gli aggrada. Comincia a girare per il carcere e, notte dopo notte, va a visitare la città, i suoi parenti, luoghi sconosciuti lontanissimi ed infine impara anche a viaggiare nel tempo: l’antico Egitto, l’Europa del Medio Evo, … Forse è un caso ma il mio primo interesse universitario è stato per Agraria e tuttora coltivo anche letture di argomento metafisico, ma non è questo che interessa qui quanto piuttosto che il libro di cui ho scritto mi ha insegnato ad aver voglia di leggere. Cosa è successo durante quella lettura? Mi sono immedesimato nel protagonista al punto di “volare” al suo posto attraverso lo spazio e la storia: la sensazione precisa ogni volta che ci ripenso è “volare” ed andare dove più desidero, nei luoghi e nei momenti dove mi conduce la nostalgia; lenire la nostalgia con quei viaggi. I miei amici psicologi definirebbero questo una sorta di autoterapia, per riportare equilibrio alle delusioni delle grandi aspettative di quanto avrebbe dovuto darmi l’ingresso nel mondo dei grandi attraverso la scuola media e alle tempeste ormonali che cominciavano a farsi sentire. Forse più semplicemente quel libro, e gli altri che sono seguiti, è servito a creare spazi di libertà: ho scoperto il lato reale dell’immaginazione.
La realtà dell’immaginazione
Sembra una contraddizione in termini ma se vi invito ad immaginare, in questo momento in cui leggete, la porta di entrata di casa vostra, il suo colore, la serratura, la maniglia e poi vi chiedo di entrare e una volta dentro di guardare l’angolo in alto a sinistra della prima stanza, sono sicuro che ognuno di voi ha ricostruito nei minimi particolari quanto ho suggerito… la porta, la serratura, la maniglia, l’angolo in alto a sinistra, … sono realmente presenti anche se mentre state leggendo queste righe vi trovate sull’autobus o a letto o al tavolo di studio. L’immaginazione ricostruisce fedelmente, realmente, oggetti, ambienti, volti che non sono nell’archivio della memoria. L’immaginazione riaccende realmente il passato ma anche il futuro secondo lo schema proposto dal gruppo di Frascati e da me riportato nell’articolo “Memoria, errore, fossilizzazione” negli atti del seminario dell’anno scorso (Humphris, C., 1998); per risonanza accende sia il passato che il futuro immaginato, che un gatto verde con la cravatta che muove passi di tango di fronte al Colosseo. Anche questo ha una dimensione di realtà adesso nella nostra immaginazione. Da qui nasce, tra l’altro, quanto in psicologia prende il nome di mania, psicosi, ossessione, …: dalla realtà dell’immaginazione. Va da sé che la realtà immaginativa è solo un riflesso individuale della realtà concreta. Per realtà concreta si intende quella dimensione in cui sbattiamo contro gli oggetti, in cui ci si scotta le dita sul fuoco e non permette a Massimo Troisi, nel film Ricomincio da tre, di far avvicinare un oggetto per mezzo della sola volontà. Ciò non di meno è la realtà immaginativa che ci permette di campare su questo mondo, ricostruendo in noi l’universo e creando il suo ed il nostro futuro: dal reale immaginato al reale concreto. Lawrence M. Krauss nel suo La fisica di Star Trek ci racconta come la NASA stia studiando la realizzazione degli ammortizzatori inerziali e del teletrasporto, ispirandosi al frutto della fantasia di Gene Roddenberry e degli sceneggiatori della gloriosa serie televisiva. Inoltre scienziati, artisti e inventori di varie discipline raccontano nelle loro biografie come siano arrivati al risultato concreto attraverso l’esatta e particolareggiata ricostruzione immaginativa attraverso sogni notturni o sogni “ad occhi aperti”: dal reale immaginario al reale concreto. Ma a questo punto si pone il problema di come e di cosa sia fatta l’immaginazione. Ho cercato a lungo qualche scritto che affrontasse in modo soddisfacente l’argomento ma tutti gli autori sono elusivi a riguardo, per lo più danno per scontato che esista e che sia una facoltà umana. Non mi ha meravigliato più di tanto; andiamo in aereo, scriviamo con il computer, produciamo cibi transgenici, ingeriamo molecole fantafarmacologiche ma non sappiamo ancora quasi niente della nostra interfaccia con la realtà concreta cioè il cervello, con annessi e connessi. Come si forma un pensiero? E come un pensiero diventa suono attraverso i mezzi di fonazione? E la perturbazione dell’aria che espandendosi nello spazio arriva anche agli appositi strumenti auditivi, attraverso quali processi diventano comprensione nell’altro?: in altre parole quali sono i meccanismi della comprensione? e poi come si forma il dolore o il piacere o la noia? Io credo che queste dovrebbero essere i temi su cui ci dovremmo concentrare, perché un secolo di psicanalisi e millenni di filosofia non hanno ancora dato una soluzione efficace ed alla portata di ognuno, dato che di tutti sono i meccanismi prima ricordati e tutti ne fanno uso quotidiano. L’unico luogo a mia conoscenza che ha come tema principale di ricerca la modalità di formazione del pensiero e ciò che ne deriva, è il “Gruppo di Frascati” che si ritrova presso il centro ENEA di Frascati che ben lontano dall’aver un risultato definitivo, propone l’ancora imperfetto schema del gomitolo per cominciare a discutere di come si formi l’immaginazione. Immaginiamo molti, moltissimi fili di differenti colori che arrivano da direzioni diverse e concorrono in una certa zona; arrivano dotati di una spinta di origine, di una loro energia, e questa energia causa, per intersecazione, un groviglio di fili che man mano si stabilizza fino alla formazione di un gomitolo: disposizione e composizione singolare ed unica di fili. Le figure sottostanti renderanno meglio l’idea.
Il numero di fili che vanno a formare un gomitolo è straordinariamente vasto e ampliabile in relazione all’aumento delle “esperienze personali”, vale a dire delle selezioni singolari da nuovi ambienti, immaginativi o concreti: tutto il materiale che formava il precedente gomitolo relativo proveniente dai luoghi della memoria, si aggiorna di nuovi fili ovvero di nuovi elementi selezionati, che convergono per coerenza nello stesso gomitolo; per rendere meglio l’idea se io oggi riconosco vedendola mia sorella è perché nel luogo dell’immaginazione si accendono tutti i fili che formano il gomitolo che ha il titolo di “mia sorella Gabriella”; se domani si tinge i capelli la riconoscerò nuovamente per mia sorella grazie all’aggiornamento dei fili relativi. Accantonando per un momento le dinamiche del gomitolo, soffermiamoci sui fili, sulla loro natura e sul luogo della loro formazione. I fili possono essere considerati, per miglior comprensione, frammenti di memoria; di questa ben poco si sa al di là del fatto che risiede entro i confini della pelle e che è governata da meccanismi specifici. Questo per ora ci è sufficiente per i nostri fini. Infatti, relativamente al nostro tema, questo ragionamento ci dice che ogni lettore sarà differente dall’altro dato che il numero ed il tipo di fili che risuoneranno saranno diversi e che quindi il gomitolo che ne risulterà sarà unico, come pure i suoi conseguenti e coerenti effetti. I diversi giudizi critici su di un libro, un film o altro dipendono da questo, dall’effetto del personale gomitolo. Chi sostiene la validità di un testo sta esternando l’effetto di piacevolezza o meglio di auspicabilità o inauspicabilità, effetto che già è stato descritto nell’articolo sopra citato degli atti dello scorso anno (Humphris, C., 1998). I fili , come si è detto, originano dal luogo della memoria e si trovano in quel luogo grazie al passaggio di ognuno di noi attraverso diversi ambienti del nostro mondo concreto, i cui elementi sono selezionati in modo singolare, individuale. Fondamentale rimane la ricchezza di esperienze. Solo a questa condizione si potranno creare le condizioni per poter interagire o meno con un testo. Non sapeva niente di tutto ciò Giacomo Leopardi che in una lettera al fratello Carlo del 22 gennaio 1823 scrive: “La filosofia, e tutto quello che tiene al genio, insomma la vera letteratura, di qualunque genere sia, non vale un cazzo con gli stranieri: i quali non sapendo quasi niente d’italiano, non gusterebbero un cazzo le più belle produzioni che si mostrassero in questa lingua”. Alla luce di quanto detto è possibile osservare, in modo più garbato, che ovviamente gli stranieri ed i ragazzi che non abbiano un sufficiente corredo di fili non gusteranno le produzioni di cui parla il poeta nel modo in cui lui le ha gustate. Non c’è colpa caro Leopardi, ma ignoranza. A questo proposito scrive Tullio De Mauro in Capire le parole del 1994 e ristampato inalterato nel 1999: “Alla fine di un secolo che ha dedicato tanta attenzione al linguaggio, si constata che la massima parte degli studi ha riguardato la produzione linguistica e, più in genere, semiotica e gli strumenti, le forme, le regole della lingua considerate sempre dal punto di vista della produzione delle frasi, discorsi. C’è altro da fare? Pare di sì: c’è da esplorare sistematicamente, analiticamente l’altra metà del cielo linguistico e semiotico, e cioè la ricezione e la comprensione”. Non mi sembra azzardato interpretare quanto detto da De Mauro come un mea culpa del mondo accademico e scientifico: ci siamo dimenticati di indagare sulla ricezione e sulla comprensione del linguaggio. E con grande faccia tosta continuiamo ad accusare uno studente o un figlio di non aver capito. Lo accusiamo di non aver capito quello che noi e solo noi abbiamo “capito” di quel certo testo, senza avere la ben che minima idea dei meccanismi attraverso i quali diciamo di aver capito. È arroganza bell’e buona oltre che millantato credito, dato che facciamo credere di essere i detentori della comprensione avvalendoci del nostro ruolo, della nostra posizione sociale. Il millantato credito è punito dalla legge in quanto danneggia ed offende. In quanto insegnanti o genitori abbiamo tre attenuanti: una è che non agiamo per fini di lucro; due l’ignoranza personale, che quanto fatto sia pratica di millantato credito; tre l’ignoranza sociale che ci sostiene in tale pratica. Ciò non di meno danneggiamo e offendiamo.
La storia di Alex
Riporto l’esperienza con uno studente che chiamerò qui Alex. Le uniche informazioni che avevo quando è arrivato alla Dilit erano che nonostante svariati tentativi infruttuosi in altre scuole sia in Italia sia nel suo paese non riusciva neanche a ordinare un caffè, in italiano; chiedeva lezioni private perché, a suo dire, “non poteva stare in una classe”; doveva imparare l’italiano per motivi di lavoro e questi stessi gli permettevano di rimanere a scuola solo per periodi molto limitati. Ho iniziato con le consuete attività per i principianti assoluti ma mi sono ben presto reso conto che tutto sembrava scivolargli addosso, comprese le attività e gli argomenti che riguardavano più da vicino la sua professione. L’impressione prima era di fallimento assoluto seguita da senso di impotenza. Avevo notato un particolare che in un primo momento ho sottovalutato: ogni volta che gli chiedevo di aprire il libro per leggere o gli proponevo una analisi di un testo o un cloze, sudava; la fronte gli si imperlava di sudore e non dipendeva dalla termoregolazione ma dall’attività proposta. Tutto si è fatto chiaro quando una mattina mi ha visto entrare a scuola con un pacco di libri sotto il braccio e si è svolto il seguente scambio:
Alex: “Tanti libri.”
Claudio: “Sì, devo preparare la lezione per un livello alto”.
Alex: “Ma tu hai tanti libri”.
Claudio: “Sì, abbastanza”.
Alex: “Cinquanta?”.
Sono rimasto per un momento attonito: mi stava dicendo che per lui, europeo, di media età, con un lavoro che gli permette un tenore di vita molto buono, il possesso di cinquanta libri era da considerarsi indicativo di chissà quale livello culturale. Mi è automaticamente uscita una domanda:
Claudio: “È molto che non entri in una libreria?”.
Non ho aspettato naturalmente la risposta e gli ho immediatamente proposto di cambiare indirizzo alle nostre lezioni passando dalle attività in classe a visite in vari luoghi della città. Abbiamo cominciato con i mercati rionali, i grandi magazzini, empori di ogni genere e siamo poi passati ai musei, alle chiese, ai siti archeologici… con una unica indicazione: farmi tutte le domande che voleva su tutto ciò che lo incuriosiva. All’inizio si metteva dietro a me e semplicemente mi seguiva, poi ha cominciato a muoversi con scioltezza da solo tanto che al Museo d’Arte Moderna ho temuto di averlo perso; l’ho ritrovato che osservava molto concentrato un quadro di Klimt. “Molto bello” mi ha detto ed ha ripreso a vagare per i corridoi. Dopo di che abbiamo affrontato le librerie, abbiamo seguito i percorsi datici dalle loro classificazioni, abbiamo preso in mano i libri, li abbiamo sfogliati e abbiamo letto gli indici. Ne ha anche comperati due di cucina perché gli piace cucinare ma conosce poco la cucina italiana. Dopo una visita alle Catacombe ha preso anche un testo sulla vita dei primi cristiani.
Questa piccola storia offre svariate riflessioni ma volevo qui soffermarmi su quante riguardano la lettura. Molte volte si classifica come incapace, asino o stupido uno studente che invece semplicemente non ha ancora sufficienti fili per comporre gomitoli così complessi da creare quadri immaginativi abbastanza auspicabili e perciò desiderabili. Le esperienze dei musei, delle chiese, delle Catacombe, il Foro Romano, i laghi vulcanici dei Castelli Romani, il colorato mercato di Piazza Vittorio e di via Sannio, le librerie,… e tutte le informazioni relative, hanno creato un impressionante numero di nuovi fili e di conseguenti possibili combinazioni immaginative in Alex: questo avviene quando si dice che stanno nascendo degli interessi. Una esperienza di questo tipo porta con sé anche una auspicabile conseguenza: Alex comincia ad autorizzarsi a coltivarli, comincia a sentirsi degno. Lo strumento per soddisfare velocemente ed economicamente le curiosità che nascono dalle ricostruzioni immaginative è il libro. Il libro, da questa prospettiva, è perciò strettamente ancorato alla ricchezza del materiale immaginativo. La ricchezza del materiale immaginativo è in relazione alla ricchezza delle esperienze di cui siamo stati, e siamo, protagonisti. Le esperienze sono vissute da protagonista e non da spettatore se si impara ad autorizzarsi, a esserne degni. Nel “Gruppo di Frascati” diciamo che ognuno di noi vuole ricostruire dentro di sé l’intero universo ed ognuno ha diritto di farlo a modo proprio, solo che essendo sprovvisti del libretto di istruzioni su come si formano i pensieri e su molti altri fenomeni che si svolgono all’interno dei confini della nostra pelle, il più delle volte facciamo danni, a noi e agli altri. Ma mi accorgo che i fili dentro la mia testa hanno formato gomitoli immaginativi che stanno portando al di là del tema. Ritornando alla storia di Alex mi rendo conto di essermi comportato probabilmente come Crato Hofman alla scuola latina di Sèlestat nel 1400, di cui si è parlato prima, e invece degli aneddoti, che lui era solito utilizzare a fini educativi, cioè per aumentare il numero dei fili, ho usato i luoghi originali avendo a disposizione una città come Roma; niente di più.
Di quanti fili dispone Simone?
Si è visto che ci si rivolgerà al libro se e quando lo si troverà strumento adeguato, non un attimo prima. E quel momento arriva quando si scopre il collegamento tra il libro, come supporto concreto dell’immaginazione dell’autore, e le risorse dell’immaginazione personale del lettore: infinite combinazioni di fili formano infinite combinazioni di gomitoli. Un libro non contiene un numero finito di fili. Un libro contiene il numero di fili che quel lettore in quel certo momento contiene: se così non fosse tutti intenderemmo nello stesso modo un testo e la sua rilettura non darebbe al lettore ulteriori informazioni e stimoli, come al contrario è per esperienza comune. I fili di quel particolare lettore risuonano con quelli che l’autore ha riversato nel libro: così si crea il rapporto tra quel particolare lettore e l’autore che hanno come interfaccia il libro.
Lettore interfaccia autore
Il libro è una interfaccia che ha come caratteristica l’essere svincolata da tempo e spazio; il rapporto è quello tra lettore e autore o meglio tra i materiali immaginativi dell’uno e dell’altro. Anche l’autore, in quanto umano, evolve il numero dei suoi fili e le loro connessioni e ciò può portare alla modificazione del testo; basta pensare alle stesure de I Promessi Sposi di Manzoni o alle diverse versioni de La cognizione del dolore di Gadda, per arrivare all’unico libro che muta nel tempo insieme allo scrittore come Foglie d’erba di Whitman. Ma di fatto generalmente dal lato dell’autore gli interventi sul testo sono molto limitati o assenti, tanto che gli arabi definiscono il testo come corpo certo; dal lato del lettore invece ogni lettura di uno stesso testo non sarà mai uguale alle precedenti. Scrive M. de Certeau, citato in Storia della lettura a cura di G. Cavallo e R. Chartier, che la lettura non è già iscritta nel testo, questo non ha un senso che per il suo lettore, cambia insieme al lettore e si ordina secondo codici di percezione che ci sfuggono, confermando con questa ultima affermazione ciò che dice De Mauro in Capire le parole. È un rapporto e tra gli umani i rapporti personali privati non sono di tipo obbligato: scelgo io chi invitare a cena o con chi passare le vacanze e così scelgo se avere o meno un rapporto con un autore. Posso scegliere e su questa idea si basa chi sostiene la libertà di leggere o meno. Ma gli esempi qui sopra hanno una particolarità, sono rapporti diretti; il rapporto tra lettore ed autore è mediato dal libro. Il prerequisito a questo rapporto è la confidenza del lettore con il mezzo. Il telefono cellulare è un altro mezzo e attraverso questo posso chiamare, cioè entrare in rapporto, con chi desidero. Ma quando mi hanno regalato il telefono cellulare non sapevo come usarlo, non avevo confidenza con il mezzo. La mancanza di familiarità, di confidenza con un mezzo preclude ogni libero utilizzo del mezzo stesso: il giorno in cui mi è stato regalato, guardavo il cellulare nello stesso modo in cui Alex guardava i libri la prima volta che siamo andati in libreria. Ogni interfaccia, ogni strumento che si voglia usare a scopo educativo va introdotto; questo appare logico se si parla di computer il cui uso sta diventando materia scolastica anche nelle scuole dell’obbligo ma sembra superfluo quando si parla di libri. Non so se esistono insegnanti che introducono all’uso non di un libro in particolare, ma del libro come mezzo. Io non ne conosco ma se esistono attraverso quali pratiche, quali attività utilizzano? In verità un buon esempio di introduzione al libro l’ho visto alla televisione. Nel dicembre 1998 sono andate in onda, su un canale della televisione pubblica, due trasmissioni intitolate Totem la cui organizzazione e realizzazione era di Alessandro Baricco e della scuola Holden di Torino. Baricco ha portato a teatro ed in registrazione televisiva quello che si chiama circolo letterario: presentazione e lettura di brani scelti. La lettura era affidata a professionisti ma quello che catturava l’attenzione erano le presentazioni di Baricco stesso e di Gabriele Vacis. Al di là delle parole che hanno usato, l’operazione è stata quella di far entrare l’ascoltatore nel testo tra una riga e l’altra, portandolo ad essere presente nella vita dei personaggi e dell’autore. Era come trovarsi attorno ad un tavolo, davanti ad un bicchiere, insieme agli autori e gli attori svolgevano il ruolo dell’amico in comune che attraverso aneddoti, commenti, anche pettegolezzi ti descrive chi è e che fa l’altro. In pratica esponevano al pubblico i fili del loro gomitolo relativamente ad una certa lettura e l’esposizione del loro materiale immaginativo era così diretta che accendevano sempre nuovi fili negli ascoltatori. Mi ha fatto piacere sentir parlare di queste trasmissioni e dei libri in esse presentati la mia fornaia con dei clienti e i pendolari sul treno che prendo ogni giorno. Anche Simone ha visto, ha voluto rivedere e commentare parti anche impegnative delle registrazioni. Questo non può che portare a pensare che potenzialmente tutti abbiamo o possiamo avere i fili ed i gomitoli di Alessandro Baricco. Mentre guardavo le persone di cui prima dalla fornaia o sul treno sono rimasto colpito perché dalle loro parole e dai loro visi traspariva la soddisfazione di un ritrovato orgoglio: avevano scoperto di essere degli “intellettuali” al di là della loro occupazione o preparazione scolastica. Didatticamente quelle trasmissioni hanno avuto quindi un duplice effetto: da una parte hanno introdotto al libro come strumento di relazione con l’autore e dall’altra hanno messo o rimesso in contatto le persone con le proprie risorse, e le risorse non hanno limiti. Ambedue questi fattori sono imprescindibili nel percorso di formazione di un lettore: confidenza con il mezzo e confidenza con le proprie risorse. Solo se si verificano queste due condizioni si può parlare di libertà di lettura da parte del lettore. Come si è visto nella parte denominata “Osservazione tramite la esade euristica”, nella scuola gli obiettivi e la pratica didattica porta in direzioni molto diverse, se non opposte, a queste ora descritte.
Libertà di lettura
Conseguentemente a quanto esposto in questo scritto risulta impossibile parlare di libertà di lettura fino a quando non si attueranno momenti di formazione alla confidenza con il mezzo, in questo caso il libro ma non solo, e soprattutto di confidenza con le risorse personali. È l’ignoranza delle risorse e la conseguente autocondanna ad occupare un certo gradino della scala sociale che innesca le reazioni che si registrano in classe: noia, apatia, fastidio, impermeabilità, disinteresse,… Mi sembra quindi limitante quanto sostiene Daniel Pennac quando dice che la libertà del lettore sta anche nel rifiutarsi di leggere: se non c’è conoscenza non c’è libertà. In un certo qual modo i ragazzi sono obbligati dalla loro ignoranza delle loro risorse a non leggere. La distinzione tra lettura di godimento e lettura di piacere che Roland Barthes sostiene ne Il piacere del testo con tutti i suoi corollari erotici è una rispettabile ma personalissima interpretazione ai limiti del feticismo anche se quando dice “Il piacere del testo è quando il mio corpo va dietro alle proprie idee – il mio corpo infatti non ha le mie stesse idee”, esprime qualcosa che si può collegare al concetto di fili e gomitoli, la cui formazione è automatica, o come diciamo a Frascati “autonomatica”, quindi indipendente da ciò che si chiama volontà. Sto compiendo un sacrilegio, per molti, criticando pesantemente un grande personaggio come Roland Barthes che più volte ha dato prova di grande spregiudicatezza e quindi ci ha aiutato a crescere ma la mia è solo osservazione e non critica. Sto proponendo anche a quanti leggono questo scritto una osservazione: anche gli esperti, i professionisti del pensiero non sanno ancora quali siano le dinamiche di formazione di un pensiero e forse occorreranno centinaia o migliaia di anni prima che se ne possa sapere qualcosa. Fino a questo momento, fino a quando non avremo il “libretto di istruzioni” siamo tutti degli artigiani del sapere, come si può riscontrare, nonostante i consigli pieni di buon senso, nel simpatico volumetto di Piattelli Palmarini dal titolo La voglia di studiare, degli artigiani che hanno lo svantaggio di non avere tra le mani la verifica visiva del loro lavoro che quindi rimane entro i confini della loro pelle e perciò difficilmente trasmissibile. Ricordiamocene domani quando proporremo un testo in classe o regaleremo un libro a nostro figlio: stanno percorrendo il loro faticoso, solitario e insondabile tirocinio di apprendisti lettori ed è un lavoro che esige tempo e rispetto.
Ringraziamenti
Ringrazio il “Gruppo di Frascati” per i disegni che appaiono in questo articolo e per le registrazioni che mi sono state messe a disposizione, ringrazio anche la Dilit International House per l’opportunità di applicare quanto vado scrivendo.
Bibliografia
Barthes, Roland, 1994 Variazioni sulla scrittura, Torino, Einaudi.
Barthes, Roland, 1994 Il piacere del testo, Torino, Einaudi.
Bettelheim, B. e Zelan, K., 1989 Imparare a leggere, Milano, Feltrinelli.
Cavallo, G. e Chartier, R. (a cura di), 1998 Storia della lettura nel mondo occidentale, Bari, Laterza.
De Mauro, Tullio, 1994 Capire le parole, Bari, Laterza.
Eco, Umberto, 1995 Lector in fabula, Milano, Bompiani.
Gruppo di Frascati, registrazioni degli incontri ‘97-’98, non in commercio.
Humphris, Christopher (a cura di), 1996 Principianti e la gioia dell’apprendimento linguistico. Atti dell’8° seminario internazionale per insegnanti di lingua, Roma, Edizioni Dilit.
Humphris, Christopher (a cura di), 1997 Parlare. Atti del 9° seminario internazionale per insegnanti di lingua, Roma, Edizioni Dilit.
Humphris, Christopher (a cura di), 1998 Insegnare una lingua: riflessioni e proposte. Atti del 10° seminario internazionale per insegnanti di lingua, Roma, Edizioni Dilit.
Krauss, Lawrence, 1996 La fisica di Star Trek, Milano, Longanesi.
Mandruzzato, Enzo, 1989 Il piacere del latino, Milano, Mondadori.
Manguel, Alberto, 1997 Una storia della lettura, Milano, Mondadori.
Piattelli Palmarini, Massimo, 1991 La voglia di studiare, Milano, Mondadori.
Volli, Ugo, 1994 Il libro della comunicazione, Milano, Saggiatore.