Alcune considerazioni sulla lettura e la programmazione di un corso di lingua
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Solo due tipi di esercizi
Nonostante la miriade di metodi susseguitisi nel tempo, da quando esiste l’insegnamento linguistico ci sono solo due tipi di esercizi: usare la lingua e studiare com’è fatta la lingua. Li possiamo rinominare esercitare un’abilità comunicativa e fare grammatica (comunque la si voglia definire) senza per questo modificare la sostanza. Nell’epoca attuale chi fa soltanto il secondo si colloca tra i tradizionalisti e chi fa solo il primo lo possiamo chiamare krasheniano in quanto il teorico più convinto di una tale strategia è Krashen. Altri insegnanti moderni, noi compresi, fanno uso di tutti e due.
Avverto, però, due difetti nell’approccio moderno più diffuso. Il primo difetto è che spesso i due tipi di esercizi vengono confusi. Per esempio, l’insegnante invita gli studenti ad esprimere le proprie idee ma allo stesso tempo fa capire che devono cercare di non sbagliare la grammatica. Questo miscuglio ha un effetto negativo sul lavoro in quanto l’attenzione da parte dello studente alla seconda consegna inibisce il buon espletamento della prima. Un altro esempio tipico, che ha lo stesso effetto inibitorio, è quando lo studente deve rispondere a domande di comprensione con frasi corrette.
Il secondo difetto che avverto risiede nella ragione per la quale si fa grammatica. In sostanza l’obiettivo sarebbe la memorizzazione della regola sotto esame. Troviamo, appunto, tanti libri di testo che dichiarano con sicurezza “ora avete imparato x“. L’insegnante in linea con questo tipo di libro non esita a sottoporre i suoi studenti a numerosissime “verifiche”, rendendo il corso di lingua più simile al corso alla promozione nell’esercito che al piacevole sentirsi crescere che dovrebbe essere il risultato di ogni apprendimento.
A mio avviso, hanno ragione i moderni nel far uso di entrambi i tipi di esercizi, e vedremo in seguito perché. è importante, però, tenere i due tipi nettamente separati in modo che lo studente sappia che cosa si vuole da lui e che egli possa impegnare fino in fondo la facoltà cognitiva idonea al compito. In sostanza lo studente deve sapere: “Devo badare alle forme o devo badare ai significati? Devo applicare le mie facoltà analitiche o deve dare libero sfogo alla mia fantasia? Devo fare grammatica o devo esercitare un’abilità comunicativa?” L’effetto di una netta distinzione è lo sprigionamento di più energia.
Perché
Adesso vediamo perché è giusto far uso dei due tipi di esercizi. Perché bisogna esercitare un’abilità comunicativa? Nonostante la tenacia dei tradizionalisti, la risposta, a mio avviso, è molto semplice: esercitare un’abilità complessa è il modo più efficace per svilupparla. Se non leggo molto, per esempio, non diventerò mai un bravo lettore. Tutti i bravi lettori sono persone che hanno letto molto. Chi ha letto poco non può essere un bravo lettore.
Detto questo, però, ci si potrebbe chiedere se serve fare grammatica. Invece serve. Non per memorizzare le regole come molti sosterebbero. Non bisogna presumere che dopo aver fatto grammatica gli studenti “sanno” in modo permanente la regola in questione. Serve, invece, a sviluppare la consapevolezza dei fenomeni linguistici e a sviluppare la capacità di individuarli e di ragionare sulle loro forme e sulle loro funzioni. Il lettore seguace di Krashen obietterà che questa consapevolezza metalinguistica e questa capacità metalinguistica non sono necessarie per l’acquisizione linguistica. E forse ha ragione, specialmente se miriamo ad un uso medio della lingua. è vero che esistono molte persone che comunicano piuttosto bene senza aver studiato molta grammatica. è anche vero che se fosse necessario studiare tutta la grammatica per parlare una lingua, non ci arriveremmo mai: non ci sarebbe il tempo materiale.
Un’analogia possiamo trovarla per quanto riguarda la guida di una macchina. è vero che ci sono molte persone al volante che non hanno nessun’idea di come è fatto il sistema che adoperano. A chi si è dato la briga di imparare qualcosa in più, però, non capita di trovarsi per strada con il motore fuso, come non capita di dover rinnovare i cuscinetti della frizione ogni tre, quattro anni.
Già che ci siamo con le analogie, voglio raccontare una storiella, una cosa che mi è capitata mentre scrivevo questo capoverso sul mio computer. (Sarà stata la mano di Dio?) In teoria, io devo solo usare un computer: non devo sapere come funziona, no? Ad un tratto, il tasto “spazio” non rispondeva più al comando. Premevo sul tasto e il cursore non avanzava. Mi trovavo in una roulotte su un’isola in Sardegna, lontanissimo da qualsiasi servizio di assistenza tecnica per i computer. Avevo tre alternative: o continuavo scrivendo tutte le parole attaccate per poi rimettere gli spazi una volta riparato (a Roma) il computer, o smettevo di scrivere aspettando tempi migliori, o ci mettevo le mani io. Pur non conoscendo niente della tecnica dei computer, ho scelto la terza via. Perché? Secondo me perché avevo ricevuto una certa formazione da giovane. In realtà, questa formazione l’avevo ricevuta a casa, non a scuola (uno di quei tanti esempi dell’efficacia del sapere extrascolastico cui dovrebbe prestare più attenzione chi si occupa del sapere scolastico). Mio padre sosteneva, e metteva in pratica, un principio semplicissimo: se qualcosa ha funzionato finora significa che un sistema c’è; e se non funziona ora è perché un fattore è cambiato; basta aprire la scatola e cercarlo. Così ho fatto. Ho trovato sette viti sotto la tastiera, le ho tolte e ho tolto il coperchio. C’era polvere da vendere. Ho pulito tutto, ho riacceso il computer e ho riprovato. Il difetto c’era ancora. La tastiera era attaccata ad una tavola elettronica con altre quattro viti. Le ho tolte e ho pulito la tavola elettronica con un panno e dell’alcool. Ho riassemblato il tutto ed il difetto era scomparso.
Insomma, c’entra questa storiella? Io penso di sì. Ha a che fare con la fiducia in sé. Nonostante un primo fallimento non ho mollato perché, grazie ad una formazione che dimostrava che le macchine sono semplici macchine, sapevo che potevo risolvere il problema. Mio padre non mi aveva insegnato il sistema, bensì un metodo: come leggere il sistema, come cercare il problema. è lo stesso con la lingua: gli studenti devono avere fiducia nelle loro capacità di raffinare il loro linguaggio quando serve, sapendo che per farlo basta applicare un metodo per andare a cercare nei testi e analizzare come ha fatto un esperto.
Quindi Lettura autentica e Lettura analitica
Per quanto riguarda il tema di questo seminario abbiamo, quindi, due classi di attività didattica: la Lettura autentica, in cui allo studente si chiede di cercare di capire, e la Lettura analitica, in cui allo studente si chiede di fare grammatica. Quanto al tempo relativo a dedicare all’una e all’altra, i parere saranno senz’altro diversi, ma a mio avviso, dato il ragionamento soprastante, la prima merita più tempo della seconda; diciamo dell’ordine del 65% contro il 35%. Un altro principio da rispettare possibilmente è di proporre una Lettura analitica unicamente su un testo già trattato in una Lettura autentica. Questo per liberare la mente dello studente da preoccupazioni riguardanti l’intento dello scrittore al momento in cui lo studente si sta domandando come certi significati sono stati veicolizzati. Un ultimo consiglio: fare la Lettura analitica in un giorno diverso da quello in cui si è fatta la Lettura autentica. Questo per evitare la stanchezza provocata dallo stare sempre davanti allo stesso testo.
Un’abilità comunicativa è costituita della somma delle sue parti?
Adesso occupiamoci di una questione molto attuale. Assistiamo a quello che si può chiamare il “trasformismo” di certi insegnanti tradizionali. Davanti alle schiaccianti prove di successo di quegli insegnanti moderni che vedono una parte sostanziale del loro lavoro semplicemente nell’escogitare modi di invogliare gli studenti a leggere e poi nel mettersi in disparte, i tradizionalisti cercano di adeguarsi. Il problema è che la caratteristica fenomenologica dell’insegnante tradizionale è che deve insegnare, e deve essere visto insegnare. Deve essere in azione, altrimenti si sente dimezzato nel suo ruolo. Egli vede la lezione come il suo show, non come quello dello studente.
La salvezza per questi insegnanti risiede nella scoperta che l’abilità lettura si può suddividere in fattori o sottoabilità. Per esempio, una delle sottoabilità che si è scoperta impadronita dal buon lettore è sapere riconoscere rapidamente una qualsiasi sequenza di tre lettere. Che di meglio, allora, che inventare esercizi in cui gli studenti devono esercitare questa sottoabilità? Non sto scherzando: ho visto pochi mesi fa in Francia una videocassetta fatta da formatori al servizio dell’éducation Nationale che dimostrava una lezione in cui ragazzi della scuola media facevano la gara per trovare tutte le parole in un elenco che avevano la stessa sequenza di tre lettere che si trovava nella prima parola. Il commentario diceva che così i ragazzi diventavano lettori migliori. Non sembrava preoccupare che l’esercizio non richiedeva nessun’elaborazione del significato a qualsiasi livello.
Un’altra cosa che sappiamo dalla ricerca è che quando un buon lettore legge, il suo occhio non scorre grafema per grafema in modo continuo, bensì salta e si fissa un attimo (a volte solo 2,3 fissazioni per riga). Non vorrei che fra poco qualcuno inventasse esercizi per abituare l’occhio a fare questo. C’è chi sostiene pure che bisogna sapere cogliere non soltanto il significato delle parole in contesto ma anche il loro significato in isolamento (un’impresa piuttosto ardua, direi). Poi c’è chi dice che bisogna sapere comprendere le parole “letteralmente”, nel senso che bisogna saper richiamare una sola risposta per ogni parola. Io ho provato con la prima parola che mi è venuto in mente, una parola semplice: “bianco”. Il colore della neve? della carta? di un lenzuolo? Sarà, per chi non ha raffinato la percezione grazie alla conoscenza dei pittori impressionisti, e per chi non ha vissuto qualche anno nell’Artico e non sa che la neve ha tanti colori diversi. Il contrario di nero? O un’estremità di un continuum di grigi per chi conosce la televisione in bianco e nero? O il contrario di rosso per chi conosce il vino?
Poi, grazie a Munby, sappiamo che gli studenti devono sapere, fra l’altro, distinguere i grafemi, riconoscere sequenze di grafemi e capire la formazione delle parole (radici, affissi, ecc.)
A chi vuole far esercitare queste sottoabilità una per una possiamo rispondere che, ammesso che facciano tutte parte dell’abilità del buon lettore, comunque sia, vengono applicate al servizio dell’elaborazione dei significati in presenza di un testo significativo. Isolarle da questo scopo significa far perdere tempo agli studenti, i quali appunto potrebbero utilizzare questo tempo leggendo.
Il tempo forzato durante la Lettura autentica
Pur avendo chiarito che ci sentiamo vicini a qualsiasi approccio all’educazione alla lettura che tenga separato il momento dell’analisi dal momento del tentativo di capire e che mantenga integrale l’abilità di lettura, c’è un aspetto di tutte le lezioni dimostrative tenute in questo seminario del quale la ragione d’essere potrebbe non essere immediatamente chiara. Anzi, a prima vista a coloro ai quali ci sentiamo vicini potrebbe sembrare addirittura da condannare.
Insomma , perché costringere gli studenti a leggere uno scritto in un tempo che anche la più rapida delle persone di madrelingua stenterebbe a rispettare? Ci sono, certo, vantaggi dal punto di vista della gestione della lezione [per esempio: i più bravi non devono aspettare gli altri, annoiandosi; il tempo (3, 4, 5 minuti) vola anche per lo studente meno motivato e quindi ci consente di ottenere la sua piena partecipazione; ecc.]. Ma il vero motivo si chiama “colmatura”. Insieme all’annuncio che gli studenti avranno soltanto tot minuti per leggere, gli si dice anche che devono saltare parole, frasi e capoversi interi davanti a qualsiasi difficoltà; e che devono comunque arrivare alla fine. Alla fine del tempo lo studente che ha seguito la consegna alla lettera avrà letto l’inizio, la fine e tutti i pezzi più facili in mezzo. E stranamente quello studente ha una visione dell’insieme del testo (di cui avrà letto forse meno della metà) non completamente arbitraria. Anzi, una visione molto più attendibile di quella di uno studente che l’avesse letto con comodo dall’inizio fermandosi come gli altri allo stop dell’insegnante. Perché? Che differenza fa? A parità di competenza di lettura il secondo studente ha ricevuto la stessa quantità di informazioni del primo (lo stesso numero di minuti di lettura). La differenza sta soltanto nella distribuzione delle informazioni. Le lacune di informazioni per il primo studente sono seguite da altre informazioni: in queste condizioni la mente “colma” facilmente e spontaneamente molte delle lacune. L’altro studente è in una situazione sfavorevole perché dopo la lacuna (la seconda metà del testo, la quale non ha visto per niente) c’è solo il vuoto: la possibilità di indovinare ciò che manca è molto bassa. Per il primo studente tutto il resto della lezione (le discussioni con i compagni, le ulteriori letture) è un piacevole progressivo raffinamento di questa prima visione del testo. L’altro studente, invece, deve ancora cominciare. è già stanco e deve ancora fare la salita. Il primo comandamento della didattica, invece, dovrebbe essere: le lezioni devono essere in discesa.
Per ulteriori considerazioni sulla programmazione di un corso di lingua rimando il lettore a Humphris (1993).
Riferimenti bibliografici
Carroll, J. B. (1970) “The Nature of the Reading Process” in Singer, H., Ruddell, R.B. (eds) Theoretical Models and Processes of Reading, Newark, Del., International Reading Association.
Harrison, C., Dolan, T. (1979) “Reading Comprehension – A Psychological Viewpoint” in Mackay, Barkmann, Jordan (ed.), Reading in a Second language: Hypotheses, Organisation and Practice, Rowley, Massachusetts, Newbury House.
Humphris, C. (1993) “L’ascolto e la programmazione di un corso di lingua” in Humphris, C. (a cura di) Ascoltare: che cosa, perché, come e quanto (Gli atti del 5° Seminario internazionale per insegnanti di lingua), Roma, Edizioni Dilit.
Krashen, S. (1985) The Input Hypothesis, Harlow, Longman.
Munby, J. (1978) Communicative Syllabus Design, Cambridge, Cambridge University Press.